GAETANO MOSCA,
Elementi di scienza politica (1923)

Gaetano Mosca (1858–1941)  
[Created: 2 June, 2024]
[Updated: 2 June, 2024]
The Guillaumin Collection
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Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica. Seconda edizione con una seconda parte inedita. (Torino: Fratelli Boca, 1923).http://davidmhart.com/liberty/ItalianClassicalLiberals/Mosca/1923-ElementiScienzaPolitica/index.html

Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica. Seconda edizione con una seconda parte inedita. (Torino: Fratelli Boca, 1923).

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The first edition of 1896 contained only the first part: Gaetano Mosca, Elementi di scienza politica (Roma: Fratelli Bocca, 1896). [facs. PDF]

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Dilexi justitiam, quaesivi veritatem.

This book is part of a collection of works by Gaetano Mosca (1858–1941).

 


 

[509]

Indice generale

 


 

ALLA DOLCE E CARA MEMORIA
DI MIA FIGLIA GRAZIELLA
DEDICO QUESTE PAGINE
ALLE QUALI HO CONSACRATO
LE ORE MIGLIORI DELLA MIA VITA

 


 

[vii]

PREFAZIONE

Il volume che ora viene alla luce consta di due parti: la prima è la seconda edizione degli Elementi di Scienza politica, che furono pubblicati alla fine del 1895; la seconda è completamente nuova e fu pensata e scritta negli ultimi due o tre anni. 

Essendo infatti da un pezzo esaurita la prima edizione del lavoro sulla Scienza politica, pubblicato quasi trenta anni fa, diventava necessario farne una nuova; ma intanto erano mutati i tempi, nuovi avvenimenti erano maturati ed essi mi fornivano nuovi dati dei quali dovevo tener conto, anche perchè modificavano sensibilmente alcuni dei modi di vedere ai quali mi ero conformato quando scrivevo la prima parte del lavoro. Nè devo nascondere al lettore che a ciò hanno contribuito quelle variazioni che avvengono nel carattere e nella mentalità di qualunque uomo, finchè l'uno e l'altra, con l'età molto avanzata, non si cristallizzano in una forma definitiva.

Date queste mie condizioni intellettuali e morali, o dovevo rifare la prima parte dell'opera o dovevo scriverne un'altra, che perfettamente corrispondesse alla mia odierna maniera di pensare. Ho scelto quest'ultima soluzione, aggiungendo alla prima parte del lavoro solo le poche note che sono segnate con un asterisco, anche perchè tenevo a mantenere integra l'interpretazione che molti anni fa avevo dato ad alcuni importanti problemi politici, interpretazione che fatti recentissimi hanno oggi confermato.

Ma, tanto nella prima che nella seconda parte del presente lavoro, mi sono sforzato di mantenermi fedele al metodo che, fin da quando ancora giovanissimo scrivevo la Teorica dei governi, ho adottato e che poi ho cercato sempre di praticare apportandovi tutti i miglioramenti di cui ero capace. Da moltissimi anni sono convinto che l'unico sistema possibile col quale l'uomo può fino ad un certo punto dominare le proprie passioni e migliorare le proprie sorti consiste nello studio della psicologia umana individuale e collettiva. Fin da un'epoca molto remota la saggezza ellenica avea giudicato che la maniera più efficace che avea l'uomo per elevare il proprio carattere e moderare gli effetti di alcuni suoi istinti consistesse nella conoscenza di se stesso. È quindi spiegabile se ho creduto e credo fermamente che un simile metodo possa applicarsi con uguali risultati allo studio della psicologia collettiva. Esso anzi fu già ad essa applicato più di ventidue secoli fa, nell'epoca cioè nella quale il grande Aristotile scriveva la sua Politica, e ben altri risultati potrebbe dare oggi quando, mercè il progresso degli studi storici, geografici e statistici, conosciamo tanta parte del passato e del presente dell'umanità. Aggiungerò che l'esempio dell'Economia politica la quale, studiando collo stesso sistema i fenomeni economici, ha potuto sicuramente mettere in evidenza alcune delle leggi che li regolano, mi ha oltremodo confortato a persistere nella via che da un pezzo avevo scelto. 

Naturalmente non mi nascondo le grandi difficoltà che presenta l'uso del metodo che ho rapidamente accennato, fra le quali occupa uno dei primi posti la quantità di cognizioni esatte che esso richiede su tutto quanto è accaduto ed accade nelle società che hanno una storia; nè io mi lusingo di averle tutte superate. Quindi posso soltanto affermare che ho fatto del mio meglio, fiducioso che, se la civiltà umana saprà superare la procella che oggi la minaccia, la modesta opera mia potrà essere da altri continuata e perfezionata e che potranno essere a poco a poco colmate tutte le grandi lacune che essa oggi presenta.

Dirò, per ultimo, che mi sono sforzato di comprimere tutte quelle passioni e quei sentimenti che potevano annebbiare la visione obiettiva dei fatti sui quali dovevo fondare le mie conclusioni. Riconosco che la completa riuscita di questo sforzo esigerebbe che l'uomo non fosse più tale, ma credo di aver fatto tutto ciò che, mercè la buona fede e la buona volontà, si poteva in questo senso ottenere. Prossimo a chiudere la mia carriera scientifica, ho fermamente voluto esporre, senza odi, senza collera, senza entusiasmi, colla serenità che solo l'età avanzata può dare, tutto quanto lo studio degli avvenimenti e del carattere umano aveva potuto insegnarmi.

Torino, dicembre del 1922.

Gaetano Mosca.

 


 

PARTE PRIMA

Dilexi justitiam, quaesivi veritatem.

[1]

CAPITOLO I.
Il metodo nella scienza politica.

I. Origini e scopi della scienza politica. — II. Perchè si è scelta questa denominazione. — III. Il metodo sperimentale e l'origine delle scienze. — IV. Varie applicazioni di questo metodo nella scienza politica. — V. Sistema che dà la prevalenza all'ambiente fisico nello studio della scienza politica. — VI. Della prevalenza dei popoli del settentrione su quelli del mezzogiorno. — VII. Continua lo stesso argomento. — VIII. I vari tipi di organizzazione politica e le diversità di clima. — IX. Importanza della diversa configurazione del suolo. — X. Sistema che fa dipendere i fenomeni politici dalla diversità delle razze umane. — XI. Razze superiori ed inferiori. — XII. Il genio delle razze. — XIII. Il sistema evoluzionista e la lotta per l'esistenza. — XIV. Il progresso politico ed il miglioramento fisico delle razze umane. — XV. Riassunto delle teoriche evoluzioniste. — XVI. Il metodo storico fondato sulla identità fondamentale delle tendenze ed attitudini politiche delle grandi razze umane. — XVII. Nuovi materiali di cui questo metodo dispone. — XVIII. Obiezioni che ad esso si fanno. — XIX. Condizioni alle quali questo metodo può essere bene adoperato. — XX. Continuazione dello stesso argomento e conclusione.

I. — Da molti secoli si è affacciata alla mente dei pensatori l'ipotesi che i fenomeni sociali, che davanti ad essi si svolgevano, non fossero meri accidenti, nè la manifestazione di una volontà soprannaturale ed onnipotente, ma piuttosto l'effetto di tendenze psicologiche costanti, che determinano l'azione delle masse umane. Fin da Aristotele si è cercato di scoprire le leggi e le modalità che regolano l'azione di queste tendenze e lo studio, che ha avuto questo obietto, si è chiamato politica.

Nei secoli decimosesto e decimosettimo molti scrittori, in Italia specialmente, si occuparono di politica [1]. Però essi, a cominciare da Machiavelli, che è fra tutti il più famoso, non si occuparono tanto di determinare quelle tendenze costanti in tutte le società umane, che abbiamo già accennato, quanto d'investigare le arti per le quali un uomo od una classe di persone potevano arrivare a disporre del supremo potere, in una data società, ed a difendersi contro gli sforzi di coloro che li volevano surrogare. Si tratta di due cose, che, sebbene abbiano qualche punto di contatto tra loro, pure sono sostanzialmente diverse [2]. Un esempio, che crediamo molto calzante, dimostra ciò assai meglio di un lungo ragionamento. L'Economia politica studia le leggi o le tendenze costanti, che regolano nelle società umane la produzione e la distribuzione della ricchezza: ma questo studio non equivale in niun modo all'arte di arricchirsi e di conservare le dovizie. Un valentissimo economista può infatti essere assolutamente inetto a costituirsi un patrimonio, ed un banchiere, un industriale, uno speculatore, sebbene possano ricavare qualche lume dalla conoscenza delle leggi economiche, non hanno bisogno di esserne maestri e riescono del resto a fare abbastanza bene i loro affari anche se completamente le ignorano.

II. — Ai giorni nostri lo studio iniziato da Aristotele si è suddiviso e specializzato, sicchè più che la scienza abbiamo le scienze politiche. Inoltre si è cercato di fare la sintesi, di coordinare i risultati di queste scienze ed è nata così la Sociologia. Anche gli scrittori di diritto pubblico, i quali interpretano e commentano le leggi positive, quasi sempre sono trascinati all'indagine delle tendenze generali alle quali queste leggi sono inspirate, e gli storici, che narrano gli avvenimenti umani, dall'esame di questi hanno spessissimo cercato di dedurre le leggi che li regolano e li determinano. Così fecero nell'antichità Polibio e Tacito, nel secolo decimosesto Guicciardini, nel secolo presente Macaulay e Taine. Filosofi, teologi, giuristi, quanti hanno avuto per fine diretto od indiretto dei loro lavori il miglioramento della umana società, ed hanno perciò esaminato le leggi che ne regolano l'organizzazione, possono essere considerati, almeno da un lato, come studiosi di scienze politiche. Sicchè forse una buona metà dello scibile umano, una somma immensa di sforzi intellettuali, che l'uomo ha impiegato alla ricerca del suo passato, a scrutare il suo avvenire, a studiare la propria natura morale e sociale, si può considerare come ad esse consacrata.

Fra le scienze politiche o sociali una branca ha finora raggiunto una maturità scientifica tale che, per la sicurezza e l'abbondanza dei risultati acquisiti, si lascia notevolmente indietro tutte le altre. Intendiamo alludere all'Economia politica.

Infatti verso la fine del secolo decimottavo alcuni ingegni potenti hanno isolato i fenomeni riguardanti la produzione e la distribuzione della ricchezza dagli altri fenomeni sociali, ed, isolatamente guardandoli, sono riusciti a determinare molte delle leggi o tendenze psicologiche costanti alle quali ubbidiscono. L'isolamento dei fenomeni economici dagli altri rami delle scienze sociali, e specialmente l'uso invalso di considerarli come indipendenti dagli altri fenomeni, che riguardano l'organizzazione dei poteri politici, se da una parte spiega i rapidi progressi dell'Economia politica, dall'altra è forse la causa principale per la quale alcuni postulati di questa scienza sono ancora soggetti a discussione. Sicchè forse, coordinando le proprie osservazioni con altre che riguardano altri lati della psicologia umana, l'Economia politica potrà fare nuovi e decisivi passi in avanti [3].

È indiscutibile però che non si possono studiare le tendenze che regolano l'ordinamento dei poteri politici senza tener conto dei risultati che l'Economia politica, questa scienza sorella che ha raggiunto più presto la sua maturità, ha di già ottenuto. Noi lo studio delle tendenze suddette, che forma oggetto di questo nostro lavoro, chiamiamo Scienza politica. Ed abbiamo scelta questa denominazione perchè fu la prima usata nella storia dello scibile umano, perchè ancora non è caduta in disuso [4], ed anche perchè il nome nuovo di Sociologia, che, dopo Augusto Comte, si è da molti scrittori adottato, non ha ancora una significazione ben determinata e precisa e, nell'uso comune, comprende tutte le scienze sociali, fra le quali anche le economiche e quelle che hanno per obietto lo studio delle leggi che determinano la delinquenza, anzichè quell'una, che ha per suo scopo principale l'esame dei fenomeni, che più propriamente e specialmente si chiamano politici.

III. — Una scienza risulta sempre da un sistema di osservazioni fatte sopra un dato ordine di fenomeni con speciale cura, con appropriati metodi e coordinate in modo da giungere alla scoperta di verità indiscutibili, che all'osservazione volgare e comune sarebbero rimaste ignote.

Le scienze matematiche forniscono l'esempio più semplice e più facile per porre in luce come si forma il procedimento scientifico. L'assioma è il frutto di un'osservazione accessibile a tutti e la cui verità salta subito agli occhi anche dei profani; richiamando e coordinando diversi assiomi si arriva alla dimostrazione dei più facili teoremi, e poi, coordinando ancora le verità ricavate da questi teoremi con quelli degli assiomi, si arriva alla dimostrazione di nuovi teoremi più difficili ancora, e la cui verità non si può intuire nè provare da chi in quelle scienze non sia iniziato. Analogamente si procede nella fisica e nelle altre scienze naturali, ma in esse il metodo comincia a complicarsi con nuovi elementi: spesso non basta coordinare parecchie osservazioni semplici per ottenere la dimostrazione di una verità, che chiameremo composta, ossia non percepibile a prima vista, ma, nella maggior parte dei casi, ciò che in matematica è l'assioma si ottiene per mezzo di un esperimento o di lunghe esperienze. Or sì l'uno che le altre hanno un valore quando si fanno con metodi speciali ed accurati e da persone che a questi metodi sono state debitamente iniziate. Nei primordi delle singole scienze il vero procedimento scientifico è quasi sempre dovuto ad ipotesi felici, che poi sono state provate dalle esperienze e dalle osservazioni dei fatti, e che alla loro volta hanno spiegato moltissime altre esperienze e moltissimi altri fatti. Quasi sempre un lungo periodo d'empirismo, dei sistemi sbagliati, che impedivano di coordinare utilmente i dati che si raccoglievano sui singoli fenomeni, dei metodi di osservazione imperfetti od errati hanno preceduto il periodo veramente scientifico di una data disciplina. È così che, per lunghi secoli, l'astronomia e la chimica si son dibattute negli errori e nei vaneggiamenti dell'astrologia e dell'alchimia. Solo dopo che i cervelli umani si sono affaticati per molto tempo sopra un dato ordine di fenomeni, l'abbondanza dei dati raccolti, il perfezionamento dei metodi e degli strumenti materiali dell'osservazione, la intuizione e la lunga pazienza di potenti ingegni hanno prodotto quelle ipotesi felici, che abbiamo accennato, ed hanno reso possibile una vera scienza.

Da quanto abbiamo detto si deduce facilmente che non basta per ottenere dei veri risultati scientifici che, sopra un dato ordine di fenomeni, si proceda col sistema dell'osservazione e dell'esperienza. Francesco Bacone si illuse, e forse anche molti pensatori e scrittori nostri contemporanei si fanno illusioni, sulla capacità assoluta che il detto sistema ha nello scoprire la verità scientifica [5]. In verità perchè l'osservazione dei fatti e l'esperienza diano buoni risultati sono necessarie le condizioni che abbiamo testè accennato; malamente usate e quando il procedimento scientifico è errato conducono a scoperte fallaci e possono anche dare un colore di serietà a vere sciocchezze. In fondo l'astrologia e l'alchimia, che abbiamo già citato, erano fondate sopra vere o pretese osservazioni di fatti ed esperienze: ma il metodo di osservazione, o meglio il punto di vista che tutte le informava e coordinava, era profondamente errato. Il famoso Martino Delrio quando scriveva il suo libro De disquisitione magicarum, credeva di fondarsi sull'osservazione dei fatti determinando le differenze fra il maleficio amatorio, l'ostile ed il sonnifero e rivelando le arti ed i costumi delle streghe e dei maliardi, ed intendeva appunto che la sua esperienza dovesse giovare a scoprirli ed a premunirsene. Credevano di fondarsi pure sull'osservazione dei fatti gli economisti anteriori ad Adamo Smith, che la ricchezza di una nazione facevano unicamente consistere nel denaro e nella produzione della terra; e sui fatti e sulle esperienze quasi universalmente riconosciute dai suoi contemporanei si basava don Ferrante, tipo dello scienziato del seicento dipinto cosi efficacemente dal Manzoni, quando con un ragionamento, nelle apparenze e nella forma perfettamente logico e positivo, volea provare l'impossibilità che esistesse il contagio della peste bubbonica [6].

IV. — La scienza politica non crediamo che neanche ora, sia entrata interamente nel vero periodo scientifico. Sebbene uno studioso possa in essa vedere molte cose, che sfuggono all'attenzione di un profano, pure non ci pare che possa fornire un complesso di verità indiscutibili, riconosciute da tutti coloro che in questa disciplina sono iniziati, e molto meno che abbia già acquistato un metodo d'indagini sicuro e da tutti universalmente accettato. Le cause di questo fatto son varie, ma noi per ora ci asterremo dallo esporre il nostro pensiero in proposito. Diremo soltanto che ci pare che esse non siano per nulla attribuibili a deficienza degli ingegni, che sopra gli argomenti politici hanno meditato, ma piuttosto alla maggiore complessità dei fenomeni che ad essi si riferiscono, e sopratutto alla quasi impossibilità, che ci è stata fino a pochi decennii fa, di avere larga ed esatta cognizione di quei fatti, dallo studio dei quali può ricavarsi la nozione di quelle leggi o tendenze costanti, che regolano l'ordinamento politico delle società umane.

Per quanto possiamo crederli incompleti o manchevoli, è intanto nostro dovere di fare un rapido esame dei vari metodi o sistemi d'idee coi quali si è proceduto finora allo studio della scienza politica. Parecchi di essi non sono stati e non sono che una giustificazione più o meno filosofica, teologica o razionale di certi tipi di organizzazione politica, che hanno avuto per secoli una parte importante, e talvolta l'hanno ancora, nella storia dell'umanità. Giacchè, come vedremo più avanti, una delle tendenze sociali più costanti è appunto questa di spiegare mediante una teoria razionale od una credenza soprannaturale la forma di Governo esistente. Abbiamo avuto perciò una pretesa scienza politica a servizio di quelle società in cui le credenze soprannaturali predominano ancora negli animi umani, e nelle quali perciò l'esercizio dei poteri politici trova la sua spiegazione nella volontà di Dio o degli Dei, e abbiamo avuto, e abbiamo, un'altra scienza politica che gli stessi poteri legittima volendone fare una libera e spontanea espressione della libera volontà del popolo, ossia della maggioranza degli individui che compongono una data società. Dobbiamo però a preferenza occuparci di due fra tutti questi sistemi e metodi di osservazione politica, i quali hanno un carattere più obiettivo ed universale e tendono a trovare le leggi con cui si spiega l'esistenza di tutte le varie forme di regime politico, che esistono nel mondo.

Questi due metodi sono: quello che fa dipendere la differenziazione politica delle varie società dalla varietà dell'ambiente fisico, e sopratutto del clima dei paesi in cui esse abitano, e l'altro che la fa dipendere principalmente dalle differenze fisiche, ed in conseguenza psicologiche, che vi sono fra le diverse razze umane. L'uno fa prevalere nelle scienze sociali il criterio dell'ambiente fisico, l'altro quello etnologico o somatico. Tutti e due hanno una parte troppo importante nella storia della scienza, ed anche nella scienza contemporanea, ed un carattere apparentemente troppo positivo e sperimentale perchè ci sia possibile il dispensarci d'esaminarne il vero valore scientifico.

V. — A cominciare da Erodoto ed Ippocrate e venendo fino al secolo presente, grandissimo è il numero degli scrittori, che hanno parlato dell'influenza del clima sui fenomeni sociali in genere e specialmente sui fenomeni politici. Molti hanno anche cercato di provarla ed hanno su di essa fondato intieri sistemi scientifici. Fra questi primeggia il Montesquieu, il quale forse più recisamente di ogni altro ha affermato l'influenza preponderante del clima sul senso morale e sull'ordinamento politico delle nazioni: “Avvicinandovi ai paesi del Mezzogiorno voi potete credere di allontanarvi dalla morale stessa” scrisse nello Spirito delle leggi, ed in altro brano della stessa opera sentenziò che la libertà è incompatibile con i paesi caldi e che essa non prospera dove fiorisce l'arancio. Altri scrittori ammettono che la civiltà sia nata nei paesi caldi, ma sostengono pure che il suo centro di gravità si sia andato sempre più spostando verso il nord e che ivi oggi sono posti i paesi politicamente meglio organizzati [7].

Cominciando a trattare quest'argomento ci pare quasi superfluo il rammentare che il clima di un paese non dipende esclusivamente dalla sua latitudine ma risente anche l'influenza di altre circostanze, quali sarebbero l'altezza sul livello del mare, l'esposizione, i venti dominanti, ecc. Bisogna anche avvertire che non tutto l'ambiente fisico dipende dal clima, cioè dalle variazioni termometriche ed idrometriche; concorrono a determinarlo anche altre circostanze, ad esempio la maggiore o minore popolazione, che una contrada può avere, e perciò il grado al quale vi è arrivata la cultura del suolo ed anche il genere di cultura più comunemente in uso [8].

È innegabile poi che l'influenza, che il clima può esercitare in tutta la vita e sull'ordinamento politico di un popolo, deve andare continuamente diminuendo col crescere della civiltà. Il regno vegetale è senza dubbio quello più sottomesso alle condizioni atmosferiche e telluriche, perchè le piante, tranne che non siano allevate nelle stufe, mancano quasi assolutamente dei mezzi di reagire e difendersi contro le influenze esterne. Gli animali lo sono già di meno, perchè per essi la difesa e la reazione non è del tutto impossibile. L'uomo, anche selvaggio, lo è ancora meno, perchè sempre superiori a quelli degli animali sono i suoi mezzi di difesa, e meno di tutti lo è l'uomo d'avanzata civiltà, che dispone di tali risorse da risentire relativamente ben poco gli effetti dei cambiamenti di clima, e queste risorse tuttodì va aumentando e perfezionando.

Ciò premesso, ci pare un concetto ovvio ed accettevole questo: che le prime grandi civiltà siano nate nei siti dove la natura presentava più facilitazioni o minori resistenze; sicchè generalmente esse hanno prosperato nelle grandi vallate di clima piuttosto caldo e bene irrigue, che, con relativa facilità, permettono la cultura di qualche cereale, cultura necessaria al sostentamento di grandi masse umane in spazii relativamente piccoli [9].

Questa induzione è confermata dalla storia, che ci mostra le prime civiltà essere sorte nelle vallate del Nilo, dell'Eufrate, del Gange e del fiume Giallo, oppure nell'altipiano di Anahuac, paesi che appunto presentano tutte le condizioni fisiche da noi accennate. Una volta però che l'uomo è riuscito, in un sito eccezionalmente favorevole, ad organizzare le sue forze in modo da domare la natura, può in seguito vincerla in altri luoghi, nei quali essa si mostra più restia. Ai giorni nostri, tranne le contrade polari e forse qualche regione equatoriale e qualche altra, che, per malaria o soverchia aridità, presenta specialissime condizioni sfavorevoli, tutti gli altri paesi sono o possono diventare suscettibili di albergare popoli civili.

VI. — La regola per la quale la civiltà si espande sempre dal sud verso il nord, o meglio dai paesi caldi ai freddi, ci pare una di quelle formole sempliciste, che hanno la pretesa di spiegare, mediante una causa unica, fenomeni molto complessi. Essa non si fonda che sopra un frammento della storia, su quella di un solo periodo della civiltà europea, ed anche questo superficialmente studiato. Esaminando con metodo analogo una carta geografica, osservando ad es. quella della Germania settentrionale o della Siberia, si potrebbe trarne la legge che tutti i fiumi scorrono da sud a nord, perchè ciò avviene in quei paesi, che hanno le alture a mezzogiorno ed il mare a tramontana. La regola potrebbe essere invertita se si osservasse la Russia meridionale, e nell'America meridionale potrebbe trovarsene una terza : cioè che i fiumi scorrono da ovest ad est. La verità è che i fiumi, senza alcun riguardo alla latitudine od alla longitudine, scorrono sempre dall'alto in basso, dal monte o dagli altipiani verso il mare od i laghi. E diremmo quasi che, considerando come contrade più basse quelle dove si trova meno resistenza, analoga è la legge che regola l'espansione delle varie civiltà. Il movimento incivilitore procede indifferentemente da sud a nord e da nord a sud, ma va sempre a preferenza verso quella direzione nella quale incontra minori ostacoli naturali e sociali; ed intendo per questi ultimi l'urto di un'altra civiltà originale, che si espande in senso inverso alla prima.

Difatti la civiltà chinese, nata nelle provincie centrali dell'impero, a nord è stata fermata dagli sterili e freddi altipiani dell'Asia centrale, mentre al sud si è potuta estendere non solo nelle Provincie meridionali della China propriamente detta, ma anche nell'Indochina. Anche la civiltà indiana trovando al nord la quasi insuperabile catena dell'Imalaia si è estesa dal nord al sud, dall'India settentrionale nel Deccan e poi anche a Ceylan ed a Giava. La civiltà egiziana si estese a nord finchè trovò nella Siria settentrionale la potente confederazione dei Khetas, cioè l'urto di un'altra civiltà; potè al contrario espandersi maggiormente al sud, risalendo il corso del Nilo da Menfi a Tebe e da Tebe a Meroe [10]. La civiltà persiana, erede di quelle antichissime della Mesopotamia. si estese da oriente ad occidente, direzione nella quale trovava meno ostacoli naturali, finchè non urtò nella civiltà greca. Alla sua volta la civiltà greco-romana, abbracciando tutto il bacino del Mediterraneo, limitata al sud da deserti insuperabili, all'Est dalla civiltà orientale, rappresentata dall'impero partico e poi dal persiano, si estese a nord finchè non incontrò le paludi e le foreste, allora difficilissime, della Germania settentrionale e della Scozia.

Anche la civiltà maomettana, limitata al sud dal mare e dal deserto, dovette avanzarsi verso il nord-ovest. Nel Medio Evo la civiltà europea, stretta al sud dalla civiltà araba, che le tolse tutta la parte meridionale del bacino del Mediterraneo, si allargò verso il nord, acquistando la Scozia, la Germania settentrionale, la Scandinavia e la Polonia. Al giorno d'oggi la civiltà europea si estende in tutte le direzioni, dovunque vi sono terreni scarsi di popolazione e facilmente colonizzabili o nazioni di civiltà decaduta che aspettano chi le conquisti. Ed aggiungiamo che anche il centro, il focolare precipuo di una civiltà si sposta, secondo che essa si estende in un senso o nell'altro, obbedendo alla legge che abbiamo accennato. I paesi che stanno alla frontiera di un tipo di coltura umana non sono ordinariamente quelli che in essa eccellono. Quando la civiltà europea abbracciava l'intero bacino del Mediterraneo, la Grecia propriamente detta e l'Italia meridionale stavano al centro del mondo civile ed erano i paesi più prosperi, più colti, più ricchi; quando diventarono la più avanzata avanguardia, che stava di fronte al mondo maomettano, necessariamente decaddero [11].

VII. — Ipotesi pure molto arrischiata ci pare quella che attribuisce una moralità superiore ai popoli del settentrione di fronte a quelli del mezzogiorno. La moralità risulta da qualità così complesse dell'animo e della mente, ed hanno tanta parte nelle sue affermazioni positive e negative le circostanze esteriori in cui si svolge la vita umana, che è già un giudizio abbastanza difficile il determinare se un singolo individuo sia potenzialmente più morale di un altro; e lo stesso giudizio diventa difficilissimo quando lo si vuol fare rispetto a due società, a due masse umane composte di numerosissimi individui. I dati statistici su questo argomento non possono dir tutto e spesso non dicono neanche abbastanza, e le impressioni personali, quasi sempre troppo subiettive [12] sono anche più fallaci delle statistiche.

Il vizio, che più comunemente si attribuisce ai meridionali, è la lussuria, mentre la ubbriachezza è più generalmente imputata ai settentrionali. Ma si può invero osservare che i Negri del Congo si ubbriacano più vergognosamente dei contadini russi e degli operai svedesi e quanto alla lussuria pare che le abitudini ed il tipo di organizzazione sociale, che ogni popolo per una serie di circostanze storiche si è creato, vi influiscano più del clima. San Vladimiro, lo czar che santificato diventò il patrono di tutte le Russie, prima di convertirsi al cristianesimo teneva più donne nei suoi serragli di quante ne poteva avere il califfo Harun-al-Raschid ed Ivan il terribile per la crudeltà come per la lussuria emulò e superò Nerone, Eliogabalo ed i più feroci sultani dell'oriente. Ai giorni nostri la prostituzione di Londra, Parigi e Vienna ha forse superato quella antica di Babilonia e di Delhi. Nell'Europa odierna il massimo dei reati di libidine lo presenta la Germania, vengono dopo in ordine decrescente, il Belgio, la Francia, l'Austria-Ungheria; l'Italia occupa un posto vicino al minimo, il quale è segnato dalla Spagna [13].

Molti fra i sociologi criminalisti generalmente ammettono che nel Sud prevalgono i reati di sangue, quelli contro le persone, mentre attribuiscono al nord un maggior numero di reati contro la proprietà [14]. Ma il Tarde ed il Colajanni hanno dimostrato all'evidenza che le relazioni, che si sono volute trovare tra le varie forme della delinquenza ed il clima sono piuttosto da attribuirsi alle differenze di condizioni sociali, che talora si riscontrano tra le varie regioni di uno stesso Stato [15]. È vero che negli Stati Uniti d'America, in Francia e anche in Italia si osserva costantemente una prevalenza dei reati di sangue al sud, mentre al nord vi è un numero relativamente maggiore di reati contro la proprietà, ma come fa rilevare benissimo lo stesso Tarde, in tutti questi paesi le contrade meridionali sono più prive di comunicazioni, più lontane dai grandi centri industriali e dai focolari della odierna civiltà delle contrade settentrionali; or è naturale che la forma violenta della criminalità prevalga, indipendentemente dal clima, nei paesi più rozzi, mentre la criminalità astuta diventa più comune in quelli più colti. E tanto è vero che questa è la migliore spiegazione del fenomeno, che i dipartimenti francesi dove la criminalità violenta è più elevata sono, è vero, nel mezzogiorno della Francia, ma hanno un clima relativamente freddo perchè montagnosi [16]. Ciò si osserva anche in Italia, dove la Basilicata, contrada che ha dato uno dei più forti contingenti dei reati di sangue, è un paese montagnoso di clima relativamente freddo, e son coperti di neve per gran parte dell'anno i gioghi del Matese, del Gargano e della Sila e quelli dove stanno alcuni Comuni della Sicilia famosi per imprese sanguinarie e brigantesche [17].

VIII. — Venendo poi alla parte strettamente politica della quistione diremo che, prima di sentenziare che i meridionali siano incapaci di libertà, bisogna intendersi sul significato preciso e scientifico di questa parola. Se ammettiamo che paese più libero sia quello in cui i diritti dei governati sono meglio difesi contro l'arbitrio personale e la voglia di prepotere dei governanti, dobbiamo convenire che istituzioni politiche sotto questo riguardo ritenute migliori, sono state in vigore tanto in paesi freddi quanto in altri temperati molto, come, ad esempio, la Grecia e Roma. Viceversa l'arbitrio dei governanti innalzato a sistema di governo si può trovare anche in paesi freddissimi come la Russia. Il sistema costituzionale non ebbe inizi più vigorosi nella brumosa Inghilterra che nell'Aragona, nella Castiglia ed in Sicilia [18]. Ammesso che presentemente le diverse modalità di governo rappresentativo possano essere riguardate come le forme di regime politico meno imperfette, noi le troviamo in vigore in Europa, tanto al nord che al sud, e, fuori d'Europa, funzionano forse tanto bene nel freddo Canada che al Capo di Buona Speranza, dove il clima, se non caldo addirittura, è certo temperatissimo.

La ragione per la quale i meridionali dovrebbero essere meno atti ad un regime politico libero ed elevato non può essere altra che questa: che essi hanno minore energia fisica e sopratutto minore energia morale ed intellettuale. È infatti una opinione molto comune che i settentrionali siano destinati con la loro superiore energia, che si esplica nel lavoro, nelle armi, nelle scienze, a conquistare sempre i fiacchi meridionali. Ma questa opinione è anche più superficiale e più contradetta dai fatti di quelle che abbiamo precedentemente confutato. Invero le civiltà nate e sviluppate in climi caldi o molto temperati ci hanno lasciato monumenti, che testimoniano di una avanzata cultura e di una incalcolabile energia di lavoro, che riesce più maravigliosa quando si rammenta che esse non disponevano di quelle macchine, che ora centuplicano le forze dell'uomo. La laboriosità di un popolo più che dal clima pare che dipenda da abitudini che sono in gran parte determinate dalle sue vicende storiche. In generale hanno abitudini laboriose i popoli di antica civiltà, pervenuti da lungo tempo allo stadio agricolo e che pure da lungo tempo hanno goduto di un regime politico tollerabile, il quale assicura ai lavoratori una parte almeno del frutto dei propri sforzi. Al contrario i popoli barbari e semibarbari, o ricaduti in una parziale barbarie, abituati a vivere in parte di guerra e di ladroneccio, fuori della guerra e della caccia sogliono essere pigri ed inerti. Come tali infatti Tacito descrive i Germani antichi, tali sono adesso le Pelli Rosse dell'America settentrionale e oltremodo pigri sono pure i Calmucchi, sebbene i primi abbiano abitato e gli altri abitino ancora in paesi molto freddi. Al contrario laboriosissimi sono i Chinesi delle provincie meridionali e con gran tenacia sanno lavorare i Fellah egiziani. E se la mancanza di grandi industrie nella parte più meridionale dell'Europa ha fatto nascere ed alimenta il pregiudizio che i suoi abitanti siano poco laboriosi, chi conosce bene quelle popolazioni sa benissimo che in generale quest'accusa è poco meritata [19].

Se ammettiamo che la superiorità militare sia una prova di maggiore energia, in verità è difficile stabilire se i settentrionali abbiano vinto e conquistato i meridionali più di frequente di quello che ne siano stati alla lor volta vinti e conquistati. Eran meridionali gli Egiziani, che nei loro bei momenti percorsero vittoriosi l'Asia fino alle montagne dell'Armenia, ed abitavano in un paese di clima temperatissimo quei guerrieri Assiri, dei quali si può detestare la crudeltà ma bisogna anche ammirare l'indomabile energia bellicosa. Eran meridionali i Greci, che seppero conquistare tutta l'Asia occidentale, e con le armi, le colonie, i commerci, la superiorità del loro genio, ellenizzarono tutta la parte orientale del bacino del Mediterraneo e gran parte di quello del Mar Nero. Lo erano anche i Romani, le cui legioni coprirono i piani della Dacia, penetrarono nelle inaccessibili foreste della Germania ed inseguirono i Pitti ed i Caledoni fin nei più remoti ricettacoli delle loro fredde e selvagge montagne. Erano meridionali gl'Italiani del Medio Evo, che fecero prodigi d'attività militare, industriale, commerciale; e meridionali erano gli Spagnuoli del cinquecento, quei famosi conquistadores, che in meno di mezzo secolo, esploravano, percorrevano e conquistavano la maggior parte dell'America. Meridionali erano, rispetto agl'Inglesi, quei Franco-Normanni, seguaci di Guglielmo il conquistatore, che in pochi anni seppero spossessare quasi del tutto gli abitatori della parte meridionale della Gran Brettagna, e che, colla spada alle reni, perseguitarono gli Angli fino all'antica muraglia romana; e meridionali in senso assoluto quegli Arabi, che, in meno di un secolo, seppero imporre la loro conquista, e, colla conquista la lingua, religione e civiltà loro a tanta parte di mondo quanta ne hanno forse conquistata e colonizzata gli Anglo-Sassoni in parecchi secoli.

IX. — Le differenze di organizzazione sociale determinate dalla configurazione del suolo possono essere considerate come appendice di quelle dovute alla varietà dei climi, sebbene siano forse più importanti.

Non si può negare infatti che l'essere un paese più o meno piano o montuoso, il trovarsi sulle grandi vie di comunicazione o l'esserne appartato, sono elementi che influiscono nella sua storia molto più di alcuni gradi in più o in meno nella sua media termometrica; ma neppure la loro importanza deve essere esagerata al punto da farne una legge fatale. Certe circostanze topografiche, che, date alcune condizioni storiche, sono favorevoli, in altre condizioni diventano sfavorevolissime e viceversa. La Grecia, quando tutta l'Europa era ancora all'età del bronzo e nei primordi di quella del ferro, si trovò in condizione maravigliosamente favorevole per diventare il primo paese civile di questa parte del mondo; perchè, a preferenza di qualunque altra contrada, potè ricevere le infiltrazioni della civiltà egiziana e di quelle asiatiche. Ma nell'epoca moderna, fino a quando si tagliò l'istmo di Suez, si può dire che lo stesso paese sia stato fra quelli d'Europa più sfavorevolmente situati, perchè lontano dal centro della coltura europea e dalle grandi vie del commercio transatlantico ed indiano. Altra opinione abbastanza diffusa in questi argomenti è quella che fa i montanari abitualmente superiori ai pianigiani e destinati quasi sempre a conquistarli. Certo essa è meno infondata di quella che attribuisce una grande superiorità ai popoli settentrionali, perchè, se è discutibile che un clima freddo sia più salutare di quello temperato o caldo, sembra accertato che i paesi elevati sono quasi sempre più salubri di quelli bassi, e miglior salute vuol dire costituzione fisica più forte e perciò maggiore energia individuale. Ma non sempre una maggiore energia individuale va unita ad una più forte organizzazione della compagine sociale, della quale in fondo dipende l'essere una gente dominatrice o dominata. Ora un saldo organismo politico, che riunisca e diriga gli sforzi di grandi masse d'uomini, è più facile che sorga e si mantenga nelle pianure anzichè nelle montagne. Difatti noi vediamo in Oriente i montanari Circassi, Curdi ed Albanesi avere individualmente spesso raggiunta una grande importanza, le loro bande, che entravano al servizio degli imperi limitrofi, essere spesso diventate influenti e temute [20], ma l'Albania, la Circassia ed il Curdistan non hanno mai, in tempi storici, formato il nocciolo di grandi imperi indipendenti, anzi sono stati sempre attratti nell'orbita dei grandi organismi politici, che hanno toccato i loro confini. Anche gli Svizzeri hanno avuto grande importanza come individui e come corpi di soldati mercenari, ma la Svizzera, come nazione, non ha mai pesato sensibilmente nella bilancia politica d'Europa.

Nella storia poi, in generale, si vede che se le ardite bande dei montanari hanno spesso devastato più che conquistato le pianure, più spesso ancora gli eserciti organizzati dei pianigiani sono riusciti vincitori degli sforzi sconnessi dei montanari e li hanno stabilmente domati. Furono i Romani che conquistarono i Sanniti, mentre questi poterono solo qualche volta vincere i Romani; e, nella Gran Brettagna, se le bande dei montanari scozzesi scorsero e devastarono qualche volta il nord dell'Inghilterra, gl'Inglesi pianigiani vinsero e conquistarono più di frequente la montuosa Scozia e finirono col domarne gli umori riottosi e coll'assimilarla completamente. Nè del resto si può ammettere che i popoli abitanti nelle pianure debbano essere necessariamente destituiti o anche scarsi di energia: basta riflettere che gli Olandesi, i Tedeschi settentrionali, i Russi e gli stessi Inglesi sono in gran parte abitatori di un paese molto basso per comprendere quanto un'opinione simile sarebbe poco fondata.

X. — Il metodo che fa dipendere dalla razza alla quale un popolo appartiene oltre che il grado di progresso civile, che genericamente ha raggiunto, anche il tipo di ordinamento politico, che ha adottato, è molto meno antico dell'altro, che arbitro di tutto fa il clima. Ne poteva essere altrimenti, perchè l'antropologia e la filologia comparata, sulle quali è fondata la classificazione scientifica delle razze umane, sono scienze molto recenti: Broca e Grimm sono vissuti nel secolo decimonono, mentre una nozione abbastanza approssimativa delle differenze di clima si è potuta avere fin dal tempo di Erodoto. Però, per quanto tardi venuta, altrettanto la tendenza etnologica nelle scienze sociali è stata invadente: e negli ultimi decenni del secolo decimonono con la differenza e l'azione delle varie razze si è cercata di spiegare tutta la storia dell'umanità [21].

Si è fatta la distinzione tra razze superiori ed inferiori, attribuendo alle prime la civiltà, la moralità, la capacità di costituirsi in grandi agglomerazioni politiche; riserbando alle altre la sorte dura, ma fatale, di sparire davanti le razze elevate oppure di esserne conquistate ed incivilite. Alla meno peggio si ammette che esse possano continuare a vivere restando indipendenti, ma senza poter mai raggiungere quella cultura e quel perfetto ordinamento sociale e politico, che sono propri soltanto dei popoli di stirpe privilegiata.

Rènan scrisse che la poesia dell'anima, la fede, la libertà, l'onestà, il sacrificio non apparvero nel mondo che con le due grandi razze, che in certo senso hanno formato l'umanità: cioè la razza ariana e la semitica [22]. Per De Gobineau il punto centrale della storia è sempre là dove abita il gruppo bianco più puro, più intelligente, più forte. Il Lapouge porta la stessa dottrina alle più estreme conseguenze; secondo quest'autore non solo la razza veramente morale e superiore in tutto è l'ariana, ma in questa stessa eccellono solo quegli individui, che il tipo ariano conservano puro ed incontaminato; coloro che sono alti, biondi e dolicocefali. Anche fra i popoli che passano per indogermanici questi individui non sarebbero che un'esigua minoranza dispersa fra una maggioranza di bassi, bruni e brachicefali. I veri ariani perciò, piuttosto numerosi tra gl'Inglesi ed i Nord-Americani, comincerebbero a scarseggiare in Germania, dove si potrebbero trovare solo nelle classi superiori, sarebbero rarissimi in Francia, e nei paesi dell'Europa meridionale diventerebbero merce quasi sconosciuta [23].

Accanto a questa scuola, che sostiene la superiorità innata e fatale di alcune razze umane, ve ne è un'altra, che, senza essere con essa in assoluto contrasto, più direttamente si rannoda alle teoriche di Darwin, le cui applicazioni alle scienze sociali nella seconda metà del secolo scorso sono state larghissime. Lo Spencer è lo scrittore più in fama di questa seconda scuola, i cui seguaci sono numerosissimi: essi, senza sostenere la superiorità inevitabile e continua di una razza sulle altre, credono che ogni progresso sociale sia avvenuto ed avvenga per via della così detta evoluzione organica e superorganica. Secondo questa scuola entro ogni società avverrebbe una lotta continua, quella per l'esistenza; per la quale gl'individui più forti, migliori, più adatti all'ambiente, sopravviverebbero ai più deboli e meno adatti e prolificherebbero a preferenza di questi ultimi, comunicando ai loro figli come innate quelle qualità per le quali essi avevano riportato la vittoria e che per loro erano acquisite per via di una lenta educazione. La stessa lotta avverrebbe tra le società stesse, per la quale quelle più solidamente costituite, o composte di individui più forti, vincerebbero le altre meno vantaggiosamente dotate, che, cacciate nei siti meno adatti all'umano sviluppo, sarebbero condannate a rimanere in uno stato di perenne inferiorità.

Non è difficile trovare una differenza sostanziale fra le due dottrine testè ricordate, perchè, anche ammettendo la teoria monogenistica, cioè che tutte le razze umane siano derivate da unico ceppo, è certo che i loro caratteri differenziali sono antichissimi, e si dovettero fissare in epoche molto remote, quando l'uomo non avea oltrepassato lo stadio della vita selvaggia ed era quindi più adatto a sentire l'influenza degli agenti naturali coi quali era in contatto [24]. Stando perciò alla teoria strettamente etnologica, fin dall'inizio dell'epoca storica le razze elevate avrebbero già avuto quei caratteri di superiorità, che conservano ancora quasi inalterati; mentre la teoria propriamente detta evoluzionista, implicitamente od esplicitamente, ammette che la lotta per l'esistenza abbia avuto i suoi effetti pratici più recentemente e ad essa attribuisce il decadere od il prosperare delle varie nazioni e civiltà durante il periodo storico.

XI – Prima di parlare della superiorità od inferiorità delle varie razze umane bisogna determinare il valore della parola razza, alla quale si attacca un significato ora molto lato, ora assai ristretto. Si dice la razza bianca, la gialla e la nera, indicando varietà della specie umana distinte non solo dal linguaggio, ma anche da differenze anatomiche abbastanza importanti e palpabili, e si dice pure la razza ariana e la semitica per indicare due suddivisioni della razza bianca, distinte, è vero, dal linguaggio, ma la cui somiglianza fisica è notevolissima. Si dice anche la razza latina, la germanica, la slava, denominando sempre con lo stesso vocabolo tre suddivisioni del ramo ariano della razza bianca; le quali, sebbene parlino lingue differenti, pure è dimostrato che filologicamente sono legate da una origine comune e le cui differenze fisiche sono minime, tanto che può accadere che un individuo dell'una sia giudicato come appartenente ad un'altra. Or la confusione delle parole porta in questo caso, come sempre, quella delle idee: la differenza di razza si fa valere tanto per spiegare certe diversità, che vi sono nella civiltà e nell'ordinamento politico dei bianchi e dei negri, quanto per giustificare quelle tra latini, germani e slavi; mentre, nel primo caso, può veramente il coefficiente etnologico avere molta importanza e nel secondo, averne una minima.

Bisogna anche por mente che, nel periodo storico ed in quello preistorico, gl'incrociamenti e le mescolanze, specialmente fra popoli di razza molto affine, sono state frequenti. In quest'ultimo caso, siccome le differenze fisiche fra le razze che si sono incrociate sono poco importanti e sopratutto non facilmente percepibili, nel fare le classificazioni più che ai caratteri anatomici si è data importanza alle affinità filologiche. Ma questo criterio è tutt'altro che sicuro ed infallibile. Spesso può avvenire ed avviene che due popoli strettamente parenti per sangue parlino lingue, che filologicamente hanno lontani rapporti, mentre popoli di razza diversa possono servirsi di lingue e di dialetti, le radici e la struttura grammaticale dei quali sono molto affini. Per quanto la cosa sembri a prima vista improbabile, pure vi sono molti esempi e circostanze storiche che la spiegano e la provano; generalmente i popoli conquistati, se sono meno civili dei conquistatori, ne adottano le leggi, le arti, la cultura, la religione e spesso finiscono con l'adottarne la lingua [25].

Ciò premesso, ci pare un fatto assodato che le razze più misere, quelle che gli antropologhi chiamano più basse, i Fuegiani, gli Australiani, i Boschimani, ecc., siano fisicamente ed anche intellettualmente inferiori alle altre. Che questa inferiorità sia innata, che sia sempre esistita, o che si debba attribuire alla desolazione delle contrade che quei popoli abitano, alla scarsezza di risorse che esse offrono ed all'estrema miseria che ne è la conseguenza, è quistione che non è nè facile nè indispensabile per noi di risolvere. Del resto queste razze non formano che una frazione piccolissima dell'umanità, frazione che va rapidamente diminuendo avanti l'espansione della razza bianca, dietro la quale si va in molti luoghi infiltrando anche la gialla. Per spirito di giustizia bisogna riconoscere che il prosperare di queste due razze, in quelle stesse terre dove gli aborigeni potevano solo stentatamente vivacchiare, non è tutto dovuto alla superiorità organica, che esse vantano. Giacchè i nuovi abitatori portano seco cognizioni e mezzi materiali, mercè i quali traggono abbondanti sussistenze da quelle zolle, che spontaneamente avrebbero dato quasi nulla. L'indigeno australiano si contentò per secoli e secoli d'inseguire i kanguri, di abbattere uccelli col bomerang o, alla peggio, di mangiare lucertole; ma bisogna confessare che non aveva alcun mezzo di procurarsi le sementi dei grani e delle altre piante commestibili, nè i progenitori delle mandrie di montoni, che sono stati a disposizione dei coloni inglesi.

Ben più difficile è il sentenziare sopra l'inferiorità della razza americana aborigena e della razza nera. Esse sono state da tempo immemorabile in possesso di vastissime contrade, nelle quali potenti civiltà si sarebbero potute sviluppare. In America infatti, nel Messico, nel Perù, in qualche altro sito esistevano od avevano esistito possenti imperi, dei quali però non possiamo esattamente determinare il grado di cultura, perchè ebbero il torto di crollare davanti l'urto di poche centinaia di avventurieri spagnuoli. In Africa qualche volta la razza nera si è politicamente organizzata in vasti imperi, come fu per es. quello di Uganda, ma nessuno ha raggiunto spontaneamente tal grado di cultura da potere essere paragonato agli Stati più antichi fondati dalla razza bianca o dalla gialla, agli imperi chinese, babilonese o egizio antico, nel quale la razza incivilitrice non era la nera. Parrebbe perciò che tanto per gli Americani indigeni quanto per i Negri una certa inferiorità si possa anche a prima vista stabilire.

Ma quando le cose vanno in un modo, non sempre è lecito asserire che dovevano necessariamente ed immancabilmente andare in quel modo. È dubbio che l'uomo sia vissuto durante il periodo terziario, ma è un fatto scientificamente provato che la sua antichità risale al principio del periodo quaternario, e che perciò va calcolata non per migliaia d'anni, ma per centinaia e forse migliaia di secoli. Ora le razze, l'abbiamo già accennato, dovettero formarsi in epoca remotissima, e, trattandosi di periodi cosi lunghi, l'essere una razza arrivata, trenta, quaranta, anche cinquanta secoli prima ad un perfezionamento ragguardevole di cultura, non è una prova infallibile di superiorità organica. Delle circostanze esteriori, spesso anche fortuite, la scoperta e l'uso di un metallo, cosa più o meno agevole secondo i vari paesi, l'avere o no a portata della mano piante o animali addomesticabili. possono accelerare o ritardare lo sviluppo di una civiltà, ovvero mutarne le vicende. È innegabile che se gli Americani indigeni avessero conosciuto l'uso del ferro [26], o se gli Europei avessero scoperto la polvere da sparo due secoli dopo, questi non avrebbero così presto e cosi completamente distrutto le organizzazioni politiche di quelli. Nè bisogna dimenticare che, quando una razza arrivata ad una civiltà matura si trova in contatto con un'altra ancora allo stato barbaro, se da una parte le fornisce una quantità di strumenti e cognizioni utili, dall'altra ne disturba profondamente, quando non ne arresta del tutto, lo sviluppo spontaneo ed originale.

I Bianchi infatti non solo hanno quasi dappertutto distrutto od asservito gli Americani indigeni, ma per secoli hanno anche abbrutito ed impoverito la razza negra coll'alcool e colla tratta; sicchè si deve convenire che la civiltà europea finora non solo ha contrastato, ma quasi ha impedito tutti gli sforzi che Negri e Pelli Rosse avrebbero potuto spontaneamente fare per progredire.

A diversi rami della razza americana indigena si fa il rimprovero, che si estende anche ai Polinesi oltre che agli Australiani e ad altre razze umane delle più misere, di non saper sopportare il contatto coll'uomo bianco e di scomparire rapidamente davanti l'avanzarsi di questo. La verità è che i Bianchi tolgono alle razze di colore i mezzi di sussistenza, prima che esse possano abituarsi a far uso dei nuovi mezzi di sostentare la vita, che sono dagli stessi Bianchi introdotti. Ordinariamente i territori di caccia delle tribù selvaggie sono invasi e la grossa selvaggina è distrutta prima che gl'indigeni abbiano potuto adattarsi all'agricoltura. Inoltre le razze civili comunicano alle meno civili le loro malattie, senza che quest'ultime possano ordinariamente giovarsi dei metodi preventivi e curativi, che il progresso scientifico ed una lunga esperienza hanno a quelle insegnato. La tisi, la sifilide ed il vaiuolo farebbero probabilmente tra noi la stessa strage, che fanno presso alcune tribù selvaggie, se noi queste malattie prevenissimo e curassimo con i soli mezzi che sono alla portata dei selvaggi, che consistono nel non averne alcuno.

Sono generalmente le Pelli Rosse ed i Negri inferiori ai Bianchi come individui? Sebbene i più rispondano subito ed energicamente di sì, qualcuno dice con eguale prontezza e risoluzione di no; a noi pare difficile l'affermarlo con sicurezza, come il negarlo.

Chi rammenta la storia della prima colonizzazione della Virginia deve convenire che la figlia di Powattan, il Sachem che comandava in quelle contrade all'arrivo dei Bianchi, la gentile ed affettuosa Pocahonta, aveva doti di mente e di cuore non inferiori a quelle di quasi alcuna fanciulla europea dei suoi tempi. Stanley, che i Negri doveva conoscer bene, non sentenzia mai sulla inferiorità assoluta della razza africana, anzi cita parecchi esempi di Negri intelligenti e non privi di qualità morali, specie tra quelli che sono stati educati tra popoli civili: anche tra quelli assolutamente barbari trova sviluppate certe qualità, che sono state a preferenza coltivate; ad esempio, dice che nel Congo anche un fanciullo riesce superiore al più astuto sensale europeo nell'abilità di far valere la sua merce, nel saper vender caro e comprare a buon patto [27].Gli Americani indigeni, dove si sono mescolati coi Bianchi e ne hanno abbracciato la civiltà, non hanno mancato di dare qualche uomo notevole, come ad esempio Garcilasso della Vega e Benito Juarez [28]. I Negri nelle identiche condizioni possono vantare Toussaint Louverture, il Morton dotto teologo ed umanista, il Firmin [29] e parecchi altri. Dobbiamo però confessare che, nell'una e nell'altra razza, la nota delle individualità cospicue è molto scarsa rispetto alla quantità d'individui, che hanno avuto e hanno la possibilità di fruire dei vantaggi che offre il vivere civile. Però ha qualche peso l'osservazione che un dotto vescovo di razza negra facea al George [30]: che i fanciulli negri nelle scuole profittano quanto i bianchi e si mostrano egualmente svegli ed intelligenti fino all'età di dieci o dodici anni, ma, appena cominciano a capire che essi appartengono ad una razza considerata inferiore, e che a loro non è riservata altra sorte che quella di fare i cuochi ed i facchini, si svogliano dallo studio e cadono nell'apatia. Non si può infatti negare che in gran parte dell'America gli uomini di colore siano generalmente considerati come esseri inferiori, che debbono essere necessariamente rilegati negli ultimi strati sociali; or, se le nostre classi diseredate portassero nell'aspetto l'impronta indelebile della loro inferiorità sociale, è certo che tra esse ben pochi sarebbero gli individui i quali avrebbero l'energia di sollevarsi ad una condizione sociale molto superiore a quella della loro nascita.

Ad ogni modo, se qualche dubbio è lecito di elevare sulla attitudine dei Negri e degli Americani indigeni ad una civiltà e ad un ordinamento politico superiore, ogni perplessità vien meno riguardo non solo agli Arii ed ai Semiti, ma a tutta la razza così detta mongolica o gialla ed anche a quella razza bruna, che nell'India vive ora mescolata con la razza ariana e nella China meridionale, nell'Indochina, forse anche nel Giappione si è fusa con quella gialla [31]. Il complesso di queste razze forma certamente più dei tre quarti e forse i quattro quinti dell'intera umanità.

I Chinesi hanno saputo fondare una civiltà originalissima, che maravigliosamente è durata e più maravigliosamente ancora ha saputo espandersi. Figlia in gran parte della civiltà chinese è quella del Giappone e quella della Indochina, e pare che abbia appartenuto alla razza turanica quel popolo dei Somiri e degli Akkad, che fondò la più antica civiltà babilonese. La razza bruna pare che fosse autrice dell'antichissima civiltà dell'Elam o Susiana, ed una civiltà autoctona pare che esistesse nell'India prima dell'arrivo degli Ariani. L'Egitto deve la sua civiltà ad una razza che si dice sub-semitica o berbera, e Ninive, Sidone, Gerusalemme, Damasco, forse anche Sardi, appartennero ai Semiti. Alla più recente civiltà degli Arabi maomettani ci pare superfluo accennare.

XII – Senza ammettere la superiorità o l'inferiorità assoluta di alcuna razza umana, molti credono che ognuna di esse abbia speciali qualità intellettuali e morali in corrispondenza necessaria con certi tipi di organizzazione sociale e politica, dai quali il suo spirito, o meglio ancora, ciò che si dice il genio stesso della razza non le permettono di allontanarsi.

Or fatta la debita parte alle esagerazioni, che facilmente si ammettono su questo argomento, tenuto sempre presente il gran fondo umano, che si ritrova in tutti i popoli ed in tutti i tempi, è innegabile che non diciamo ogni razza, ma ogni nazione, ogni regione, ogni città ha un certo tipo speciale, non dappertutto ugualmente determinato e preciso, il quale consiste in un complesso d'idee, di credenze, di opinioni, di sentimenti, di consuetudini e di pregiudizi, i quali rappresentano per ogni gruppo dell'umanità cioè che i lineamenti del viso sono per ogni individuo.

Ma questa diversità di tipo sarebbe sicuramente una conseguenza delle diversità fisiche, della varietà della razza, del sangue diverso che scorre nelle vene di ogni nazione, se non trovasse la sua spiegazione in un altro fatto, che è uno dei più sicuri e costanti, che si possono accertare mercè l'osservazione della natura umana. Intendiamo alludere al mimetismo, a quella grande forza psicologica per la quale ogni individuo suole acquistare le idee, le credenze ed i sentimenti, che sono più comuni nell'ambiente nel quale è cresciuto. Salvo rare e quasi mai complete eccezioni, si pensa, si giudica, si crede, come pensa giudica e crede la società nella quale viviamo; delle cose si osserva quel lato, che generalmente è più notato dalle persone che ci circondano, e si sviluppano nell'individuo a preferenza quelle attitudini morali ed intellettuali, che sono più pregiate e più comuni in quell'ambiente umano in cui egli si è formato.

Infatti l'unità di tipo morale ed intellettuale si ritrova fortissima in collettività di persone, fra le quali non vi è alcuna speciale comunanza di sangue e di razza. Valga ad esempio il clero cattolico, il quale, sparso dappertutto, conserva sempre una singolare uniformità nelle sue credenze, nelle sue abitudini intellettuali e morali ed anche nei suoi costumi.

Il fenomeno si osserva più spiccato nei vari ordini religiosi; è notoria la maravigliosa rassomiglianza di un Gesuita italiano, con un Gesuita francese, tedesco od inglese. Molta rassomiglianza si trova pure nel tipo militare comune a quasi tutti i grandi eserciti europei; ed un tipo intellettuale e morale abbastanza costante può anche esistere perfino nei singoli reggimenti della milizia, nelle scuole militari ed anche nei collegi laici, dovunque insomma si è potuto o saputo costituire un ambiente particolare, una specie di forma psicologica, la quale plasma alla sua maniera tutti gl'individui che vengono in essa gettati.

Non indaghiamo per ora come i grandi ambienti nazionali, e meglio ancora, quelle grandi correnti psicologiche, che abbracciano talvolta tutta una civiltà od i seguaci di una religione si siano formate, siano vissute e spesso anche sparite dalla scena del mondo. L'iniziare questo studio equivarrebbe a richiamare la storia di tutta la parte civile dell'umanità: questo possiamo con sicurezza asserire che le circostanze storiche speciali ad ognuno dei grandi gruppi dell'umanità hanno principalmente formato gli ambienti speciali, ai quali abbiamo accennato, e nuove circostanze storiche questi ambienti lentamente modificano o anche distruggono. La parte che la consanguineità, la razza, ha nella formazione dei vari ambienti morali ed intellettuali può almeno in certi casi essere piccola e difficilmente apprezzabile, anche quando il coefficiente etnico sembra a prima vista preponderante. Così si cita l'esempio degli Ebrei, che, sparsi in mezzo ad altri popoli, hanno per secoli e secoli maravigliosamente conservato il loro tipo nazionale. Ma bisogna appunto tener presente che i discendenti d'Israele sono sempre vissuti moralmente appartati dalle popolazioni in mezzo alle quali abitavano e sono perciò sempre stati in un ambiente speciale [32].

Infatti la prole delle famiglie ebraiche convertite al Cristianesimo od all'Islamismo di raro conserva lungamente, ossia per molte generazioni, i caratteri dei suoi antenati, e lo stesso Ebreo non convertito mantiene meglio il suo tipo speciale là dove vive più appartato. Un Ebreo della Piccola Russia o di Costantinopoli è molto più Ebreo di un suo correligionario nato e cresciuto in Italia o in Francia, paesi dove i Ghetti non sono più che una memoria. Anche i Chinesi trasportati in America apprendono molti lati della civiltà dei Bianchi, sebbene moralmente non trasformino il loro tipo; ma essi in California ed altrove vivono sempre tra loro in un ambiente chinese. Nella Turchia europea ed asiatica convivono nelle stesse città Turchi, Greci, Armeni, Ebrei e Franchi e non si fondono, nè le razze si modificano, perchè esse, sebbene materialmente in contatto, moralmente sono divise e ciascuna ha il suo ambiente speciale. E si potrebbe perfino osservare che la maggiore tenacia con cui si conserva il tipo nazionale inglese, fra quelli delle altre nazioni europee, è una conseguenza della poca sociabilità che gli Inglesi, stabiliti in paese straniero, hanno verso gl'indigeni, la quale li costringe a stare fra loro in un embrione di ambiente britannico [33].

Il così detto genio delle razze non è quindi qualche cosa di così fatale e necessario come ad alcuni piace immaginare. Ammettendo pure che le varie razze superiori, suscettibili cioè di creare una propria ed originale civiltà, siano organicamente diverse una dall'altra, non è la somma delle loro differenze organiche ciò che esclusivamente od anche principalmente ha determinato la diversità del tipo sociale, che esse hanno adottato, ma piuttosto la diversità dei contatti sociali e delle circostanze storiche, alle quali, non solo ogni razza, ma ogni nazione ed ogni organismo sociale son destinati a sottostare.

XIII. — La questione della razza sarebbe qui esaurita se da tutti si ammettesse che i cambiamenti organici e psichici, dai quali una razza umana può essere modificata durante un periodo storico anche lungo, per esempio di venti o trenta secoli, sono poco apprezzabili e quasi trascurabili. Ma, lungi dall'essere una simile credenza generalmente accettata, prevale ora una scuola, che si fonda su postulati diversi; giacchè, applicando alle scienze sociali le dottrine di Darwin sull'evoluzione delle specie, ammette che ogni gruppo umano possa nel decorso di pochi secoli raggiungere un notevole miglioramento organico, dal quale fa provenire il perfezionamento politico e sociale.

Ora, senza discutere o negare le dottrine di Darwin sulla trasformazione nella specie, ed ammettendo anche la discendenza dell'uomo da un ipotetico antropopiteco, una cosa ci sembra certa, indiscutibile e percepibile a prima vista: che la famosa lotta per l'esistenza e la selezione naturale, che ne è conseguenza, come è stata descritta nelle piante, negli animali e negli uomini selvaggi, non esiste nelle società umane pervenute anche ad un mediocrissimo stadio di civiltà. L'avercela voluta trovare è effetto naturale della fortuna straordinaria che ebbe l'ipotesi darwinista nelle scienze naturali, fortuna che dovea tentare fortemente gli spiriti sistematici ad estenderne l'applicazione. Ciò è pure effetto di un equivoco, della confusione di due fatti, che, sostanzialmente diversi, hanno apparentemente qualche punto di contatto, la quale confusione è facilmente spiegabile che sia avvenuta nelle menti fortemente prevenute a favore del sistema evoluzionista. Si è, per spiegarsi in poche parole, scambiata la lotta per l'esistenza con quella per la preminenza, la quale è realmente un fatto costante, che avviene in tutte le società umane dalle più civili a quelle appena uscite dallo stato selvaggio.

Infatti nella lotta fra le varie società umane, la vincitrice ordinariamente, anzi quasi sempre, non distrugge la vinta, ma la sottomette, l'assimila, le impone il proprio tipo di civiltà. Oggidì in Europa ed in America la guerra non ha altro risultato che l'egemonia politica della nazione, che riesce militarmente superiore, o l'annessione di qualche provincia; ma anche anticamente, quando lottavano la Grecia con la Persia e Roma con Cartagine, si distruggeva qualche volta l'organismo politico, l'esistenza nazionale dei vinti, ma individualmente, anche nell'ipotesi peggiore, questi erano ridotti preferibilmente in servitù anzichè passati a fil di spada. I casi come quelli di Sagunto e di Numanzia, della presa di Tiro per opera di Alessandro Magno e di quella di Cartagine sono stati sempre assolutamente eccezionali. Gli Assiri nell'antico Oriente, i Mongoli nel Medio Evo furono i popoli che più frequentemente praticarono l'uso orrendo dello sterminio sistematico dei vinti, eppure anche essi lo usarono piuttosto come mezzo di raggiungere con il terrore la sottomissione degli altri popoli, anzichè come fine; ed in verità non si può dire che un solo popolo sia stato dalle loro orribili stragi materialmente distrutto [34].

Se poniamo mente poi al lavorìo interiore, che avviene nel seno di ogni società, vediamo subito che in esso il carattere di lotta per la preminenza anzichè per l'esistenza è anche più spiccato. La gara fra gl'individui di ogni nucleo sociale è per arrivare ai posti elevati, alla ricchezza, al comando, per conquistare i mezzi, che dànno la facoltà di dirigere a proprio piacimento molte attività e molte volontà umane. I vinti, che in questa lotta sono naturalmente i più, non vengono già, come sarebbe carattere sostanziale dello struggle for life, nè divorati, nè distrutti, nè tampoco impediti di riprodursi; essi soltanto godono più scarse soddisfazioni materiali e sopratutto hanno minor libertà ed indipendenza. Si può dire anzi che in generale nelle società colte le classi inferiori, lungi dall'essere lentamente eliminate per via della così detta selezione naturale, sono più prolifiche delle superiori, ed è certo che, anche in quelle classi, tutti gl'individui finiscono quasi sempre coll'avere un pane ed una donna; per quanto il primo possa essere più o meno nero e stentato, la seconda più o meno leggiadra e desiderabile.

La poligamia delle classi superiori è il solo argomento che si potrebbe citare a favore del principio della selezione naturale applicato alle società barbare e civili. Ma anche quest'argomento è debolissimo, perchè alla poligamia umana non corrisponde sempre una maggiore fecondità e perchè sono a preferenza poligame quelle società umane, le quali hanno realizzato minori progressi sociali; sicchè la selezione naturale si sarebbe mostrata più impotente colà dove aveva maggiori mezzi d'azione.

XIV. — Premesse queste osservazioni, che equivalgono quasi ad una questione pregiudiziale, venendo ad altro ordine d'idee, è facile rilevare che, se il progresso di una razza e di una nazione dipendesse principalmente dal miglioramento organico degli individui che ne fanno parte, le vicende del mondo dovrebbero presentare una trama ben differente di quella che noi conosciamo. Il progresso morale, intellettuale e quindi sociale di ogni popolo dovrebbe essere più lento, ma più continuo. La legge della selezione naturale combinata con quella dell'eredità dovrebbe ad ogni generazione far segnare un passo, ma un passo solo, in avanti di quella che l'ha preceduto; e non dovrebbe accadere, ciò che nella storia spessissimo vediamo, che un popolo in due o tre generazioni soltanto dia moltissimi passi avanti e, qualche volta, moltissimi indietro.

Questi casi di progressi rapidi e di decadenze vertiginose sono così comuni che quasi non varrebbe la pena di citarli. Da Pisistrato a Socrate non corrono che circa centovent'anni, ma durante essi l'arte, il pensiero, la civiltà ellenica compirono tali incommensurabili progressi da trasformare un popolo di civiltà mediocre, per quanto antica, in quella Grecia, che nella storia del progresso umano scrisse le pagine più splendide, più profonde, più incancellabili. Non citiamo l'esempio di Roma perchè, a dir vero, nel suo rapido passaggio dalla barbarie alla civiltà ebbe moltissima parte l'influenza ellenica; ma l'Italia del rinascimento cronologicamente non dista che un secolo circa dall'Italia di Dante, eppure in questo spazio di tempo, l'ideale artistico, morale e scientifico per lavorìo intimo ed originale della nazione cambia interamente, e l'uomo del Medio Evo si trasforma e scompare.

Osserviamo un momento la Francia del 1650 e quella del 1750. Nella prima vive ancora chi può rammentare la notte di S. Bartolomeo; le guerre religiose, la lega santa, due Re che consecutivamente cadono sotto il coltello dei fanatici sono fatti, che non hanno ancora acquistato il mistero dell'antichità, dei quali i testimoni oculari non devono essere rari; alla presa della Roccella, ultimo episodio del periodo storico che abbiamo accennato, hanno potuto assistere tutti coloro, che appena varcarono la prima gioventù; quasi nessuno osa esprimere i suoi dubbi sull'esistenza dei folletti e delle streghe, e trentasette anni sono appena trascorsi dal dì che, come strega, fu bruciata la moglie del maresciallo d'Ancre. Un secolo dopo Montesquieu è già vecchio, Voltaire e Rousseau sono adulti, l'Enciclopedia, se non pubblicata, è già matura nel mondo intellettuale, la rivoluzione dell'ottantanove nelle idee, nelle credenze, nei costumi si può dire quasi compiuta. E, senza andar cercando altri esempi lontani, guardiamo i paesi più noti dell'Europa presente, l'Inghilterra, la Germania, l'Italia, la Spagna. Certo la rivoluzione intellettuale e morale, che si svolse nell'ultimo secolo in queste nazioni, se fosse stata una conseguenza di modificazioni organiche degli individui che le compongono, avrebbe richiesto per lo meno qualche dozzina di generazioni [35].

D'altra parte anche gli esempi di rapide decadenze di nazioni e di civiltà intere non sono rari. Si cerca di spiegarle attribuendole alle invasioni ed alle distruzioni dei barbari, ma si dimentica che, perchè un paese civile possa diventare preda dei barbari, deve essere caduto in uno stato di grande esaurimento e di grande disorganizzazione, che sono conseguenza della dissoluzione morale e politica; giacchè, nel caso contrario, una maggiore civiltà presuppone sempre una popolazione maggiore e cognizioni e mezzi di offesa e di difesa più potenti ed efficaci. La China è stata conquistata due volte dai Mongoli o Tartari e l'India parecchie volte dai Turchi, dai Tartari, dagli Afgani, ma la civiltà chinese ed indiana al momento delle invasioni erano già entrate in periodi di decadenza.

E questa decadenza spontanea dei popoli civili in alcuni casi si può quasi matematicamente accertare. Tutti gli orientalisti sanno che l'antichissima fra tutte le antiche civiltà egiziane, quella che canalizzò il Nilo, inventò la scrittura geroglifica, costruì le grandi piramidi, si ecclissò spontaneamente e scomparve senza che sinora se ne siano potute conoscere le ragioni. Vi furono guerre civili, ecco tutto quello che si sa, e poi l'oscurità e la barbarie, dalle quali, dopo più di quattro secoli, si vede spontaneamente sorgere una nuova civiltà [36].

Babilonia, che per tanti e tanti secoli era stata un focolare di civiltà, non fu distrutta dai suoi conquistatori, nè da Ciro, nè da Dario, nè da Alessandro, decadde e scomparve dalla scena del mondo per lenta consunzione, per disfacimento spontaneo. L'impero romano d'occidente si dice che sia stato distrutto dai barbari, ma chi conosce anche mediocremente la storia sa che i barbari non ammazzarono che un cadavere, sa quanto grande sia stata la decadenza nell'arte, nella letteratura, nella ricchezza, nell'amministrazione, in tutti i rami insomma della romana civiltà da Marco Aurelio a Diocleziano; epoca nella quale i barbari non fecero che scorrere temporaneamente qualche provincia, ma non si stabilirono in alcuna parte dell'impero, nè ebbero modo di farvi danni duraturi [37]. Senza che fosse perturbata da alcuna invasione od elemento straniero, la Spagna della seconda metà del secolo decimosettimo non era più che l'ombra di quel paese, che, un secolo prima era la Spagna di Carlo V e che mezzo secolo prima, aveva avuto Cervantes, Lopez de Vega e Quevedo [38].

Tutti questi fatti si spiegano molto male o meglio non si spiegano affatto con la teoria dell'evoluzione organica e superorganica e della selezione naturale. Stando ad essa un popolo più civile dovrebbe essere più epurato e migliorato dalla lotta per l'esistenza, e per via dell'eredità avrebbe dovuto acquistare sugli altri un vantaggio, che, nella corsa delle nazioni attraverso i secoli, non si capisce perchè poi dovrebbe perdere. Al contrario noi vediamo una nazione, un gruppo di popoli, ora lanciarsi con impeto irresistibile avanti, ora accasciarsi e miseramente restare indietro. Si può invero notare un movimento di progresso, che, nonostante le interruzioni e le lacune, spinge l'umanità sempre più avanti, e la civiltà odierna della razza ariana è infatti superiore a tutte le precedenti, ma bisogna riflettere che ogni nuovo popolo, il quale ha la fortuna di diventare civile, ha molto meno cammino a fare e disperde una quantità infinitamente minore di forze, perchè esso eredita la esperienza e le cognizioni positive di tutte le civiltà che l'hanno preceduto.

Certo che i Germani di Tacito non sarebbero arrivati in diciotto secoli a formare centri di cultura come Londra, Berlino, New-York se avessero dovuto inventare essi la scrittura alfabetica, i primi elementi delle matematiche e tutto quel tesoro immenso di cognizioni, che appresero mercè il contatto coi Greci e coi Romani. Nè la civiltà ellenica e la civiltà romana avrebbero tanto progredito senza le infiltrazioni delle antiche civiltà orientali, alle quali appunto esse dovettero la nozione dell'alfabeto e dei primi rudimenti delle scienze esatte. Adunque piuttosto che per la via dell'eredità organica la civiltà umana progredisce per quella della eredità scientifica; possono restare stazionari, o anche diventar barbari, i discendenti di un popolo civile e gli studi dei loro padri feconderanno la civiltà nascente di orde incolte che si troveranno in condizioni favorevoli per accogliere quei benefici germi [39].

A dir vero si riconosce anche dagli evoluzionisti il fatto che, prima della razza ariana e segnatamente del ramo germanico di essa, altre razze sono arrivate alla civiltà; ma si aggiunge che queste razze sono decadute o rimaste stazionarie perchè invecchiate, od, in altri termini, perchè hanno esaurito tutta quella somma di energia intellettuale e morale di cui potevano disporre. Veramente questa idea della vecchiaia di alcune razze ci pare l'effetto di un'analogia del tutto apparente fra la vita dell'individuo e quella della comunità; mentre, stando ai fatti che noi vediamo, siccome i membri di quest'ultima si riproducono sempre ed ogni nuova generazione ha tutto il vigore della gioventù, un'intera società non può diventare vecchia come accade all'individuo quando le sue forze cominciano a declinare [40]. Nè, a nostra conoscenza, è stata mai accertata alcuna differenza organica fra gl'individui di una società che progredisce e quelli di un'altra società che decade.

Le società in decadenza invecchiano perchè cambia il tipo dell'organizzazione sociale; invecchiano allora, o meglio si sfatano lentamente, le credenze religiose, i costumi, i pregiudizi e le tradizioni sulle quali le istituzioni politiche e sociali sono fondate: ma questi sono tutti elementi sociali il cui variare dipende dall'intervento di nuovi fattori storici coi quali un popolo si può trovare in contatto, o anche da una lenta e spontanea elaborazione intellettuale, morale e sociale, che in seno allo stesso si può produrre. Sicchè è molto, ma molto arrischiato l'asserire che i cambiamenti nella costituzione fisica della razza vi possano entrare per qualche cosa [41].

Del resto questa credenza che tutte le civiltà extra-ariane, l'egiziana, la babilonese, quella chinese antica e moderna siano state e siano uniformemente immobili ci pare proprio l'effetto di un errore d'ottica, proveniente dal fatto che noi le vediamo molto da lontano. E il caso delle montagne, che, da lontano sotto il cielo limpido e trasparente della Sicilia, sembrano belle muraglie azzurre, che, perpendicolarmente ed uniformemente, chiudono l'orizzonte e che, da vicino, poi si vede che sono tutt'altra cosa: perchè ognuna comprende un piccolo mondo speciale di salite, di discese, di accidentalità di ogni genere. Non possiamo raccontare qui, neppure sommariamente, le vicende di Babilonia, di Tebe, di Menfi, ma lo studio dei monumenti caldei ed egiziani ci ha informato in modo omai non dubbio, che degli alti e dei bassi, delle decadenze e delle epoche di risorgimento e di progresso ce ne furono parecchie, tanto sulle rive del Nilo che su quelle dell'Eufrate e del Tigri [42]. E quanto alla China, è vero che la sua civiltà è durata maravigliosamente e senza interruzione parecchie migliaia d'anni, ma non è a dire che sia stata sempre la stessa: quel tanto che sappiamo della storia chinese basta ad assicurarci che l'organizzazione politica e sociale del Celeste impero ha subito, nel corso dei secoli, fortissime modificazioni [43].

XV. — Il Letourneau nel suo libro intitolato "Evoluzione della morale" fa derivare il progresso delle società umane da un processo organico, per il quale le azioni buone, che sarebbero poi le azioni utili [44], lasciano una traccia nel cervello e nei centri nervosi dell'individuo che le fa, traccia che, ripetuta diverse volte, produce una tendenza verso la continuazione dello stesso atto, la qual tendenza si trasmette poi ai discendenti. Si può domandare perchè non lasciano la stessa traccia le azioni cattive od inutili. Ma ascoltiamo l'autore: egli scrive che "come i corpi suscettibili di fosforescenza si ricordano della luce, così la cellula nervosa si ricorda dei suoi atti intimi, ma attenendosi a modi infinitamente più tenaci e svariati. Ogni atto al quale ha presieduto la cellula nervosa, vi lascia una specie di residuo funzionale, che nell'avvenire ne faciliterà la ripetizione e qualche volta la provocherà. In effetto questa ripetizione diverrà sempre più facile e finirà anche col compiersi spontaneamente ed automaticamente. La cellula nervosa avrà allora acquistato un'inclinazione, un'abitudine, un istinto, un bisogno" [45]. E più avanti: "Le cellule nervose sono per eccellenza degli apparecchi d'impregnazione; qualunque corrente d'attività molecolare le traversi vi lascia più o meno una traccia, che tende a rivivere. Con una ripetizione sufficiente degli atti queste traccie s'organizzano, si fissano, si trasmettono ereditariamente ed a ciascuna di esse corrisponde una tendenza, un'inclinazione, che si manifesterà all'occasione e contribuirà a costituire ciò che si chiama il carattere. Bisogna tener presente questa veduta generale se si vuole capire l'origine e l'evoluzione della morale". E più avanti ancora, ribadendo sempre lo stesso concetto, aggiunge: "Nei suoi tratti essenziali ciò che è etico è utilitario e progressivo. Pertanto una volta formate, impiantate nei centri nervosi, le inclinazioni morali o immorali non si spengono che lentamente come esse si sono formate. Spesso anche riappariscono per atavismo ed allora si vedono sorgere nel seno di una società relativamente incivilita dei tipi morali dell'epoca della pietra, ovvero dei tipi eroici in mezzo ad una civiltà mercantile". Ci pare che questi brani bastino per avere un'idea abbastanza precisa e coscienziosa del concetto fondamentale dello scrittore. Essi sono inoltre sufficienti per fornire un concetto abbastanza chiaro degli argomenti di tutta quella scuola, che pone le scienze antropologiche a fondamento della sociologia.

Le ipotesi però, per quanto belle ed ardite, nella scienza hanno un valore solo quando sono confermate dall'esperienza, ossia da dimostrazioni a base di fatti: ad ogni modo noi non vogliamo ora discutere l'autenticità di tutto quel procedimento organico, che, nel libro del Letourneau, troviamo così nettamente e cosi sicuramente esposto. Ma i fatti sono sempre i fatti, essi hanno lo stesso valore scientifico, sia che siano tratti dallo studio delle cellule nervose, dal colore dei capelli e dalla misurazione dei crani delle varie razze e dalla osservazione delle società animali, oppure dallo studio della storia umana. L'unica classificazione per ordine d'importanza, che si possa ammettere tra essi, è quella tra fatti bene accertati, che, ad esempio, non sono stati trovati ed asseriti da coloro stessi, che vi hanno sopra fabbricato le loro teorie, e fatti dubbi, male accertati, che hanno subito l'influenza dei preconcetti dell'osservatore. Or tutta la storia ampiamente dimostra come il progresso delle società umane non segua quel corso che dovrebbe seguire se le teorie della scuola antropologica fossero esatte: sicchè per accettarle bisogna che esse subiscano almeno una modificazione. Si deve cioè ammettere che l'uomo civile o capace di civiltà, il quale non è certo comparso ieri sulla faccia del mondo, ha subito nelle sue cellule nervose tante e così varie impressioni morali da rendergli possibili le tendenze e le abitudini più disparate: tanto quelle che conducono una società verso il progresso intellettuale, morale e politico, quanto le altre, che la portano alla decadenza ed al disfacimento [46].

XVI — Ma, così ridotta, la teoria antropologica non ha più alcun valore pratico, non c'insegna nè ci può insegnare alcuna cosa, che già non sappiamo, e val meglio di tentar di raggiungere risultati scientifici per altra via, per quanto ardua questa possa essere. La verità è che, come fondandosi sulla varietà dei climi, nessuna legge generale si è potuta trovare intorno all'organizzazione delle società umane ed alla varietà dei tipi, che esse presentano, così non se ne è trovata alcuna che sia basata sulla diversità delle razze e che è impossibile attribuire al loro miglioramento od alla decadenza organica il progresso o la rovina delle nazioni.

Chi ha molto viaggiato ordinariamente viene nell'opinione che gli uomini, sotto le apparenti differenze di costumi e di abitudini, in fondo psicologicamente si somigliano moltissimo; chi ha molto letto la storia acquista una convinzione analoga per quel che riguarda le varie epoche della umana civiltà: scorrendo i documenti i quali c'informano come gli uomini di un altro tempo sentirono, pensarono, vissero, la conclusione alla quale si arriva è sempre identica: che essi erano molto simili a noi [47]. Questa somiglianza psicologica, il fatto che le grandi razze, che formano i quattro quinti dell'umanità, si sono mostrate capaci di svariatissime vicende di progresso e di decadenza, ci induce a porre avanti l'ipotesi, che è anche il risultato di tutte le indagini negative che abbiamo già fatto, che come l'uomo o almeno le grandi razze umane, hanno la tendenza costante a costituirsi in società, così devono avere tendenze psicologiche ugualmente forti e costanti, che le spingono verso un grado sempre maggiore di cultura e di progresso sociale, tendenze che però agiscono con più o meno forza, o possono essere anche soffocate, a seconda che trovano più o meno favorevole l'ambiente fisico, quel complesso di circostanze che si chiama il caso fortuito [48] ed anche a seconda che sono più o meno combattute dall'ambiente sociale, cioè da altre tendenze psicologiche egualmente generali e costanti [49].

In fondo è un processo organico, per quanto più complicato, simile a quello che avviene in tutta la natura animale e vegetale. Una pianta ha la tendenza fortissima ad espandersi e moltiplicarsi, tendenza che può essere agevolata o combattuta dall'ambiente fisico, dalle condizioni cioè di umidità e di clima, dal caso fortuito rappresentato dal vento e dagli uccelli, che ne propagano o disperdono i semi, e da qualità proprie, cioè dalla maggiore o minore resistenza, che oppone alle malattie che la colpiscono. Simile pure è il procedimento che avviene in quel ramo dell'attività sociale, che è stato a preferenza degli altri studiato, cioè nella produzione della ricchezza: produzione la quale ha una tendenza indefinita ad aumentare, che è più o meno ostacolata dalle difficoltà naturali, fino ad un certo punto dal caso fortuito ed anche dall'ignoranza, dalla soverchia ingordigia e dai pregiudizi umani.

L'uomo non crea nè distrugge alcuna delle forze della natura, però può studiarne il gioco e l'andamento e dirigerlo a suo profitto. È cosi che agisce nell'agricoltura, nella navigazione, nella meccanica; è cosi che in questi rami di attività la scienza moderna ha potuto raggiungere risultati quasi miracolosi. Il metodo certo non può essere diverso quando si tratta delle scienze sociali; e infatti è quello stesso che ha dato finora discreti risultati nell'Economia politica. Senonchè non è da dissimularsi che nelle scienze sociali in genere le difficoltà da superare sono immensamente maggiori: giacchè non solo la più grande complessità delle leggi psicologiche, o tendenze costanti comuni alle masse umane, rende più difficile il determinarne l'azione, ma è indiscutibile che è più agevole l'osservazione dei fatti che si svolgono attorno a noi, anzichè quella dei fatti, che sono opera nostra. L'uomo può studiare molto più agevolmente i fenomeni della fisica, della chimica, della botanica, anzichè i propri istinti e le proprie passioni [50]. E bisogna anche confessare che la necessaria obiettività per condurre con buon risultato questo genere di osservazioni sarà sempre privilegio di una ristretta frazione d'individui dotati di attitudini speciali e di una particolare educazione intellettuale, e, dato che questi individui possano raggiungere risultati scientifici, è molto problematico che riescano a modificare in base ad essi l'azione politica delle grandi società umane [51].

XVII. — Qualunque possa essere nell'avvenire l'efficacia pratica della scienza politica è indiscutibile che i progressi di questa disciplina sono tutti fondati sullo studio dei fatti sociali e che questi fatti non si possono cavare che dalla storia delle diverse nazioni. In altre parole se la scienza politica deve essere fondata sullo studio e l'osservazione dei fatti politici è all'antico metodo storico che bisogna tornare.

Contro questo metodo si elevano diverse obiezioni più o meno gravi, alle quali brevemente risponderemo.

Si dice prima di tutto che moltissimi autori, a cominciare da Aristotile continuando con Machiavelli e Montesquieu fino ai giorni nostri, hanno questo metodo usato, e che, malgrado che molte delle loro osservazioni parziali siano universalmente riconosciute come fondate e come verità scientificamente acquisite, pure un vero sistema scientifico ancora non si è trovato.

Ma del metodo storico in particolare si può dire quello che abbiamo già detto del metodo positivo in genere, che per dare buoni risultati deve essere bene applicato. Or per bene applicarlo, condizione indispensabile è il conoscere la storia largamente ed esattamente, e ciò non era nella possibilità nè di Aristotile, nè di Machiavelli o di Montesquieu, nè di alcun altro scrittore, che fosse vissuto solo più di mezzo secolo addietro. Le grandi sintesi non possono essere tentate che dopo che si ha una collezione grandissima di fatti studiati ed accertati con criterio scientifico; certo anche nei secoli scorsi delle nozioni storiche non mancavano, ma esse erano quasi unicamente ristrette a singoli periodi: fino agli inizi del secolo scorso si conosceva forse in qualche modo la civiltà greco-romana e la storia delle nazioni moderne europee, ma sul passato del resto del mondo non si sapevano se non favole vaghissime ed incerte tradizioni. Ed anche nella ristretta parte della storia, che abbiamo accennato, le nozioni che si possedevano non erano perfette; non era ancora sviluppato il senso critico, mancava quella paziente ricerca dei documenti, quella minuziosa ed accurata interpretazione delle inscrizioni, che, non solo ha precisato meglio le linee generali delle azioni dei grandi personaggi storici, ma ci ha rivelato tutti quei dettagli delle consuetudini sociali e dell'organizzazione politica ed amministrativa dei diversi popoli, che sono interessanti per lo studio della scienza politica assai più delle gesta personali dei grandi guerrieri e dei sovrani.

La conoscenza esatta della geografia fisica, l'etnologia e la filologia comparata, che illuminano sulle origini ed i rapporti di consanguineità delle nazioni, la preistoria, che ha posto in evidenza l'antichità del genere umano e di alcune civiltà, la interpretazione degli alfabeti geroglifico, cuneiforme ed indiano antico, che ci hanno svelato i misteri delle civiltà orientali ora estinte, sono conquiste del secolo decimonono. Ugualmente in questo secolo si sono, almeno in parte, tolti i misteri, che avviluppavano la storia della China, del Giappone e di altre nazioni dell'estremo oriente, e si sono in parte scoperti, in parte più accuratamente studiati i ricordi delle antiche civiltà americane. In questo secolo infine è invalso l'uso degli studi statistici comparati, che ci rendono facile la conoscenza delle condizioni di popoli lontanissimi. Indiscutibilmente se lo studioso di scienze sociali poteva prima intuire, ora soltanto ci ha i mezzi per osservare in grande, gli strumenti ed i materiali per provare. 

Aristotile non conosceva che imperfettissimamente la storia delle grandi monarchie asiatiche; le sue cognizioni probabilmente si limitavano a quanto ne avevano scritto Erodoto e Senofonte, ed a quanto ne aveva potuto sapere dai seguaci di Alessandro, che poco capivano i paesi che conquistavano. Sicchè in fondo altro tipo politico non avea famigliare che lo Stato greco del quarto e del quinto secolo avanti Cristo e poco o nulla di esatto avea potuto apprendere sul resto del mondo: in queste condizioni la sua Politica rappresenta uno sforzo intellettuale maraviglioso e la sua classificazione dei governi in monarchie, aristocrazie e democrazie, che ora si potrebbe giudicare incompleta e superficiale, allora certo era quanto di meglio la mente umana potea escogitare. Machiavelli ebbe per modello quasi esclusivo dello stato il Comune italiano della fine del quattrocento, colle sue alternative di tirannide e di anarchia, nel quale il potere si conquistava e si perdeva per un giuoco di violenze e furberie, che facea guadagnare la partita a chi sapea meglio mentire e dava l'ultimo colpo di pugnale: si comprende che questo modello abbia colpito tanto il suo spirito da fargli scrivere il Principe. La conoscenza quasi esclusiva che avea della storia romana, come si poteva apprendere ai suoi tempi, e di quella delle grandi monarchie moderne, che poco avanti a lui eransi formate, spiegano i Discorsi sulle Decadi, le Storie e le sue lettere. — Montesquieu non poteva conoscere la storia dell'Oriente molto meglio di Aristotile, nè quella greca e romana assai più profondamente di Machiavelli, e le maggiori cognizioni che avea sugli istituti e la storia della Francia, dell'Inghilterra e della Germania, a preferenza di quelli degli altri paesi, danno la spiegazione della sua teoria secondo la quale la libertà politica sarebbe solo possibile nei paesi freddi.

XVIII. — Un'altra obiezione si fa al metodo storico, la quale se non più fondata è certo più speciosa, e tale che agli occhi di alcuni può parere molto grave e perfino insuperabile. Essa si basa sulla poca attendibilità dei materiali storici. Si dice infatti comunemente che tutti gli sforzi degli storici spesso non giungono a scoprire la verità, che frequentemente è difficile accertare precisamente come realmente siano accaduti fatti che si sono svolti nel corso dell'anno e nella nostra città, sicchè si può ritenere come impossibile di ottenere racconti degni di fede quando si tratta di epoche e paesi lontani. Non si manca di rilevare le contradizioni che esistono tra i diversi storici e le smentite, che l'un l'altro si danno, le passioni da cui ordinariamente sono animati e se ne conclude che nessuna deduzione sicura, nessuna vera scienza si può trarre da fatti che sono sempre molto dubbi e imperfettamente conosciuti.

A questi argomenti la risposta non è ardua. E prima di tutto osserviamo di passaggio che i fatti contemporanei non appuriamo esattamente solo quando non abbiamo nè l'interesse nè i mezzi di conoscere la verità, oppure quando vi sono interessi contrari, che vi si oppongono. Se quest'ostacolo non vi fosse, ognuno che volesse impiegarvi tempo ed un po' di danaro, potrebbe sempre, in mezzo alle varie versioni, alle ciarle ed ai si dice, trovare, per mezzo di un'inchiesta più o meno lunga, come presso a poco un fatto realmente sia accaduto. Or, pei fatti storici, quanto più antichi sono tanto più tacciono gl'interessi, che mirano ad alterarne la esatta nozione, e si deve supporre che lo storico abbia pazienza e tempo sufficienti per appurare intorno ad essi la verità.

Di ben altra importanza è una seconda osservazione, che ora faremo in proposito. I fatti storici sui quali regna e regnerà sempre la maggiore incertezza sono quelli aneddottici e biografici che possono interessare la vanità od il tornaconto di un uomo, di una nazione, di un partito. E su questi principalmente che la passione dello scrittore può essere causa anche incosciente di errori; ma fortunatamente, questo genere di fatti interessano mediocremente lo studioso di scienze politiche, al quale importerà ben poco se una battaglia sia stata vinta per merito di un tal capitano o per colpa di un altro, o se un assassinio politico sia stato più o meno giustificabile. Al contrario vi sono altri fatti che riguardano il tipo e l'organizzazione sociale dei vari popoli e delle varie epoche; e su questi appunto, che son quelli che a preferenza c'interessano, gli storici, spontaneamente e senza partito preso, ci dicono spesso la verità e più che gli storici ci illuminano i documenti ed i monumenti.

Ad es. probabilmente non sapremo mai quando Omero precisamente visse, in quale città nacque, quali furono i casi della sua vita, ma ciò ha un certo interesse per il critico ed il letterato che amerebbero conoscere i più minuti particolari intorno alla persona dell'autore dell'Iliade e della Odissea, e ne ha uno ben mediocre per il politico che studia il mondo psicologico e sociale descritto dal gran poeta, mondo che, per quanto abbellito dalla fantasia del vate, dovette realmente esistere in epoca poco anteriore ad Omero. Nessuno conoscerà mai precisamente quali siano stati i torti ed i meriti di Temistocle, come siano stati pronunziati i discorsi di Pericle, quale fosse la gamba dalla quale zoppicava Agesilao, la razza del cane di Alcibiade ed il colore del cavallo di Alessandro Magno, ma è indiscutibilmente provato che nell'Ellade, dal sesto al quarto secolo avanti Cristo, vi era un tipo di organizzazione politica, della quale conosciamo già bene, e sempre meglio conosceremo, a misura che si studieranno le iscrizioni ed i monumenti che mano mano si trovano, le diverse varietà, le specialità ed i particolari della compagine amministrativa economica e militare.

Nessuno probabilmente conoscerà mai nulla di esatto sulla vita del Re egiziano Kufro della IV dinastia, malgrado la grande piramide, che egli si fece costruire per tomba, nessuno avrà la biografia di Ramses 2° della XVIII dinastia, malgrado che resti il poema di Pentaur, che ne celebra le vittorie vere o supposte; ma nessuno porrà in dubbio che, trenta o quaranta secoli avanti l'èra volgare, eravi già nella valle del Nilo una società numerosa, organizzata, civile, e che lo spirito umano dovette fare prodigiosi sforzi di pazienza e di originalità per cavarla dalla barbarie. Nessuno può porre in dubbio che questa società, modificandosi sempre nel volger dei secoli, ebbe credenze religiose, cognizioni scientifiche e, talvolta, cosi maravigliosa organizzazione amministrativa e militare, che si potrebbe quasi paragonare a quella degli Stati più civili dell'era odierna [52].

È lecito dubitare che Tiberio e Nerone siano stati così tristi come Tacito li ha descritti, che siasi esagerata l'imbecillità di Claudio, la lascivia di Messalina, la passione di Caligola per il suo cavallo. Ma non si può negare l'esistenza dell'impero romano e la possibilità negli imperatori di commettere malvagità e pazzie che, in altri tempi ed in altri tipi di organizzazione politica, non sarebbero state tollerate. Nè si può mettere in dubbio che, nei primi secoli dell'era volgare, una grande civiltà riunita politicamente in un grande stato abbracciava tutto il bacino del Mediterraneo: e di questo stato conosciamo già abbastanza, e sempre meglio conosceremo, la legislazione e la elaborata organizzazione finanziaria, amministrativa e militare. Si può perfino supporre che Sakia-Muni sia interamente un mito, che Gesù Cristo non sia stato mai crocifisso, anzi che neppure abbia esistito, ma nessuno negherà mai l'esistenza del Buddismo e del Cristianesimo coi dogmi e precetti morali che li costituiscono; nessuno negherà mai che queste due religioni, poichè tanto si son diffuse e da tanto tempo durano, devono rispondere a sentimenti ed a bisogni psicologici diffusissimi nelle masse umane.

XIX. — In conclusione dunque, pur ammettendo che l'aneddoto ed il particolare biografico abbiano potuto influire sulla storia delle nazioni, ci pare innegabile che essi possono dare ben poco aiuto nello scoprire le grandi leggi psicologiche, che si manifestano nella vita delle nazioni stesse. Queste leggi svelano piuttosto la loro azione nelle istituzioni amministrative e giuridiche, nelle religioni, in tutte le abitudini morali e politiche dei vari popoli, ed è quindi in questi ultimi ordini di fatti che dobbiamo concentrare la nostra attenzione.

Ed intorno a questi fatti crediamo difficile e scarsamente utile stabilire dei criteri precisi di preferenza. In verità qualunque notizia, sia storica o contemporanea, che riguardi le istituzioni di un popolo politicamente organizzato, che sia cioè riunito in masse piuttosto numerose e che abbia raggiunto un certo grado di una qualunque civiltà, può essere molto interessante. Se una raccomandazione si può fare in proposito è questa: che si sfugga dal ricavare tutte le osservazioni da un gruppo di organismi politici, che appartengono allo stesso periodo storico o presentino lo stesso, o poco dissimile, tipo di civiltà [53]. Lo Spencer, come abbiamo già accennato, nei suoi Primi principî di sociologia ha cercato di premunire gli studiosi di scienze sociali contro quelli che egli chiama pregiudizi; che consistono in certe abitudini dello spirito umano, per le quali l'osservatore vede i fatti sociali sotto un punto di vista subiettivo unilaterale e ristretto, che necessariamente produce dei risultati erronei. Or, per riparare a quest'inconveniente, non basta avvertire chi può cadervi che l'inconveniente esiste, ma bisogna che il suo spirito sia preparato in maniera da evitarlo. Infatti l'aver la nozione del pregiudizio politico, del pregiudizio nazionale e di quello religioso o antireligioso non toglie che una persona, la quale è stata educata nella credenza che una data forma di governo basti a rigenerare l'umanità, che la sua nazione è la prima dell'universo, che la sua religione è la sola verace o che il progresso umano consista nella distruzione di tutte le religioni, quando viene all'applicazione pratica delle teoriche spenceriane, non cada in uno o in parecchi dei pregiudizi enumerati. La vera salvaguardia contro questa specie di errori sta nel sapere elevare il proprio criterio al di sopra delle credenze ed opinioni che sono generali nella propria epoca o in quel tipo sociale o nazionale di cui facciamo parte; il che, riportandoci ad un concetto già accennato, corrisponde all'avere studiato molti fatti sociali, a conoscer bene e molto la storia, non già di un periodo o di un popolo, ma possibilmente dell'umanità.

XX. — Ai giorni nostri, od almeno fino a poco tempo fa, è prevalsa negli studi sociali la tendenza a considerare con speciale cura gli organismi politici più semplici e più primitivi, cioè quelli delle tribù selvaggie; e tutte le circostanze, che ad esse si riferiscono, sono state attentamente notate e registrate [54]. Le relazioni dei viaggiatori, che fra queste tribù hanno dimorato, hanno perciò acquistato una particolare importanza e riempiono i moderni libri di Sociologia.

Or noi non diremo che questi studi siano completamente inutili, giacchè è difficile trovare un'applicazione qualsiasi dello spirito umano, che resti completamente infeconda; ma certo non ci sembrano i più adatti a fornire solidi materiali alle scienze sociali in genere ed alla scienza politica in ispecie. E, prima di tutto, facciamo osservare che le relazioni dei viaggiatori sono ordinariamente più subiettive, più incerte e contradittorie dei racconti degli storici e sopratutto meno soggette al controllo dei documenti e dei monumenti. Un individuo, che si trova in mezzo a uomini di una civiltà molto differente di quella alla quale è abituato, generalmente li osserva a preferenza da certi punti di vista speciali, e perciò può facilmente prendere abbagli ed errori. Erodoto, che fu il più gran viaggiatore dell'antichità ed osservatore, come ora si è riscontrato, non superficiale e coscienzioso, molte cose riferì erroneamente, appunto perchè, abituato alla civiltà greca, mal sapea spiegarsi certi fenomeni delle civiltà orientali: e se si potessero controllare le relazioni dei viaggiatori moderni su documenti autentici, come si è fatto qualche volta con quelle di Erodoto, non crediamo che le troveremmo più esatte [55].

In secondo luogo poi, e ci par questo argomento decisivo, i fatti sociali non si possono raccogliere che nelle società umane, e per società non si deve intendere un'agglomerazione di poche famiglie, ma ciò che comunemente dicesi una nazione, un popolo, uno stato. Le forze psicologiche sociali non si possono sviluppare e non possono avere la loro applicazione che nei grandi organismi politici, cioè colà dove esistono numerose riunioni di uomini moralmente e politicamente uniti. Nel gruppo primitivo, nella tribù di cinquanta o cento individui, il problema politico quasi non esiste e quindi non si può studiare.

Ad esempio è molto facile spiegarsi la monarchia in una di quelle tribù che abbiamo accennato, nelle quali il maschio più forte e più scaltro facilmente s'impone ai pochi compagni; ma occorrono ben altri elementi per potere darsi ragione dello stabilirsi di questa istituzione in società di milioni di individui, nelle quali un solo non si può materialmente imporre alla totalità degli altri e, per quanto abile ed energico, troverà facilmente nella massa centinaia di individui che, almeno potenzialmente, sono abili ed energici quanto lui. Si comprende pure facilmente come poche decine ed anche poche centinaia d'individui, che vivono insieme, restando isolati moralmente, se non materialmente, dal resto del mondo, presentino una data singolarità di tipo morale, ed abbiano vivo il sentimento della tribù e della famiglia. Ma il comprendere ciò ci aiuta ben poco quando si tratta di spiegarci perchè una identità di tipo morale, un sentimento vivissimo nazionale, esista in agglomerazioni umane di decine e qualche volta, come nel caso della Russia e della China, di centinaia di milioni di persone, nelle quali gli individui quasi sempre vivono lontanissimi gli uni dagli altri, sono nella loro grandissima maggioranza scevri di qualunque reciproco rapporto personale, e, nei loro vari gruppi, presentano condizioni di vita materiale molto differente.

Si dice che lo studio degli enti politici minuscoli riesce utilissimo, perchè in essi si trovano in embrione tutti quegli organi sociali che poi si vanno mano mano sviluppando nelle società più vaste e più progredite, e si crede che riesca molto più facile esaminarne il meccanismo quando i detti organi sono rudimentali, anzichè quando divengono complicati. Ma il paragone, ormai così frequente, fra l'organizzazione delle società umane e quelle degli individui del regno animale, giammai crediamo che sia stato meno calzante e meno opportuno come in questo caso. Esso si può ritorcere facilissimamente contro la tesi a favore della quale fu invocato; giacchè non crediamo che nessun zoologo vorrebbe trar lume dallo studio degli animali inferiori per risolvere le quistioni riguardanti l'anatomia e la fisiologia dei vertebrati a sangue caldo, e non è certo coll'osservazione delle monère e dei polipi che si sono scoperte la circolazione del sangue ed accertate le funzioni del cuore, del cervello e dei polmoni nell'uomo e negli altri animali superiori.

Ed ora non manca che un argomento ancora, ma è il più importante di tutti, per provare la bontà del metodo storico da noi preferito. Questo argomento consiste nella buona applicazione del detto metodo; nel dimostrare con l'esempio pratico che esso, usufruendo di tutti i materiali storici, che la scienza di questo secolo ha messo a nostra disposizione, può dare risultati veramente scientifici. Ciò tenteremo di fare negli altri capitoli di questo lavoro.

 


 

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CAPITOLO II.
La classe politica.

I. Predominio di una classe dirigente in tutte le società. — II. Importanza politica di questo fatto. — III. Prevalenza delle minoranze organizzate sulle maggioranze. — IV. Forze politiche. Il valor militare. — V. La ricchezza. — VI. Le credenze religiose e la cultura scientifica. — VII. Influenza dell'eredità nella classe politica. — VIII. Periodi di stabilità e di rinnovamento della classe politica.

I — Fra le tendenze ed i fatti costanti, che si trovano in tutti gli organismi politici, uno ve n'è la cui evidenza può essere facilmente a tutti manifesta: in tutte le società, a cominciare da quelle più mediocremente sviluppate e che sono appena arrivate ai primordi della civiltà, fino alle più colte e più forti, esistono due classi di persone: quella dei governanti e l'altra dei governati. La prima, che è sempre la meno numerosa, adempie a tutte le funzioni politiche, monopolizza il potere e gode i vantaggi che ad esso sono uniti; mentre la seconda, più numerosa, è diretta e regolata dalla prima in modo più o meno legale, ovvero più o meno arbitrario e violento, e ad essa fornisce, almeno apparentemente, i mezzi materiali di sussistenza e quelli che alla vitalità dell'organismo politico sono necessari.

Nella pratica della vita tutti riconosciamo l'esistenza di questa classe dirigente o classe politica, come altra volta ebbimo a definirla [56]. Sappiamo infatti che nel nostro paese alla direzione della cosa pubblica vi è una minoranza di persone influenti, di cui la maggioranza subisce, di buon grado o malgrado, la direzione e che lo stesso avviene nei paesi vicini, e non sapremmo quasi nella realtà immaginare un mondo organizzato diversamente, nel quale tutti ugualmente e senza alcuna gerarchia fossero sottoposti ad un solo o tutti ugualmente dirigessero le cose politiche. Se in teoria ragioniamo altrimenti ciò è in parte l'effetto di abitudini inveterate nel nostro pensiero ed in parte è dovuto alla soverchia importanza che diamo a due fatti politici, la cui appariscenza è d'assai superiore alla realtà.

Il primo di essi consiste nella facile constatazione che in ogni organismo politico vi è sempre una persona che è capo della gerarchia di tutta la classe politica e dirige ciò che si chiama il timone dello Stato. Questa persona non sempre è quella che legalmente avrebbe il supremo potere, alle volte anzi, accanto al Re od all'Imperatore ereditario vi è un primo ministro o un maestro di palazzo che ha un potere effettivo maggiore di quello del Sovrano, od, in luogo del Presidente elettivo, governa l'uomo politico influente, che l'ha fatto eleggere. Qualche volta, per circostanze speciali, invece di una persona sola sono due o tre quelle che adempiono a quest'ufficio della suprema direzione.

Il secondo fatto è anch'esso di facile percezione, perchè qualunque sia il tipo di organizzazione sociale, agevolmente si può constatare che la pressione proveniente dal malcontento dalla massa dei governati, le passioni da cui essa è agitata possono esercitare una certa influenza sull'indirizzo dalla classe politica.

Ma l'uomo che è a capo dello Stato non potrebbe certo governare senza l'appoggio di una classe numerosa, che i suoi ordini fa eseguire e rispettare, e se egli può far sentire il peso della sua possanza ad uno od a parecchi dei singoli individui, che a questa classe appartengono, non può certo urtarla nel suo complesso e distruggerla. Giacchè, dato che ciò fosse possibile, dovrebbe subito ricostituirne un'altra, senza di che la sua azione sarebbe completamente annullata. E d'altra parte, ammesso anche che il malcontento delle masse riuscisse a detronizzare la classe dirigente, dovrebbe necessariamente trovarsi, come più avanti meglio dimostreremo, nel seno delle masse stesse un'altra minoranza organizzata, che all'ufficio di classe dirigente adempisse. Altrimenti qualunque organizzazione e qualunque compagine sociale sarebbe distrutta.

II. — Ciò che poi costituisce la vera superiorità della classe politica, come base di ricerche scientifiche, è l'importanza preponderante che la sua varia costituzione ha nel determinare il tipo politico ed anche il grado di civiltà dei diversi popoli. Stando infatti a quella maniera di classificare le forme dei governi, che è ancora in voga, la Turchia e la Russia erano fino a qualche anno fa tutte e due monarchie assolute, l'Inghilterra e l'Italia monarchie costituzionali e la Francia e gli Stati Uniti andrebbero poste nella categoria delle Repubbliche. Questa classificazione è basata sul fatto che, nei primi due paesi, il capo dello Stato è ereditario ed era nominalmente onnipotente, nei secondi, pur essendo ereditario, ha facoltà ed attribuzioni limitate, negli ultimi infine è elettivo. Ma la classificazione è evidentemente superficiale.

Giacchè appare subito che ben poco di comune v'è nella maniera come sono ed erano rette politicamente la Russia e la Turchia, assai diverso essendo il grado di civiltà di questi due paesi e l'ordinamento delle loro classi politiche: e, seguendo lo stesso criterio, troviamo il regime dell'Italia monarchica assai più analogo a quello della Francia repubblicana che a quello dell'Inghilterra ugualmente monarchica, ed importantissime differenze esservi fra l'ordinamento politico degli Stati Uniti e quello della Francia stessa, sebbene ambidue i paesi siano retti a repubblica.

Come poco avanti abbiamo accennato, lunghe abitudini di pensiero si sono opposte e si oppongono su questo punto al progresso scientifico. La classificazione da noi accennata, che divide i Governi in monarchie assolute, temperate e repubbliche è opera di Montesquieu che la sostituì a quella classica, che già avea fatto Aristotele, il quale li divideva in monarchie, aristocrazie e democrazie [57]. Da Polibio a Montesquieu molti autori aveano perfezionato la classificazione aristotelica sviluppandola nella teoria dei Governi misti. Poi la corrente democratica moderna, che ebbe il suo inizio con Rousseau, si fondò sul concetto che la maggioranza dei cittadini di uno Stato possa, anzi debba partecipare alla vita politica; e la dottrina della sovranità popolare, malgrado che la scienza moderna renda sempre più manifesta la coesistenza in ogni organismo politico del principio democratico, del monarchico e dell'aristocratico [58], s'impone ancora a moltissime menti. Noi qui non la confuteremo direttamente, giacchè a questo compito adempiamo in tutto il complesso del nostro lavoro, e perchè è assai difficile in poche pagine distruggere in una mente umana tutto un sistema d'idee, che vi si è radicato; giacchè, come bene scrisse il Las Casas nella vita di Cristoforo Colombo, il disimparare è in molti casi più difficile dell'imparare.

III. — Fin da ora però crediamo utile di rispondere ad una obiezione, la quale ci pare che molto facilmente si possa fare al nostro modo di vedere. Se è agevole il comprendere che un solo non possa comandare ad una massa senza che ci sia in essa una minoranza che lo sostenga, è piuttosto difficile l'ammettere come un fatto costante e naturale, che le minoranze comandino alle maggioranze anzichè queste a quelle. Ma è questo uno dei punti, come tanti se ne danno in tutte le altre scienze, in cui la prima apparenza delle cose è contraria alla loro realtà. Nel fatto è fatale la prevalenza di una minoranza organizzata, che obbedisce ad unico impulso, sulla maggioranza disorganizzata. La forza di qualsiasi minoranza è irresistibile di fronte ad ogni individuo della maggioranza, il quale si trova solo davanti alla totalità della minoranza organizzata; e nello stesso tempo si può dire che questa è organizzata appunto perchè è minoranza. Cento, che agiscano sempre di concerto e d'intesa gli uni cogli altri, trionferanno su mille presi ad uno ad uno e che non avranno alcun accordo fra loro; e nello stesso tempo sarà ai primi molto più facile l'agire di concerto e l'avere un'intesa, perchè son cento e non mille.

Da questo fatto si ricava facilmente la conseguenza che, quanto più è grande una comunità politica, altrettanto minore può essere la proporzione della minoranza governante rispetto alla maggioranza governata, e tanto più difficile riesce a questa l'organizzarsi per reagire contro di quella.

Però, oltre al vantaggio grandissimo che viene dall'organizzazione, le minoranze governanti ordinariamente sono costituite in maniera che gl'individui che le compongono, si distinguono dalla massa dei governati per certe qualità, che danno loro una certa superiorità materiale ed intellettuale od anche morale, oppure sono gli eredi di coloro che queste qualità possedevano: essi in altre parole devono avere qualche requisito, vero od apparente, che è fortemente apprezzato e molto si fa valere nella società nella quale vivono.

IV. — Nelle Società primitive, che sono ancora nel primo stadio della loro costituzione, la qualità che più facilmente apre l'accesso alla classe politica o dirigente, è il valor militare. La guerra, che nelle società di avanzata civiltà è uno stato eccezionale, può essere considerata quasi come normale in quelle che sono all'inizio del loro sviluppo, ed allora gl'individui che spiegano in essa migliori attitudini acquistano facilmente la supremazia sugli altri: i più bravi diventano i capi. Il fatto è costante, ma le modalità che può assumere, secondo i casi, sono alquanto diverse.

Ordinariamente il dominio di una classe guerriera sopra una moltitudine pacifica si suole attribuire alla sovrapposizione delle razze, alla conquista, che un popolo bellicoso fa di un altro relativamente imbelle. Qualche volta infatti la cosa avviene precisamente così: e ne abbiamo degli esempi nell'India dopo le invasioni degli Arii, nell'impero romano dopo quelle dei popoli germanici e nel Messico dopo la conquista azteca; ma più spesso ancora, in certe condizioni sociali, vediamo formarsi una classe guerriera e dominatrice anche là dove di conquista straniera non vi è assolutamente traccia. Finchè un'orda infatti vive esclusivamente di caccia, allora tutti i suoi individui possono facilmente tramutarsi in guerrieri e vi saranno dei capi, che avranno naturalmente il predominio nella tribù, ma non si avrà la formazione di una classe bellicosa, che sfrutti e tuteli nello stesso tempo un'altra addetta al lavoro pacifico. Ma, a misura che si va lasciando lo stadio venatorio e si entra in quello agricolo e pastorale, allora, insieme all'aumento enorme della popolazione ed alla maggiore stabilità dei mezzi d'influenza sociale, può nascere la divisione più o meno netta in due classi: l'una consacrata esclusivamente al lavoro agricolo, l'altra alla guerra. Se ciò avviene, è inevitabile che l'ultima acquisti poco a poco tale preponderanza sulla prima da poterla impunemente opprimere.

La Polonia offre un esempio caratteristico del cambiamento graduale della classe guerriera in classe assolutamente dominatrice. In origine i Polacchi aveano quell'ordinamento del comune rurale che era prevalso fra tutti i popoli slavi, nè eravi fra loro distinzione alcuna fra guerrieri ed agricoltori, ossia nobili e contadini. Però, dopo che fissaronsi nelle grandi pianure dove scorre la Vistola ed il Niemen, cominciando a svilupparsi fra essi l'agricoltura e nello stesso tempo continuando la necessità di guerreggiare contro bellicosi vicini, i capi delle tribù o woiewodi si circondarono di un certo numero di individui scelti, i quali ebbero come occupazione speciale quella delle armi. Essi erano divisi nelle varie comunità rurali ed erano naturalmente esentati dai lavori agricoli, pur ricevendo la loro porzione dei prodotti della terra, alla quale, come gli altri comunisti, aveano diritto. Nei primi tempi la loro posizione non era molto ricercata e vi ebbero esempi di paesani, che rifiutavano l'esenzione dei lavori agricoli pur di non andare a combattere; ma, gradatamente, come quest'ordine di cose si fece stabile, come una classe si abituò al maneggio delle armi ed agli ordinamenti militari, mentre l'altra vieppiù incallivasi nell'uso dell'aratro e della vanga, i guerrieri divennero nobili e padroni ed i contadini, da compagni e fratelli, tramutaronsi in villani e servi. Poco a poco i bellicosi signori moltiplicarono le loro esigenze al punto che la parte, che essi prendevano come membri della comunità, si allargò fino a comprendere tutto il prodotto della comunità stessa, meno ciò che era assolutamente necessario alla sussistenza dei coltivatori; e quando questi tentarono di fuggire, furono con la forza costretti a restar legati alla terra, assumendo cosi il loro stato i caratteri di una vera e propria servitù della gleba [59].

Evoluzione analoga abbiamo in Russia. Colà i guerrieri che costituivano la droujina, ossia il seguito degli antichi kniaz o principi discendenti da Rürick, ottennero anch'essi, per vivere, una parte del reddito dei mir, o comuni rurali dei contadini. A poco a poco questa parte crebbe e siccome la terra abbondava e le braccia mancavano ed i contadini ne profittavano per emigrare, lo czar Boris Godounof alla fine del decimosesto secolo diè il diritto ai nobili di ritenere con la forza i contadini nelle loro terre, dando cosi origine alla servitù della gleba. Però in Russia giammai la forza armata fu costituita esclusivamente dai nobili: i moujiks o piccoli uomini seguivano alla guerra come gregari i membri della droujina e poi, fin dal secolo sedicesimo, Ivano IV il Terribile costituiva mediante gli strelitzi un corpo di truppe quasi stanziali, che durò fino a quando Pietro il Grande lo sostituì con i reggimenti organizzati secondo il tipo europeo-occidentale, nei quali gli antichi membri della droujina, uniti a stranieri, formarono il corpo degli ufficiali, ed i moujiks diedero l'intero contingente dei soldati [60].

In generale poi, in tutti i popoli entrati recentemente nello stadio agricolo e relativamente civile, troviamo costante il fatto che la classe per eccellenza militare corrisponde a quella politica o dominatrice; in qualche parte anzi l'uso delle armi resta riservato esclusivamente a questa classe, come è accaduto nell'India ed in Polonia; più comunemente avviene che anche i membri della classe governata possono essere eventualmente arruolati, ma sempre come gregari e nei corpi meno stimati. Così in Grecia, all'epoca delle guerre mediche, i cittadini appartenenti alle classi più ricche ed influenti costituivano i corpi scelti dei cavalieri e degli opliti, i meno ricchi combattevano come peltasti o frombolieri e gli schiavi, ossia la massa dei lavoratori, era quasi completamente esentata dal maneggio delle armi. Ordinamento perfettamente analogo troviamo nella Roma repubblicana fino all'epoca delle guerre puniche ed anche fino a Caio Mario, tra i Galli all'epoca di Giulio Cesare [61], nell'Europa latina e germanica del Medio Evo, nella Russia testè citata ed in molti altri popoli.

V. — Come in Russia ed in Polonia, come nell'India e nell'Europa del Medio Evo, dappertutto le classi guerriere e dominatrici si sono accaparrata la quasi esclusiva proprietà delle terre, che nei paesi non molto civili sono la fonte principalissima della produzione e della ricchezza. A misura poi che la civiltà va progredendo, il reddito di queste terre va aumentando [62], ed allora, se altre circostanze vi concordano, può avvenire una trasformazione sociale molto importante: la qualità più caratteristica della classe dominante più che il valore militare viene ad essere la ricchezza, i governanti sono i ricchi piuttosto che i forti.

La principale condizione necessaria perchè questa trasformazione avvenga è la seguente: occorre che l'organizzazione sociale si perfezioni e si concentri in maniera che il presidio della forza pubblica diventi molto più efficace di quello della forza privata. Bisogna, in altre parole, che la proprietà privata sia sufficientemente tutelata dalla forza pratica e reale delle leggi in modo da rendere superflua quella del proprietario stesso. Ciò si ottiene mediante una serie di graduali mutamenti nell'ordinamento sociale, sui quali più avanti ci dovremo piuttosto lungamente intrattenere, e che hanno per effetto di cambiare quel tipo di organizzazione politica, che noi chiameremo lo Stato feudale, in un altro tipo, essenzialmente diverso, che da noi sarà denominato Stato burocratico. Però fin da ora possiamo dire che la evoluzione, alla quale abbiamo accennato, ordinariamente è molto facilitata dal progredire dei pacifici costumi e da certe abitudini morali, che le società contraggono col progredire della civiltà.

Una volta avvenuta la detta trasformazione è certo che, come il potere politico ha prodotto la ricchezza, così la ricchezza produce il potere. In una società già abbastanza matura, nella quale la forza individuale è tenuta a freno da quella collettiva, se i potenti sono ordinariamente i ricchi, dall'altra parte basta essere ricchi per diventare potenti. Ed in verità è inevitabile che, quando è proibita la lotta a mano armata restando permessa quella a colpi di scudi, i posti migliori siano conquistati appunto da coloro che di scudi sono meglio forniti.

Ci sono invero Stati di civiltà avanzatissima, che sono organizzati in base a principî morali di un'indole tale, che sembrano escludere questa preponderanza della ricchezza da noi enunciata. Ma questo è uno dei tanti casi in cui i principi teorici non hanno che una limitata applicazione nella realtà delle cose. Negli Stati Uniti d'America, ad esempio, tutti i poteri escono direttamente od indirettamente dalle elezioni popolari ed il suffragio è, in quasi tutti gli Stati, universale; e vi è anche di più: la democrazia colà non è solo nelle istituzioni, ma anche in certo modo nei costumi, e vi è una certa ripugnanza nei ricchi a darsi ordinariamente alla vita pubblica ed una certa ripugnanza nei poveri a scegliere i ricchi per le cariche elettive [63]. Ciò non toglie che un ricco vi sia sempre molto più influente di un povero, perchè può pagare i politicanti spiantati, che dispongono delle pubbliche amministrazioni; non toglie che le elezioni si facciano al suono dei dollari; che intieri parlamenti locali e numerose frazioni del Congresso non risentano l'influenza delle potenti compagnie ferroviarie e dei grandi baroni della finanza. E vi è perfino chi assicura che, in parecchi Stati dell'Unione, chi abbia molto da spendere possa anche concedersi il lusso di ammazzare un uomo colla quasi sicurezza dell'impunità [64].

Anche nella China fino a qualche anno fa, il Governo, sebbene non avesse accolto il principio dell'elezione popolare, era fondato sopra una base essenzialmente egalitaria; si sa che i gradi accademici aprivano l'accesso alle pubbliche cariche e che questi gradi si conferivano per esame senza apparente riguardo alla nascita od alla ricchezza [65]. Ma benchè la classe doviziosa sia in China meno numerosa, meno ricca, meno strapotente che negli Stati Uniti d'America, non è men vero che essa avea saputo notevolmente intaccare la leale applicazione di questo sistema. Non solo si comprava spesso a forza di danaro l'indulgenza degli esaminatori, ma il Governo stesso talora per danaro vendeva i diversi gradi accademici e permetteva che arrivassero agli impieghi persone ignoranti, che qualche volta erano venute su dagli ultimi strati sociali [66].

Prima di lasciare quest'argomento dobbiamo poi rammentare che, in tutti i paesi del mondo, altri mezzi d'influenza sociale, quali sarebbero la notorietà, la grande cultura, le cognizioni speciali, i gradi elevati nelle gerarchie ecclesiastiche, amministrative e militari, si acquistano sempre più facilmente dai ricchi anzichè dai poveri. I primi per arrivare devono sempre percorrere una via notevolmente più breve di quella dei secondi, senza contare che il tratto di strada, che ai ricchi viene risparmiato, è spessissimo il più aspro e difficile.

VI. — Nelle società nelle quali le credenze religiose hanno molta forza ed i ministri del culto formano una classe speciale si costituisce quasi sempre un'aristocrazia sacerdotale, che ottiene una parte più o meno grande della ricchezza e del potere politico. Abbiamo esempi cospicui di questo fatto in certe epoche dell'antico Egitto, nell'India braminica e nell'Europa del Medio Evo. Spesso i sacerdoti, oltre che adempire agli uffici religiosi, hanno avuto anche cognizioni giuridiche e scientifiche e hanno rappresentato la classe intellettualmente più elevata. Conscientemente o inconscientemente però, nelle gerarchie sacerdotali si è manifestata di frequente la tendenza a monopolizzare le cognizioni accennate e ad ostacolare la diffusione dei metodi e dei procedimenti, che rendono possibile e facile l'apprenderle. Si può invero sospettare che a questa tendenza sia, almeno in parte, dovuta la lentissima diffusione che ebbe nell'Egitto antico l'alfabeto demotico, infinitamente più semplice e facile della scrittura geroglifica. In Gallia i Druidi, sebbene avessero conoscenza dell'alfabeto greco, non permettevano che la copiosa raccolta della loro letteratura sacra fosse scritta ed obbligavano i loro allievi a cacciarla con molta fatica a memoria. Allo stesso scopo può essere attribuito l'uso tenace e frequente delle lingue morte, che troviamo nell'antica Caldea, nell'India e nell'Europa del Medio Evo. Qualche volta, infine, come è appunto accaduto nell'India, si è proibito formalmente alle classi inferiori di aver conoscenza dei libri sacri.

Le nozioni speciali e la vera cultura scientifica, spoglie di qualunque carattere sacro e religioso, diventano una forza politica importante solo in uno stadio molto avanzato di civiltà; ed è allora soltanto che esse possono a coloro che le posseggono aprire l'adito della classe governante. Ma, anche in questo caso, è da tener presente che ciò che ha un valore politico non è tanto la scienza in se stessa quanto le applicazioni pratiche che se ne possono fare a vantaggio del pubblico, ovvero dello Stato. Qualche volta non si richiede che il possesso dei soli procedimenti meccanici indispensabili per acquistare una coltura superiore, forse perchè è più facile constatare e misurare la perizia, che in essi il candidato ha potuto acquistare. Così, in certe epoche dell'antico Egitto, la professione di scriba conduceva alle cariche pubbliche ed al potere, forse anche perchè l'apprendere la scrittura geroglifica richiedeva lunghi e pazienti studi; come pure, nella China moderna, la conoscenza dei numerosissimi caratteri della scrittura chinese ha formato la base della cultura dei mandarini [67]. Nell'Europa presente ed in America la classe, che applica alla guerra, all'amministrazione pubblica, alle opere ed alla sanità pubblica i ritrovati della scienza moderna, occupa una posizione socialmente e politicamente ragguardevole: e, negli stessi paesi, come nella Roma antica, privilegiata assolutamente è la condizione dei giurisperiti, che conoscono la complicata legislazione comune a tutti i popoli di antica civiltà, massime se alle nozioni giuridiche accoppiano quel genere di eloquenza, che più incontra il gusto dei propri contemporanei. Non mancano esempi nei quali vediamo che, nella frazione più elevata della classe politica, la lunga pratica nel dirigere l'organizzazione militare e civile della comunità fa nascere e sviluppare una vera arte di governo superiore al gretto empirismo ed a tutto ciò che può suggerire la sola esperienza individuale. E allora che si costituiscono quelle aristocrazie di funzionari, come il Senato romano, il veneto e, fino ad un certo punto la stessa aristocrazia inglese, che formavano l'ammirazione dello Stuart Mill e che certo hanno dato alcuni dei Governi, che più si sono distinti per maturità nei loro disegni e costanza ed avvedutezza nel metterli in esecuzione. Quest'arte non è certo la Scienza politica, ma ha precorso senza dubbio l'applicazione di alcuni suoi postulati; però, se essa si è in qualche modo affermata in certe classi di persone da lungo tempo in possesso delle funzioni politiche, crediamo che la sua conoscenza non abbia servito mai come criterio ordinario per aprirne l'accesso a coloro, che dalla loro posizione sociale ne restavano esclusi [68].

VII. — In certi paesi troviamo le caste ereditarie; la classe governante è perciò definitivamente ristretta ad un dato numero di famiglie e la nascita è l'unico criterio, che determina l'entrata nella detta classe o l'esclusione da essa. Gli esempi di queste aristocrazie ereditarie sono comunissimi e non vi è quasi paese di antica civiltà, che, in una data epoca della sua storia, non ne abbia avuto. Una nobiltà ereditaria troviamo infatti in certi periodi nella China e nell'Egitto antico, nell'India, nella Grecia anteriore alle guerre mediche, in Roma antica, tra gli Slavi, tra i Latini e Germani del Medio Evo, nel Messico all'epoca della scoverta dell'America e nel Giappone fino a pochi anni fa.

Su questo proposito dobbiamo premettere due osservazioni: la prima è che tutte le classi politiche hanno la tendenza a diventare di fatto, se non di diritto, ereditarie. Infatti tutte le forze politiche hanno quella qualità, che in fisica si chiama forza di inerzia, cioè la tendenza a restare nel punto e nello stato in cui si trovano. Il valor militare e la ricchezza facilmente per tradizione morale e per effetto dell'eredità si mantengono in certe famiglie; e la pratica delle grandi cariche, l'abitudine e quasi l'attitudine a trattare gli affari di importanza si acquistano molto più facilmente quando da piccoli si è avuta con essi una certa famigliarità. Anche quando i gradi accademici, la coltura scientifica, le attitudini speciali provate per mezzo di esami e di concorsi aprono l'adito alle cariche pubbliche, non si distrugge quel vantaggio speciale a favore di taluni, che i Francesi definiscono il vantaggio delle posizioni già prese. Ed in realtà, per quanto esami e concorsi siano teoricamente aperti a tutti, alla maggioranza manca sempre l'agiatezza necessaria per sopperire alle spese di una lunga preparazione, ed a molti altri fanno difetto le relazioni e le parentele, per le quali un individuo è messo subito sulla via buona e si evitano i tentennamenti e gli sbagli inevitabili quando si entra in un ambiente sconosciuto, nel quale non si hanno guide ed appoggi [69].

La seconda osservazione consiste in ciò: che, quando vediamo in un paese stabilita una casta ereditaria che monopolizza il potere politico, si può esser sicuri che un simile stato di diritto fu preceduto dallo stato di fatto. Prima di affermare il loro diritto esclusivo ed ereditario al potere, le famiglie o le caste potenti dovettero tenere ben saldo nelle loro mani il bastone del comando, dovettero monopolizzare assolutamente tutte le forze politiche di quell'epoca e di quel popolo in cui si affermarono; altrimenti una pretesa di questo genere avrebbe suscitato proteste e lotte acerbissime.

Dopo ciò diremo come le aristocrazie ereditarie spesso hanno vantato una origine soprannaturale o almeno diversa e superiore a quella delle classi governate; tale pretesa si spiega con un fatto sociale importantissimo, del quale dovremo lungamente parlare nel seguente capitolo, e che fa sì che ogni classe governante tende a giustificare il suo potere di fatto appoggiandolo ad un principio morale d'ordine generale. Recentemente però la stessa pretesa si è presentata con l'appoggio di un corredo scientifico. Qualche scrittore, sviluppando ed ampliando le teorie del Darwin, crede che le classi superiori rappresentino un grado più elevato dell'evoluzione sociale e che esse quindi siano per costituzione organica migliori di quelle inferiori; il Grumplowicz, già citato, va più avanti e sostiene nettamente il concetto che la divisione dei popoli in classi professionali è fondata, nei paesi di moderna civiltà, sopra una eterogeneità etnica [70].

Or sono notissime nella storia le qualità come anche i difetti speciali, le une e gli altri molto accentuati, che hanno mostrato quelle aristocrazie, che sono rimaste perfettamente chiuse, oppure che hanno reso molto difficile l'accesso nella loro classe. L'antico patriziato romano e la moderna nobiltà inglese e tedesca danno subito l'idea del tipo che accenniamo. Senonchè, di fronte a questo fatto ed alle teorie che tendono ad esagerarne la portata, si può fare sempre la stessa obiezione: che gl'individui appartenenti a queste aristocrazie debbono le loro qualità speciali non tanto al sangue, che loro scorre nelle vene, quanto alla particolarissima educazione che hanno ricevuto, e che ha sviluppato in loro certe tendenze intellettuali e morali a preferenza di altre [71].

Si dice che ciò può esser sufficiente a spiegare le superiorità nelle attitudini puramente intellettuali, ma non le differenze di carattere morale, come sarebbero la forza di volontà, il coraggio, l'orgoglio, l'energia. Ma la verità è che la posizione sociale, le tradizioni di famiglia, le abitudini della classe in cui viviamo, contribuiscono al maggiore o minore sviluppo delle qualità accennate più di quanto comunemente si crede. Se infatti osserviamo attentamente gl'individui che cambiano di posizione sociale, o in meglio o in peggio, e che entrano in conseguenza in un ambiente diverso da quello al quale erano abituati, possiamo facilmente accertarci che le loro attitudini intellettuali si modificano molto meno sensibilmente di quelle morali, Astrazion facendo della maggiore larghezza di vedute, che lo studio e le cognizioni danno a chiunque non sia assolutamente uno stupido, ogni individuo, resti semplice segretario o diventi ministro, arrivi al grado di sergente od a quello di generale, sia milionario o pezzente, si mantiene immancabilmente a quel livello intellettuale, che la natura gli ha dato. Mentre, col cambiare del grado sociale e della ricchezza, possiamo benissimo vedere l'orgoglioso diventare umile e la servilità cambiarsi in tracotanza; un carattere franco e fiero, costretto da necessità, imparare a mentire o quanto meno a dissimulare; e chi si è piegato lungamente a simulare e mentire rifarsene poi adottando una sedicente franchezza ed inflessibilità di carattere. È pure vero che chi dall'alto viene abbassato spesso acquista forza di rassegnazione, di sacrificio e d'iniziativa, come pure che chi dal basso viene innalzato qualche volta guadagna riguardo al sentimento della giustizia e dell'equità. Insomma, si muti in bene o in male, deve essere eccezionalmente temprato quell'individuo, che, cambiando notevolmente di posizione sociale, conserva inalterato il proprio carattere [72].

Il coraggio guerresco, l'energia nell'attacco, la longanimità nella resistenza sono qualità, che spesso e lungamente sono state credute monopolio delle classi superiori. Certo grande può essere la differenza naturale e, diremo cosi, innata che su queste qualità può correre fra un individuo ed un altro; a mantenerle però alte o basse, in media, in una categoria d'uomini numerosa, concorrono sopratutto le tradizioni e le abitudini dell'ambiente. Generalmente ci familiarizziamo col pericolo, o meglio ancora con un dato pericolo, quando le persone con cui siamo usi a vivere ne parlano con indifferenza e rimangono calme ed imperturbabili davanti ad esso. Infatti, sebbene molti ce ne siano naturalmente timidi, i montanari affrontano impavidi i pericoli degli abissi ed i marinari quelli del mare, ed allo stesso modo le popolazioni e le classi abituate alla guerra mantengono in sommo grado le virtù militari.

E ciò è tanto vero che, anche popolazioni e classi sociali ordinariamente disusate dalle armi, acquistano rapidamente le dette virtù, purchè gl'individui da esse provenienti vengano incorporati in certi nuclei, dove il coraggio e l'ardire siano tradizionali; purchè siano, ci si passi la metafora, gettati in crogiuoli umani fortemente imbevuti di quei sentimenti, che ad essi si vogliono trasmettere. Con fanciulli principalmente rubati fra gl'infiacchiti Greci di Bisanzio Maometto II reclutava i suoi terribili giannizzeri; il tanto disprezzato fellah egiziano, da lunghi secoli disabituato dalle armi ed avvezzo a ricevere umile ed imbelle le bastonate di tutti gli oppressori, mescolato ai Turchi ed Albanesi di Mehemet-Alì diventava un buon soldato. La nobiltà francese ha goduto sempre gran fama per il suo brillante valore, ma, fino alla fine del secolo decimottavo, questa qualità non era ugualmente attribuita alla borghesia dello stesso paese; le guerre della repubblica e dell'impero dimostrarono ampiamente che la natura era stata ugualmente prodiga di coraggio per tutti gli abitanti della Francia, e che plebe e borghesia potevano fornire non solo buoni soldati, ma anche, che ciò si credeva privilegio esclusivo dei nobili, eccellenti ufficiali [73].

VIII. — Infine, stando all'idea di coloro che sostengono la forza esclusiva del principio ereditario nella classe politica, si verrebbe ad una conseguenza consimile a quella che abbiamo accennato nella prima parte del nostro lavoro: la storia politica della umanità dovrebbe essere molto più semplice di quella che è. Se veramente la classe politica appartenesse ad una razza differente o se le sue qualità dominatrici si trasmettessero principalmente per mezzo della eredità organica, non si capirebbe il perchè, formata una volta questa classe, essa debba decadere e perdere il potere. È ammesso comunemente che le qualità proprie di una razza sono molto tenaci e, stando alla teoria dell'evoluzione, le attitudini acquisite nei padri sono innate nei figli e col succedersi delle generazioni si vanno sempre più affinando. Sicchè i discendenti dei dominatori dovrebbero diventare sempre più atti a dominare, e le altre classi dovrebbero mano mano vedere allontanata la possibilità di misurarsi con loro e di sostituirli. Or la più volgare esperienza basta a farci sicuri che le cose non vanno precisamente così.

Noi vediamo che, appena si spostano le forze politiche, se si fa sentire il bisogno che attitudini diverse di quelle antiche si affermino nella direzione dello Stato e se le antiche quindi non conservano la loro importanza, o se avvengono dei cambiamenti nella loro distribuzione, muta anche la maniera come la classe politica è formata. Se in una società si forma un nuovo cespite di ricchezza, se cresce l'importanza pratica del sapere, se l'antica religione decade od una nuova ne nasce, se una nuova corrente di idee si diffonde, contemporaneamente avvengono forti spostamenti nella classe dirigente. Si può dire anzi che tutta la storia dell'umanità civile si riassume nella lotta fra la tendenza, che hanno gli elementi dominatori a monopolizzare le forze politiche ed a trasmetterne ereditariamente il possesso ai loro figli, e la tendenza, che pure esiste, verso lo spostamento di queste forze e l'affermazione di forze nuove, la quale produce un continuo lavorio di endosmosi ed esosmosi fra la classe alta e alcune frazioni di quelle basse. Decadono poi immancabilmente le classi politiche ogni qualvolta non possono più esercitare le qualità per le quali arrivarono al potere, o quando non possono rendere più il servizio sociale che rendevano o le loro qualità ed i servizi che rendono perdono ogni importanza nell'ambiente sociale in cui vivono: cosi decadde l'aristocrazia romana quando non fornì più esclusivamente gli alti ufficiali dell'esercito, gli amministratori della repubblica, i governatori delle Provincie; cosi decadde la veneta quando i suoi patrizi non comandarono più le galere e non passarono più gran parte della loro vita navigando, commerciando e combattendo.

Nella natura inorganica troviamo l'esempio dell'aria, nella quale la tendenza all'immobilità, prodotta dalla forza d'inerzia, è continuamente combattuta dalla tendenza allo spostamento, conseguenza delle ineguaglianze nella distribuzione del calorico. Le due tendenze, prevalendo a vicenda nelle diverse parti del nostro pianeta, vi producono or la calma, or il vento e la tempesta. Senza voler trovare alcuna analogia sostanziale fra questo esempio ed i fenomeni sociali, e solo citandolo perchè ci fa comodo come paragone formale, osserviamo che, nelle società umane, prevale ora la tendenza che produce la chiusura, l'immobilità, la cristallizzazione, per dir così, della classe politica, ora quella che ha per conseguenza il suo più o meno rapido rinnovamento.

Le società dell'Oriente, che noi giudichiamo immobili, in realtà non lo sono sempre state, perchè altrimenti, come abbiamo già accennato, non avrebbero potuto fare quei progressi di cui ci lasciarono le irrecusabili testimonianze. È molto più esatto il dire che noi le abbiamo conosciute quando erano in un periodo di cristallizzazione delle loro forze e classi politiche. Lo stesso avviene in quelle società, che comunemente si chiamano invecchiate, nelle quali le credenze religiose, la cultura scientifica, i modi di produrre e distribuire la ricchezza non hanno subito da lunghi secoli alcun radicale cambiamento, e che non sono state turbate nel loro ordinario andamento da infiltrazioni materiali od intellettuali di elementi stranieri. In queste società, le forze politiche essendo sempre le stesse, la classe che le possiede mantiene indisputato il potere, che si perpetua per ciò in certe famiglie e l'inclinazione verso la immobilità si generalizza anche in tutti gli strati sociali.

È così che nell'India vediamo il regime delle caste stabilirsi rigorosamente dopo che vi fu soffocato il Buddismo. Così vediamo pure che nell'antico Egitto i Greci trovarono le caste ereditarie, mentre sappiamo che nei periodi di splendore e rinnovamento della civiltà egiziana la ereditarietà degli uffici e delle condizioni sociali non esisteva [74]. Ma l'esempio più noto e forse più importante di una società che tende a cristallizzarsi l'abbiamo in quel periodo della storia romana che dicesi il basso impero, nel quale, dopo alcuni secoli di un'immobilità sociale quasi completa, vediamo farsi sempre più netta la separazione fra due classi: l'una di grandi proprietari e funzionari importanti, l'altra di servi, di coloni, di plebe; e cosa anche più notevole, stabilita pria dal costume che dalla legge, l'eredità degli uffici e delle condizioni sociali si andò in quell'epoca rapidamente generalizzando [75].

Ma può avvenire al contrario, e avviene qualche volta nella storia delle nazioni, che il commercio con genti estranee, la necessità di emigrare, le scoperte, le guerre, creino nuova povertà e ricchezza nuova, diffondano cognizioni fin allora sconosciute, producano l'infiltrazione di nuove correnti morali, intellettuali e religiose. Può accadere che, per lenta elaborazione interna o per effetto di queste infiltrazioni, o per ambo le cause, sorga una scienza nuova, o tornino in onore i risultati di quella antica, che era stata obliata, e che le nuove idee e le nuove credenze scuotano le abitudini intellettuali sulle quali si fondava l'obbedienza delle masse. La classe politica può anche essere vinta e distrutta in tutto od in parte da invasioni straniere e, quando si producono le circostanze dianzi rammentate, può anche essere sbalzata di seggio da nuovi strati sociali forti di nuove forze politiche. È naturale che ci sia allora un periodo di rinnovamento, o, se si vuole definirlo così, di rivoluzione, durante il quale le energie individuali hanno buon giuoco ed alcuni fra gl'individui più passionati, più attivi, più scaltri ed arditi possono dal basso della scala sociale aprirsi la via fino ai gradi più elevati.

Questo movimento, una volta iniziato, non si può tutto ad un tratto fermare; l'esempio di contemporanei, che, partiti dal nulla sono arrivati a posizioni cospicue, stimola nuove ambizioni, nuove cupidigie, nuove energie, ed il rinnovamento molecolare della classe politica si mantiene attivo finchè un lungo periodo di stabilità sociale non lo va di nuovo rallentando [76]. Allora, mano mano che dallo stato febbrile una società va passando a quello di calma, siccome le tendenze psicologiche dell'uomo sono sempre le stesse, coloro che fanno parte della classe politica vanno acquistando lo spirito di corpo e di esclusivismo ed imparano l'arte di monopolizzare a loro vantaggio le qualità e le attitudini necessarie per arrivare al potere e per mantenerlo: infine, col tempo, si forma la forza conservatrice per eccellenza, quella dell'abitudine, per la quale molti si rassegnano a stare in basso, ed i membri di certe famiglie o classi privilegiate acquistano la convinzione che per loro è quasi un diritto assoluto lo stare in alto ed il comandare.

Ad un filantropo verrebbe certo la voglia di indagare se l'umanità sia più felice o meno tribolata quando si trova in un periodo di calma e cristallizzazione sociale, in cui ognuno deve quasi fatalmente restare in quel gradino della gerarchia sociale nel quale è nato, ovvero quando traversa il periodo perfettamente opposto di rinnovamento e rivoluzione, che permette a tutti di aspirare ai gradi più eccelsi ed a qualcheduno di arrivarvi. Una simile indagine sarebbe difficile, e si dovrebbe tener conto nella risposta di molte condizioni ed eccezioni e forse essa sarebbe sempre influenzata dal gusto individuale dell'osservatore. Perciò noi ci guarderemo bene dal darla; molto più che, se anche potessimo ottenere un risultato indiscutibile e sicuro, esso sarebbe sempre di una scarsissima utilità pratica: attesochè ciò che filosofi e teologi chiamano il libero arbitrio, cioè la scelta spontanea degli individui, ha avuto finora, e forse avrà sempre, pochissima o quasi nessuna influenza nell'affrettare la fine od il principio di uno dei periodi storici accennati.

 


 

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CAPITOLO III
Nozioni preliminari.

I. La formola politica. — II. Il tipo sociale. — III. Rapporti tra il tipo sociale e le religioni universali. — IV. Efficacia di queste religioni. — V. La formola politica e le religioni universali. — VI. Lo Stato feudale e lo Stato burocratico. — VII. Differenze fra questi due tipi di ordinamento politico. — VIII. Cenno sulle cause della decadenza degli Stati burocratici.

I. — Come abbiamo già accennato nel precedente capitolo, accade immancabilmente, o almeno è accaduto finora in tutte le società discretamente numerose ed appena arrivate ad un certo grado di coltura, che la classe politica non giustifica esclusivamente il suo potere col solo possesso di fatto, ma cerca di dare ad esso una base morale ed anche legale, facendolo scaturire come conseguenza necessaria di dottrine e credenze generalmente riconosciute ed accettate nella società che essa dirige. Cosi, ad es., in una società fortemente imbevuta dallo spirito cristiano, la classe politica governa per volontà del sovrano, il quale, alla sua volta, regna perchè è l'unto del Signore. Anche nelle società maomettane l'autorità politica è esercitata direttamente in nome dal califfo, ossia vicario del Profeta, o in nome di colui che dal califfo ha ricevuto una investitura tacita od espressa. I mandarini chinesi reggevano lo Stato, perchè si supponeva interpretassero la volontà del figlio del cielo, che dal cielo avea ricevuto il mandato di governare paternamente, e secondo le regole della morale di Confucio, il popolo delle cento famiglie. La complicata gerarchia dei funzionari civili e militari dell'impero romano si fondava sulla volontà dell'imperatore, il quale, almeno fino a Diocleziano, per supposizione legale, avea ricevuto dal popolo il mandato di reggere la cosa pubblica. I poteri di tutti i legislatori, magistrati ed impiegati negli Stati Uniti d'America emanano direttamente od indirettamente dal suffragio degli elettori, ritenuto espressione della sovrana volontà popolare.

Questa base giuridica e morale, sulla quale in ogni società poggia il potere della classe politica, è quella che in altro lavoro abbiamo chiamato [77], e che d'ora in poi chiameremo formola politica, e che i filosofi del diritto appellano generalmente principio di sovranità. — Essa difficilmente è identica in società diverse, e due o parecchie formole politiche hanno notevoli punti di contatto, oppure una rassomiglianza fondamentale, solo quando sono professate da popoli che hanno lo stesso tipo di civiltà, o, usando già una espressione che fra poco spiegheremo, appartengono allo stesso tipo sociale. — Le diverse formole politiche, secondo il diverso grado di civiltà delle genti fra le quali sono in vigore, possono essere fondate o su credenze soprannaturali o sopra concetti che, se non sono positivi, ossia fondati sulla realtà dei fatti, appaiono almeno razionali. — Non diremo però che, tanto nel primo che nell'altro caso, rispondano a verità scientifiche; anzi ci è d'uopo confessare che, se nessuno ha visto mai l'atto autentico con il quale il Signore ha dato facoltà a certe persone o famiglie privilegiate di reggere per conto suo i popoli, un osservatore coscienzioso può anche facilmente constatare che un'elezione popolare, per quanto il suffragio sia largo, non è ordinariamente l'espressione della volontà delle maggioranze [78].

Ciò però non vuol dire che le varie formole politiche siano volgari ciarlatanerie inventate appositamente per scroccare l'obbedienza delle masse, e sbaglierebbe di molto colui che in questo modo le considerasse. La verità è dunque che esse corrispondono ad un vero bisogno della natura sociale dell'uomo; e questo bisogno, così universalmente sentito, di governare e sentirsi governare non sulla sola base della forza materiale ed intellettuale, ma anche su quella di un principio morale, ha indiscutibilmente la sua pratica e reale importanza.

Ha scritto lo Spencer che il diritto divino dei Re fu la grande superstizione dei secoli passati e che il diritto divino delle assemblee elette a suffragio popolare è la grande superstizione del secolo presente. — Il concetto non si può dire errato, ma certo non contempla ed esaurisce tutti i lati della questione. Pare a noi che sia necessario anche di vedere se, senza qualcuna di queste grandi superstizioni, una società si possa reggere; se una illusione generale non sia cioè una forza sociale, che serve potentemente a cementare la unità e la organizzazione politica di un popolo e di un'intera civiltà.

II — L'umanità si divide in gruppi sociali, ognuno dei quali è distinto dagli altri da credenze, sentimenti, abitudini ed interessi, che ad esso sono speciali. Gl'individui, che di uno di questi gruppi fanno parte, sono uniti fra loro dalla coscienza di una fratellanza comune, e divisi dagli altri gruppi da passioni e tendenze più o meno antagonistiche e repulsive. Come abbiamo già accennato, la formola politica deve essere fondata sulle speciali credenze e sui sentimenti più forti del gruppo sociale nel quale è in vigore, o almeno della frazione di questo gruppo, che ha la preminenza politica.

Questo fenomeno dell'esistenza dei gruppi sociali, ognuno dei quali ha caratteristiche proprie e spesso presume una superiorità assoluta sugli altri [79], è stato riconosciuto ed esaminato da molti autori, segnatamente da quelli moderni che trattano del principio di nazionalità. Recentemente il Gumplowicz ha fatto molto bene rilevare l'importanza che esso ha nella Scienza politica o Sociologia che voglia dirsi. Adotteremmo anche il termine usato a definirlo da questo autore, il quale lo chiama singenismo, se il vocabolo, conformemente alle idee fondamentali dello scrittore, non accennasse ad una preponderanza quasi assoluta dell'elemento etnico, ossia della comunità di sangue e di razza, nella formazione di ciascun gruppo sociale [80]. Or noi crediamo che in parecchie civiltà primitive, non tanto la comunità di sangue quanto l'opinione che essa esisteva, la credenza di un antenato comune, spesso nata dopo che il tipo sociale era formato [81], abbia potuto contribuire a cementarne l'unità; ma crediamo pure che le moderne dottrine antropologiche e filologiche abbiano potuto suscitare un risveglio di antipatie tra gruppi sociali e frazioni dello stesso gruppo, le quali hanno per semplice pretesto le differenze di razza. In verità poi nella formazione del gruppo o tipo sociale, oltre alla più o meno sicura affinità della razza, concorrono molti altri elementi, come sarebbero la comunità di lingua, di religione, di interessi, ed i frequenti rapporti determinati dalla posizione geografica. Anzi, non è neppur necessario che tutti questi fattori coesistano; giacchè la comunità della storia, la vita vissuta per secoli insieme con vicende identiche o simili, determinando la somiglianza delle abitudini morali ed intellettuali, delle passioni e delle ricordanze, diventa spesso l'elemento precipuo per la creazione di un tipo sociale consciente [82].

Una volta questo formato si ha, come già avvertimmo nella prima parte del nostro lavoro, quasi un crogiuolo, che imprime uno stampo comune a tutti gli individui che entrano in esso. Si chiami suggestione, mimetismo o semplicemente educazione, avviene allora quel fenomeno per il quale l'uomo sente, crede, ama ed odia, secondo l'ambiente nel quale vive: per il quale si è Cristiani od Ebrei, Maomettani o Buddisti, Francesi od Italiani, meno rarissime eccezioni, per la sola ragione che tali erano coloro fra i quali siamo nati e cresciuti [83].

III. — Nei primordi della storia ogni popolo civile era quasi un'oasi in mezzo ad un deserto di barbarie, le diverse civiltà aveano perciò fra di loro o scarsissime comunicazioni o queste mancavano in modo assoluto: tale fu infatti la condizione dell'antico Egitto durante le prime dinastie e tale quella della China fino ad un'epoca assai meno remota. Allora naturalmente ogni tipo sociale avea un'originalità assoluta, quasi in niun modo temperata da infiltrazioni ed influenze straniere [84]. Malgrado però che questo isolamento dovesse fortemente contribuire a rinforzare la tendenza che ha ogni tipo sociale a riunirsi in unico organismo politico, pure fin d'allora vediamo che essa non prevale che a sbalzi. Stando infatti agli esempi citati, la China all'epoca di Confucio, si divideva in molti Stati feudali quasi indipendenti l'uno dall'altro, e nell'Egitto spesso vediamo i diversi hiq o re locali dei singoli nomi acquistare la piena indipendenza e qualche volta anche il basso e l'alto Egitto formavano regni distinti. Più tardi, in civiltà avanzatissime e molto complesse come quella ellenica, vediamo svolgersi a preferenza una tendenza contraria a quella che abbiamo accennato, la tendenza cioè che spinge un tipo sociale a dividersi in organismi politici distinti e quasi sempre rivali.

Infatti l'egemonia, che diversi stati greci tentarono stabilire su tutti i popoli ellenici, fu sempre un concetto molto lontano dalla vera unità politica; e del resto gli sforzi di Atene, di Sparta e poi della Macedonia per stabilire quest'egemonia in modo duraturo ed efficace non ebbero mai un completo successo.

Ciò che forma il tratto veramente caratteristico di molti popoli dell'antichità ed in generale delle civiltà che chiameremmo primitive, perchè poco hanno sentito l'influenza di elementi stranieri, è la semplicità e l'unità dell'intero sistema d'idee e di credenze, sulle quali si basava l'esistenza di un popolo e la sua organizzazione politica. Vediamo infatti fra i detti popoli la formola politica non solo essere appoggiata sulla religione, ma completamente immedesimarsi colla stessa. Il Dio era eminentemente nazionale, rappresentava il protettore speciale del territorio e del popolo, il fulcro della sua organizzazione politica; il popolo viveva finchè il suo Dio aveva forze bastanti per aiutarlo ed, alla sua volta, il Dio durava finchè viveva il suo popolo.

Gli Ebrei sono l'esempio più noto di un popolo organizzato secondo il sistema che abbiamo accennato, ma non si deve credere che, nell'epoca in cui fiorirono, i regni d'Israele e di Giuda costituissero un'eccezione. Lo stesso ufficio che Javeh esercitava a Gerusalemme, Kamos lo disimpegnava a Moab [85]; Marduk a Babilonia, Assur a Ninive ed Ammon a Tebe.

Come il Dio d'Israele comandava a Saul, a David ed a Salomone di combattere ad oltranza gli Ammoniti ed i Filistei, così Ammon imponeva ai Faraoni d'Egitto di percuotere i barbari dell'Oriente e dell'Occidente ed Assur incitava allo sterminio degli stranieri i sovrani di Ninive e loro concedeva la vittoria [86].

A poco a poco però i rapporti fra popoli relativamente civili si fecero più frequenti; avvenne la fondazione di grandissimi imperi e questi non poterono sempre essere basati sull'assimilazione e distruzione completa dei popoli vinti, ma dovettero spesso contentarsi della semplice loro dipendenza. Allora il vincitore frequentemente credè atto politico il riconoscere e l'adorare il Dio dei vinti: infatti i Re assiri conquistatori di Babilonia spesso resero omaggio a Marduk e pare che lo stesso abbia fatto Ciro; Alessandro Magno sacrificò ad Ammon, ed in generale a tutte le divinità dei conquistati, ed i Romani poi le ammisero tutte nel loro Pantheon. A questo punto, reso possibile dai lunghi periodi di pace e dall'assopimento delle rivalità nazionali, che seguono appunto lo stabilirsi di grandi organismi politici, vediamo apparire nel mondo un fenomeno relativamente recente, cioè le grandi religioni umanitarie ed universali; che, senza distinzione di razza, di lingua, di regime politico, aspirano ad estendere l'influenza delle loro dottrine indistintamente su tutta la terra.

IV. — Il Buddismo, il Cristianesimo ed il Maomettismo sono le tre grandi religioni umanitarie comparse finora nel mondo [87]. Comprendono tutte e tre un corpo completo di dottrine a base prevalentemente filosofica nel Buddismo e dommatica nel Cristianesimo e nel Maomettismo: ed ognuna di esse ha la pretesa di contenere la verità assoluta e di offrire una guida sicura ed infallibile, la cui osservanza procaccia il bene in questa vita e nell'altra. L'appartenere insieme ad una di queste religioni costituisce un legame grandissimo fra popoli disparati e differentissimi di razza e di lingua e dà ad essi una maniera speciale e comune d'intendere la morale e la vita, ed oltre a ciò costumi ed abitudini politiche e familiari tali da determinare la formazione di un vero tipo sociale, le cui caratteristiche sono spesso così spiccate, così profonde, da riuscire quasi indelebili. Si può dire anzi che dalla comparsa di queste grandi religioni data la distinzione precisa tra tipo sociale e tipo nazionale, che prima quasi non esisteva. Infatti un tempo vi era la civiltà egiziana, la caldaica, la greca, ma non la civiltà cristiana e la maomettana; non esisteva cioè un complesso di popoli, distinti di lingua e di razza e divisi in molteplici organismi politici, ma uniti da credenze, sentimenti e coltura comune.

Il Maomettismo è fra tutte le religioni quella che forse scolpisce più fortemente la sua impronta negli individui, che l'hanno abbracciato, o meglio che sono nati in una società di cui essa si è impadronita. Il Cristianesimo ed anche l'Ebraismo sono state e sono finora forme adattissime per modellare, secondo certi determinati disegni, la molle creta dello spirito umano. Più blanda è l'azione del Buddismo, ma pur sempre molto efficace.

È pure da osservare che queste grandi religioni con dottrine e gerarchia religiosa fortemente organizzate, se da una parte servono maravigliosamente all'affratellamento ed all'assimilazione dei correligionari, sono dall'altra parte una forza coibente di una efficacia grandissima fra popolazioni di credenze diverse. Esse bastano a scavare un abisso quasi incolmabile fra genti vicine per razza e per lingua, che abitano in paesi contigui o anche nella stessa contrada. E la differenza di religione infatti che ha reso quasi impossibile la fusione fra le popolazioni che abitano la penisola balcanica e l'India [88]. È certamente maravigliosa l'attitudine che mostrarono i Romani ad assimilare i popoli sottomessi vincendo notevolissime resistenze provenienti dalla differenza di razza, di lingua, di grado di cultura; ma forse non sarebbero ugualmente riusciti se avessero incontrato l'ostacolo di religioni ostili, esclusive e fortemente organizzate. Difatti il Druidismo nelle Gallie ed in Bretagna, benchè avesse una organizzazione assai poco elaborata, pure offrì qualche resistenza, ed i Giudei si fecero sterminare e disperdere, ma non furono assimilati. Nel Nord dell'Africa Roma riuscì a latinizzare e conquidere alla sua civiltà, almeno fino ad un certo punto, i progenitori dei moderni Mori, Arabi e Kabili, ma non si trovò di fronte alla religione mussulmana, come ora accade ai Francesi ed agli Italiani. Giugurta e Tacfarina non potevano fare appello alle passioni religiose come Abd-el-Kader e Bou-Maza. Come bene scrisse il Karamzine la religione cristiana impedì che la Moscovia, sotto la lunga dominazione dei Mongoli, diventasse interamente asiatica; e d'altra parte, sebbene i Russi siano alla loro volta potenti assimilatori e nella grande Russia il sangue finnico e mongolo siasi in forti proporzioni mescolato allo slavo [89], pure i nuclei di Tartari maomettani di Kazan, di Astrakan e di Crimea non si sono fatti assorbire; essi o hanno emigrato o sono rimasti formando una popolazione a parte, sottomessa ma nettamente distinta dal resto dei sudditi dello Czar. Anche in China i figli del Celeste Impero hanno potuto assai bene assimilare gli abitanti delle provincie meridionali, diversi di razza e di lingua, ma non già i Roui-Tze, discendenti dalle tribù turche da circa mille anni residenti nelle provincie del Nord-ovest della China propriamente detta; perchè, malgrado che questi abbiano adottato la lingua e le apparenze esteriori dei Chinesi propriamente detti, coi quali vivono mescolati nelle stesse città, pure sono stati tenuti in un isolamento morale dal Maomettismo, che i loro padri avevano adottato prima che passassero la gran muraglia [90].

V. — Coll'apparire delle grandi religioni universali la storia dell'umanità si complica di fattori nuovi. Già abbiamo visto che, anche prima che esse sorgessero, un tipo sociale, malgrado la sua tendenza all'unità, si potea dividere in diversi organismi politici. Con le dette religioni questo fatto divenne più generale e meno evitabile e potè cominciare quel fenomeno, che in Europa viene definito la lotta tra lo Stato e la Chiesa.

La complicazione nasce principalmente da ciò, che la tendenza all'unità nel tipo sociale resta, ma è ostacolata da forze molto maggiori. Avviene poi che se da una parte la organizzazione politica tende sempre a giustificare la propria esistenza mercè i principî della religione prevalente, questa, da parte sua, cerca sempre d'impadronirsi del potere politico e d'identificarsi con esso per farne strumento ai suoi fini ed alla sua propaganda.

È nei paesi maomettani che religione e politica stanno più strettamente unite. Il capo di uno Stato maomettano è stato quasi sempre il pontefice di una delle grandi sètte in cui si divide l'Islam, oppure dal pontefice ha ricevuto l'investitura. Vero è che nei secoli scorsi quest'investitura fu spesso una vana formalità, che il Califfo, ridotto omai senza forze temporali, non potea negare ai potenti; ma bisogna tener presente che, nel periodo che corre dalla decadenza degli Abassidi di Bagdad fino al sorgere del grande impero ottomano, il fanatismo musulmano era molto minore di quello di oggi [91]. Certo è poi che ogni grande rivoluzione o fondazione di nuovo Stato nei paesi maomettani si accoppia e giustifica quasi sempre con un nuovo scisma religioso; così fu nel Medio Evo, quando sorsero i nuovi imperi degli Almoravidi e degli Almohaidi, e lo stesso è avvenuto nel secolo decimonono coll'insurrezione dei Wahabiti e con quella capitanata dal Mahdi di Ondurman.

In China il Buddismo vive sottomesso sotto la protezione dello Stato, il quale mostra di riconoscerne e tutelarne il culto per un riguardo alle classi basse della popolazione, che ne sono seguaci [92]. Nel Giappone questa religione è tollerata, ma il Governo cerca attualmente di favorire l'antica religione nazionale di Sinto. In Europa i diversi riti del Cristianesimo si trovano in condizioni molto differenti.

In Russia lo czar è il capo della religione ortodossa e l'autorità della Chiesa si confonde quasi con quella dello Stato, anzi, agli occhi di un vero russo, un buon suddito dello czar deve essere greco ortodosso [93]. Anche nei paesi protestanti il rito dominante ha pure un carattere più o meno ufficiale. Il Cattolicismo, dalla caduta dell'impero romano, ha avuto, ed ha ancora, un'indipendenza maggiore. Nel Medio Evo aspirò ad asservire l'autorità laica in tutti i paesi che erano entrati nell'orbita cattolica, e ci fu un momento in cui il Papa, potè sperare vicina la realizzazione del vastissimo progetto di riunire tutta la Cristianità, cioè tutto un tipo sociale, sotto la sua influenza più o meno diretta. Ora vive di compromessi, dando appoggio ai poteri laici e ricevendone, e, qua e là, in lotta aperta con essi.

Un organismo politico la cui popolazione è seguace di una delle religioni universali accennate, o anche divisa fra diversi riti di una di queste religioni, deve avere una base propria giuridica e morale sulla quale poggi la sua classe politica. Deve essere perciò fondato sul sentimento nazionale, sulla lunga tradizione dell'autonomia, sulle rimembranze storiche, sulla devozione secolare ad una dinastia, su qualche cosa insomma che ad esso sia speciale. Accanto al culto generale, umanitario, deve esistere in certo modo il culto, diremmo quasi nazionale, più o meno bene conciliato e coordinato con quello. I doveri dei due culti vengono spesso cumulativamente osservati dagli stessi individui: ed a questo proposito è bene osservare che non sempre gli uomini sono perfettamente coerenti nello stabilire i principi ai quali inspirano la loro condotta. Sicchè in pratica si può essere buoni cattolici e nello stesso tempo buoni Tedeschi, buoni Italiani, buoni Francesi e servire fedelmente un sovrano protestante od una Repubblica, che fa professione ufficiale di anticlericalismo. Qualche volta, come avviene frequentemente in Italia, si può essere anche buon patriotta ed ardente socialista, sebbene la democrazia sociale, come il Cattolicismo, sia nella sua essenza contraria al particolarismo nazionale. Però queste transazioni avvengono quando le passioni non sono molto acuite, ed, a rigor di logica, avevano ragione gl'Inglesi del secolo decimottavo, i quali, considerando che il Re era il capo della Chiesa anglicana e che al Papa dovea anzi tutto obbedienza ogni buon cattolico, credevano che egli non potesse essere nello stesso tempo un buon inglese.

Ciò che è veramente necessario, quando esiste un antagonismo più o meno larvato fra una dottrina od una religione che aspira all'universalità ed i sentimenti e le tradizioni, che sostengono il particolarismo di uno Stato, è che questi ultimi siano veramente forti, che siano anche collegati con molti interessi materiali e che una frazione cospicua della classe dirigente ne sia fortemente imbevuta e li propaghi e li mantenga nelle masse. Quando questa frazione della classe politica è inoltre saldamente organizzata può tener testa a tutte le correnti religiose e dottrinarie, che esercitano la loro influenza nella società che essa dirige. Ma se i suoi sentimenti sono fiacchi, le sue forze morali od intellettuali deficienti, la sua organizzazione difettosa, allora quelle prevalgono e lo Stato finisce col diventare lo zimbello di qualcuna delle religioni o dottrine universali, ad esempio del cattolicismo o della democrazia sociale.

VI. — Prima di procedere innanzi crediamo opportuno, per rendere più facile l'esposizione di ciò che appresso diremo, di dare una breve notizia intorno ai due tipi secondo i quali ci pare che si possano classificare tutti gli organismi politici. Questi due tipi sarebbero il feudale ed il burocratico.

Cominciamo subito col far rilevare che questa nostra classificazione non è basata su criteri immutabili ed essenziali; non crediamo perciò che ci sia alcuna legge psicologica, la quale sia speciale ad alcuno dei due tipi ed ignota quindi all'altro. Ci pare anzi che i due tipi non siano che la manifestazione, in momenti diversi, di una sola tendenza costante, per la quale l'organizzazione politica delle società umane diventa meno semplice ossia più complicata, mano mano che ogni società aumenta in grandezza e si perfeziona in civiltà. La seconda di queste condizioni è anzi più indispensabile e di carattere più generale della prima, perchè, a dir vero, anche Stati molto vasti possono essere organizzati feudalmente. In fondo uno Stato burocratico non è perciò che uno Stato feudale la cui organizzazione, progredendo e sviluppandosi, si è complicata; come pure uno Stato feudale può provenire da una società già burocratizzata, che, decaduta di civiltà e spesso ridotta in frammenti, è stata costretta a ritornare ad un ordinamento politico più semplice e più primitivo.

Ciò premesso, diremo come per Stato feudale intendiamo quel tipo di organizzazione politica nella quale tutte le funzioni direttive di una società, come sarebbero le economiche, le giuridico-amministrative e le militari, sono esercitate cumulativamente dagli stessi individui, e nello stesso tempo lo Stato si compone di piccoli aggregati sociali, ognuno dei quali possiede tutti gli organi necessari per bastare a se stesso. L'Europa del Medio Evo ci offre l'esempio più conosciuto di questa specie di ordinamento, che perciò appunto abbiamo chiamato feudale, ma, studiando la storia degli altri popoli e leggendo i racconti dei viaggiatori contemporanei, ci possiamo facilmente accorgere che esso è molto diffuso. Infatti, come il barone medioevale era proprietario della terra, comandante degli armati, giudice ed amministratore del suo feudo, nel quale godeva il mero e misto imperio, cosi ora il Ras abissino compartisce la giustizia, comanda i guerrieri e preleva i tributi, ossia toglie al coltivatore tutto quanto non è strettamente necessario al suo mantenimento. In certe epoche dell'antico Egitto l'hiq o governatore locale curava la manutenzione dei canali, dirigeva le culture, amministrava la giustizia, esigeva i tributi, comandava gli armati [94]; anche il curaca del Perù, sotto l'impero degli Incas, era il capo del suo villaggio ed a questo titolo ne amministrava la proprietà rurale collettiva, vi esercitava le funzioni giudiziarie e, alla richiesta del figlio del Sole, ne comandava il contingente armato [95].

Qualche volta anche le funzioni religiose sono state disimpegnate dallo stesso capo che dirigeva le altre attività sociali, come appunto avveniva nel Medio Evo europeo quando gli abati ed i vescovi erano pure feudatari. È pure da tener presente che si può avere un ordinamento feudale, anche quando la terra, fonte quasi esclusiva della ricchezza nelle società poco avanzate, non è giuridicamente proprietà assoluta della classe governante. Poichè, dato che i coltivatori non siano legalmente vassalli e schiavi e che siano anche nominalmente proprietari del campo che coltivano, certo è che il capo locale ed i suoi satelliti, avendo piena podestà d'imporre tributi e corvées, lascieranno ai lavoratori dei campi soltanto quello che è necessario per la loro sussistenza.

Hanno avuto carattere spiccatamente feudale anche piccoli organismi politici, nei quali la produzione della ricchezza è stata basata non sulla cultura della terra, ma sul commercio e sull'industria; giacchè ci è stata la stessa fusione della direzione politica ed economica nelle stesse persone. Così i capi politici dei Comuni medioevali erano nello stesso tempo capi delle corporazioni di arti e mestieri; i negozianti di Tiro e Sidone, come quelli di Genova e di Venezia, di Brema e di Amburgo dirigevano i banchi e le fattorie stabilite nei paesi barbari, comandavano le navi, che a volta servivano al commercio ed a volta alla guerra, e governavano le loro città. Ciò accadeva specialmente quando la città viveva di commercio marittimo, nell'esercizio del quale chi comandava la nave alla funzione commerciale accoppiava molto facilmente la direzione politica e militare. Altrove, a Firenze ad esempio, dove gran parte dei proventi si traevano dall'industria e dalle banche, la classe dirigente presto perdette le abitudini guerresche e perciò la direzione militare [96]. Forse si deve in parte a ciò la vita agitata, che visse la oligarchia mercantile di Firenze dalla cacciata del duca di Atene a Cosimo dei Medici.

VII. — Nello stato burocratico non devono necessariamente tutte le funzioni direttive essere accentrate nella burocrazia e da essa venire esercitate: possiamo anzi affermare che ciò fino al momento presente, forse mai è avvenuto. La caratteristica principale di questo tipo di organizzazione sociale crediamo che stia in questo fatto: che, laddove esso sussiste, il potere centrale preleva per via d'imposte una parte notevole della ricchezza sociale, la quale serve prima di tutto al mantenimento dell'organizzazione militare, poi a sopperire ad una quantità più o meno grande di funzioni civili. Sicchè una società tanto più è burocratica quanto maggiore è la quantità di funzionari, che disimpegnano uffici pubblici e vivono ricevendo un salario dal Governo centrale o dai corpi locali.

In uno Stato burocratico poi la specializzazione delle funzioni dirigenti è sempre maggiore che negli Stati feudali: la prima e la più elementare divisione delle attribuzioni è quella che sottrae all'elemento militare le facoltà amministrative e le giudiziarie. È anche evidente che negli Stati burocratici la disciplina in tutti i gradi della gerarchia politica amministrativa e militare è molto più assicurata. Il paragone fra un conte del Medio Evo circondato da armigeri e vassalli da secoli attaccati alla sua famiglia e mantenuti coi prodotti delle terre del signore ed un prefetto ed un generale moderni, ai quali un colpo di telegrafo può sottrarre di botto ogni autorità e perfino lo stipendio, basta subito a darcene una idea. Nello Stato feudale perciò si richiede una grande energia, un gran senso politico in colui o coloro che stanno al sommo vertice della scala sociale per tenere organizzati, compatti, obbedienti ad un unico impulso i diversi gruppi sociali, che tenderebbero alla disgregazione ed all'autonomia, e ciò è tanto vero che, spesso, con la morte di un capo autorevole finisce la forza di uno Stato. Solo una grande unità morale, l'appartenere ad un tipo sociale molto spiccato, può salvare per lungo tempo l'esistenza politica di un popolo feudalmente organizzato; e certamente ci è voluto il Cristianesimo per isolare e salvare l'autonomia delle genti abissine, circondati da pagani e maomettani. Quando però questa forza coibente agisce in modo fiacco e quando lo Stato feudale si trova a contatto con popoli più saldamente organizzati, allora è molto facile che sia assorbito e sparisca in una delle tante crisi periodiche, alle quali in esso il potere centrale è fatalmente soggetto [97]. Al contrario le qualità personali del capo supremo influiscono relativamente poco sulla durata di uno Stato burocratico ed una società burocraticamente organizzata può conservare la sua autonomia anche quando ripudia una antica formola politica e ne adotta una nuova , ovvero quando modifica, anche profondamente, il suo tipo sociale [98].

VIII. — L'organizzazione burocratica non deve essere necessariamente accentratrice, nel senso che comunemente si suol dare a quest'espressione; spesso la burocratizzazione si può conciliare con una larga autonomia provinciale, come accade, ad esempio, nella China; dove le diciotto provincie propriamente chinesi hanno una larghissima autonomia, in modo che dal capoluogo di ognuna di esse si provvede a quasi tutti gli affari locali [99].

Gli Stati di civiltà europea, anche i più discentrati, sono tutti più o meno burocratizzati: come abbiamo già accennato, la caratteristica principale di un organismo burocratico è questa: che in esso le funzioni militari ed un numero più o meno grande gli altri servizi pubblici sono esercitati da impiegati salariati. Che i salari siano tutti pagati dal Governo centrale o che in parte ricadano sui corpi locali, che più o meno stanno sotto il controllo di quello, è un dettaglio, che non ha la grande importanza che ad esso si suole attribuire.

Nella storia non mancano i casi di organismi politici molto piccoli, i quali, avendo un'organizzazione burocratica appena abbozzata o non avendone quasi affatto, hanno compito miracoli di energia in ogni ramo dell'attività umana. Le città elleniche ed i Comuni italiani del Medio Evo sono esempi che neppure occorre di citare. Ma quando si tratta di vasti organismi umani, che si stendono su tratti grandissimi di territorio e comprendono milioni e milioni d'individui, pare che solo l'organizzazione burocratica riesca a riunire sotto unico impulso quegli immensi tesori di forza economica e di energia morale ed intellettuale, coi quali la classe dirigente può riuscire a modificare profondamente le condizioni interne di una società [100], ed a renderne efficace e potente l'azione al di là dei proprii confini. Era infatti burocratizzato l'Egitto nei bei tempi della XVII e XVIII dinastia, quando la civiltà dei Faraoni ebbe una delle più splendide rinascenze ed i battaglioni egiziani dal Nilo Azzurro estesero le loro conquiste fino ai piedi del Caucaso [101]. Era uno Stato fortemente burocratico l'impero romano, saldissimo organismo sociale che seppe estendere la civiltà della Grecia e dell'Italia e la lingua dell'Italia a tanta parte del mondo, compiendo uno dei più difficili lavori di assimilazione sociale. Ed è burocratica la Russia, che, malgrado varie gravissime debolezze interne, ha ancora una potente vitalità e spinge sempre più avanti la sua espansione nei vastissimi territori dell'Asia.

Malgrado questi e parecchi altri esempi, che facilmente si potrebbero trovare, non bisogna dimenticare un fatto importantissimo, che abbiamo già accennato; cioè che nessuna grande società troviamo nella storia, nella quale tutte le attività umane siano state completamente burocratizzate. E questo forse uno dei tanti indizii della grande complessità delle leggi sociali, la quale fa sì che un tipo di ordinamento politico, che produce buoni risultati quando è applicato fino ad un certo punto, sistematizzato e generalizzato, riesce inattuabile e dannoso. Infatti noi vediamo spesso burocratizzata la giustizia, burocratizzata l'amministrazione, e quel gran burocratizzatore, che fu Napoleone primo, condusse a buon punto anche la burocratizzazione dell'insegnamento e della gerarchia sacerdotale cattolica; vediamo spesso eseguiti dalla burocrazia strade, canali, ferrovie, tutti i lavori pubblici, che agevolano la produzione della ricchezza, ma questa produzione stessa non vediamo mai interamente burocratizzata. Sembra che la direzione di questo ramo importantissimo dell'attività sociale mal si pieghi, come tanti altri, alla regolarità burocratica e che per la classe, che vi è dedicata, il tornaconto individuale sia uno sprone ben più efficace di qualunque salario governativo.

Ma vi è di più: abbiamo indizii abbastanza forti che la burocratizzazione estesa alla produzione ed all'intera distribuzione della ricchezza sarebbe esiziale. Non vogliamo accennare ai danni economici del protezionismo, dell'ingerenza del Governo nelle banche  e del soverchio svolgimento dato ai lavori pubblici, e facciamo soltanto rilevare un fatto bene accertato. Il regime burocratico, nel quale chi dirige la produzione economica ed anche il singolo lavoratore sono protetti contro la confisca arbitraria per parte dei forti e dei prepotenti e che severamente reprime ogni guerra privata, offre una grande sicurezza alla vita umana ed anche alla proprietà: con esso mediante una quota parte fissa, che il produttore paga a profitto dell'organizzazione sociale, egli ha il tranquillo godimento del resto della produzione; ciò che permette tale uno svolgimento della ricchezza pubblica e privata, il quale è ignoto nei paesi più barbari e più primitivamente organizzati. Ma può accadere, ed è accaduto, che, o perchè le pretensioni della classe militare e degli altri burocratici sono troppo esagerate, o per i soverchi uffici che la burocrazia vuole disimpegnare, o per le guerre ed i debiti, che ne sono la conseguenza, la quantità di ricchezza, che la classe che adempie alle altre funzioni che non siano le economiche assorbisce e consuma, diventi troppo esagerata. Allora l'imposta prelevata sulle classi produttrici della ricchezza può aumentare al punto da far diminuire fortemente il tornaconto individuale alla produzione, ed in questo caso viene a scemare immancabilmente la produzione stessa. Colla diminuzione della ricchezza vanno di pari passo l'emigrazione od una maggiore mortalità nelle classi povere ed infine l'esaurimento dell'intero corpo sociale. Sono questi appunto i fenomeni che scorgiamo al declinare degli Stati burocratici; li vediamo infatti nell'epoca che seguì il massimo svolgimento burocratico dell'Egitto antico e più visibilmente ancora durante la decadenza dell'impero romano [102].

 


 

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CAPITOLO IV.
Rapporti tra la classe politica ed il tipo sociale.

I. Tendenza degli organismi ad estendere il proprio tipo sociale. — II. Coesistenza di diversi tipi sociali in unico organismo politico. — III. Unità e differenze di tipo sociale tra le varie classi dello stesso popolo. — IV. Rapporti tra la diversità dei costumi e la varietà del tipo sociale. — V. Psicologia delle plebi. — VI. Conseguenze della diversità di tipo sociale tra la plebe e la classe dirigente.

I. — Abbiamo già visto nel capitolo precedente come ogni tipo sociale abbia la tendenza a riunirsi in un unico organismo politico; diremo ora come ogni organismo politico, estendendosi, quasi sempre miri e spesso riesca all'allargamento del proprio tipo sociale.

Questa aspirazione, che troviamo anche nell'antichità più remota, aveva allora la sua attuazione mercè procedimenti barbari, grossolani e violenti, ma certo efficaci. Gli Assiri, ad es., costumavano di trapiantare le popolazioni conquistate, le quali, strappate a forza dalla madre patria, venivano disseminate fra genti di spirito e di nazionalità assira colle quali finivano col fondersi [103]; alla loro volta colonie assire venivano spesso mandate nelle terre conquistate. Gl'Incas del Perù costumavano parimenti di trapiantare in massa le tribù selvagge che conquistavano, per poterle più facilmente addomesticare alla civiltà peruviana ed assimilarle agli altri sudditi del figlio del sole. Nel Medio Evo Carlomagno, dopo avere sterminato una buona parte dei Sassoni, trapiantò nel loro paese delle numerose colonie di Franchi [104]. Alcuni secoli dopo i Cavalieri Teutonici estendevano la lingua germanica e la religione cristiana dalle rive dell'Elba fino alle foci della Vistola e del Niemen con modi consimili: sterminando cioè una parte dei naturali e trasportando nei paesi conquistati numerose colonie tedesche [105].

I Romani applicarono alle volte metodi analoghi, ma non ne fecero un uso esclusivo. Ad es., non li impiegarono mai colle popolazioni molto civili dell'Oriente, ed anche in Gallia, in Spagna, in Britannia ed altrove l'impero assimilò i barbari basandosi principalmente sulla diffusione della lingua e del diritto latino e su quella della letteratura e della scienza greco-italiana, diffondendo infine i benefizi di un'amministrazione ammirevolmente organizzata e di una civiltà superiore [106].

Generalmente la propaganda religiosa ed una coltura più avanzata sono i modi più efficaci per assimilare le popolazioni sottomesse. Fu infatti con questi modi che il Messico, il Perù e moltissimi altri paesi dell'America meridionale ricevettero in pochi secoli l'impronta della civiltà spagnuola e portoghese, sebbene buona parte, e qualche volta la gran maggioranza dei loro abitanti, non fossero di origine iberica.

II. — Ma spesso un diverso tipo sociale sopravvive, almeno per alcuni secoli, malgrado che sul popolo che l'ha adottato pesi l'egemonia o il dominio di un popolo conquistatore. Nell'antico impero persiano i Medo-persiani, adoratori del fuoco, erano dominatori ed il loro sovrano era il Re dei Re, colui che comandava a tutti i sovrani che facevano parte del vastissimo Stato. Ma le popolazioni sottomesse, rette dai satrapi, ovvero anche dalle antiche dinastie dei sovrani indigeni, conservavano intatte le loro credenze, i loro usi, i loro costumi, ne abbandonavano il loro tipo sociale per adottare quello dei Medo-Persiani. Anzi per alcune di queste popolazioni, poste in mezzo all'impero, ma tutelate dalla difficoltà dei siti e dalle abitudini guerresche, la soggezione era più apparente che reale [107]. In questo modo la Corte di Susa potè reggere per quasi due secoli un vastissimo impero nel quale, tranne in Egitto, dalla fine del regno di Dario d'Istaspe fino all'invasione di Alessandro Magno non vi furono notevoli ribellioni. E da notare però che al primo urto un po' forte l'impero si sfasciò, perchè i popoli sottomessi non avevano alcuna vera solidarietà con quello dominatore, nè le loro forze erano riunite e cementate da un'organizzazione amministrativa e militare veramente salda [108].

In altri Stati troviamo anche tipi sociali distinti, che pur vivono mescolati insieme. In Turchia, per es., vi sono nelle città i quartieri dei Turchi, dei Greci, degli Armeni e degli Ebrei, e nelle campagne i villaggi degli Osmanli spesso confinano con quelli dei Greci e dei Bulgari. In India convivono pure Bramini, Maomettani, Parsi ed Europei; anzi l'Oriente pare che abbia questa specialità di essere quasi un museo, dove si raccolgono quei frammenti ed avanzi di tipi sociali che altrove vengono assorbiti e scompaiono [109]. Quando in uno Stato avviene questa miscela di tipi sociali la classe politica deve essere fornita quasi esclusivamente da quello dominatore, e quando questa regola non è osservata, perchè il tipo dominatore non è sufficiente per numero o per energia morale ed intellettuale, allora un paese si può considerare come malato, prossimo cioè a gravi rivolgimenti politici.

La Turchia infatti trovasi in queste condizioni, perchè, venuta nel secolo scorso in contatto intimo e conflitto d'interessi colla civiltà europea, ha dovuto impiegare un gran numero di Greci, di Armeni ed anche di Franchi. Or, come è stato bene osservato, se ciò le ha fornito le risorse di una cultura superiore, le ha tolto in compenso una parte della sua selvaggia energia e non ha impedito sopratutto che il gran Sultano perdesse una parte considerevole del suo territorio. Nell'India i conquistatori britannici sono finora assai superiori di civiltà; ma, scarsissimi di numero, si fanno coadiuvare, nell'amministrazione, nella giustizia e nell'esercito da elementi indigeni. Or, se la parte a questi affidata nelle pubbliche funzioni diventerà tanto importante da rendere non indispensabile l'opera degli Europei, è dubbio che il dominio di questi possa lungamente durare.

Quando in uno Stato vivono mescolati diversi tipi sociali, accade quasi immancabilmente che anche in quelli sottomessi esista una classe, se non dominante, certo dirigente. Avviene qualche volta che questa classe è la prima che si lascia assorbire dal tipo dominatore. L'aristocrazia gallica infatti fece presto a romanizzarsi, essa in poche generazioni apprese la cultura classica e giuridica dei latini e brigò il diritto di cittadinanza romana, che le fu facilmente concesso. Anche i begs della Bosnia, per non cascare nel rango dei conculcati raia e non perdere i loro possedimenti, dopo la battaglia di Kossovo si convertirono all'Islamismo. Ma, nell'uno e nell'altro caso, si trattava di aristocrazie che non avevano molta cultura, nè sopratutto erano eredi delle memorie di un'antica e gloriosa civiltà. Più spesso infatti le tradizioni della grandezza passata, la coscienza della propria superiorità, la ripugnanza per il diverso tipo sociale la vincono sull'interesse personale, ed allora le classi alte del popolo vinto diventano l'elemento più inassimilabile. Così le nobili famiglie fanariote di Costantinopoli non si sono quasi mai convertite all'islamismo; i Cofti attuali, che esercitano ancora la professione di scribi e burocratici, pare che siano discendenti dell'antichissima classe letterata, che formava l'aristocrazia dell'antico Egitto e si mantengono cristiani, mentre la massa dei coltivatori o fellah è diventata da parecchi secoli maomettana. Pare che anche dall'aristocrazia persiana discendano gli attuali Guebri, che ancora mantengono il culto del fuoco. In India le caste più elevate hanno date meno conversioni all'islamismo.

III — Ed ora accenneremo ad un fenomeno sociale meno apparente, ma forse più importante. Il fatto della coesistenza in unico organismo politico di più di un tipo sociale si può trovare, in modo più o meno larvato, anche in paesi che apparentemente presentano una grande unità sociale. Esso avviene tutte le volte che la formola politica, sulla quale si basa la classe dirigente di una data società, non è accessibile alle classi più basse, oppure quando l'insieme di credenze e di principî morali e filosofici, del quale detta formola si compone, non è ancora abbastanza penetrato negli strati più numerosi e meno elevati di una società. Lo stesso accade quando una notevole differenza di costumi, di cultura e di abitudini vi è tra la classe dirigente e quella governata.

Ci spiegheremo meglio con degli esempi: a Roma e nella Grecia antica lo schiavo era tenuto interamente fuori dalla città, considerata come corpo politico e comunità morale. Egli non partecipava all'educazione nazionale, non era cointeressato nè materialmente nè moralmente al benessere dello Stato. Il Paria indiano tenuto fuori da ogni casta, che non deve neppure gli Dei avere comuni coi suoi oppressori, isolato assolutamente dal resto della popolazione, rappresenta pure una classe d'individui, che sta fuori moralmente dal tipo sociale entro il quale vive. Al contrario gli Ebrei ed altri popoli dell'antico Oriente consideravano anche il manovale e lo schiavo, una volta che si era per dir così nazionalizzato, come partecipe dei sentimenti della società alla quale apparteneva. La coltivazione accurata dei sentimenti, delle idee e delle abitudini delle classi basse, mercè un'opportuna catechizzazione, è pure merito grandissimo del Cristianesimo e dell'Islamismo, i quali sono in ciò più o meno efficacemente imitati dalle moderne nazioni europee.

Generalmente sono le formole politiche molto antiche, quell'insieme di credenze e di sentimenti, che hanno la sanzione dei secoli quelle che riescono a penetrare anche negli strati più bassi delle società umane. Accade invece che, quando un rapido movimento d'idee agita le classi più alte o alcuni centri intellettuali più attivi, che per lo più si trovano nelle grandi città, molto facilmente le classi più basse e le contrade più remote di uno Stato rimangono indietro e diversi tipi sociali accennano a formarsi nella stessa società.

La maggiore o minore unione morale fra tutte le classi sociali spiega la forza o la debolezza che in certi momenti mostrano alcuni organismi politici. È noto, ad esempio, quanto la macchina governativa della Turchia pecchi di venalità, inettitudine e trascuratezza; flotta, esercito, finanza tutto è andato in malora nei dominî della Sublime Porta; pure, in certe determinate occasioni, quando la mezzaluna appare in pericolo, il popolo turco ha dato talora segni di tale fiera energia da impensierire anche gli Stati militarmente più forti dell'Europa. Gli è che il povero nizam stracciato e scalzo, che si fa intrepidamente ammazzare dietro la trincea, il redif, che all'appello del Sultano, abbandona il tugurio, sentono davvero la formola politica che son chiamati a servire, e per essa sono pronti a dare l'ultimo parà e financo la vita. I contadini turchi della Romelia e dell'Anatolia credono realmente e fortemente nell'Islam, nel Profeta, nel Sultano, che ne è il vicario, e le credenze, in nome delle quali si domandano loro gli estremi sacrifici, sono le stesse, che ordinariamente riempiono la sua vita e formano il suo mondo morale ed intellettuale [110]. Malgrado la ordinaria mediocrità dei propri ufficiali superiori [111] il soldato russo fu l'avversario più temuto da Napoleone I; nella famosa campagna di Russia, la disfatta dell'esercito invasore, più che dal freddo, forse più che dalla fame e dalla diserzione, fu determinata dall'odio dal quale esso fu circondato e perseguitato da Vitebsk in poi, appena cioè entrò nei paesi propriamente russi. Fu quest'odio che inspirò la sinistra energia di distruggere le provvigioni nel raggio battuto dall'esercito nemico, di bruciare tutte le città ed i villaggi, che si trovavano nella strada da Smolensko a Mosca, e che die' a Rostopckin il coraggio di far bruciare la stessa Mosca. Poichè anche per il moujik russo, Dio, lo czar, la santa Russia formavano parte integrante di quelle credenze e di quei sentimenti dei quali, fin dalla nascita, era stato imbevuto e che per tradizione domestica aveva imparato a venerare.

E la stessa unità morale ci dà il segreto di altre resistenze fortunate e quasi miracolose, e, là dove manca, spiega il segreto di certe debolezze vergognose. Fu forte la Vandea, perchè nobili, curati e contadini avevano le stesse credenze, gli stessi affetti, le stesse passioni; fu fortissima la Spagna nel 1808 perchè il grande di Spagna e l'ultimo mandriano ugualmente sentivano l'odio contro i Francesi invasori, tenuti in conto di miscredenti, la fedeltà verso il loro sovrano, l'orgoglio di essere una nazione fiera ed indipendente. E questa unanimità di sentimenti, malgrado la mediocrità dei duci, e quella ancora più spiccata degli eserciti regolari, spiega i miracoli delle difese di Saragozza e di Tarragona e la vittoria finale che coronò la campagna per la guerra d'indipendenza [112].

Al contrario debolissima si mostrò la stessa Spagna all'epoca dell'invasione legittimista francese del 1822, perchè allora solo una parte delle classi superiori comprendevano ed apprezzavano il principio in nome del quale si combatteva, quello della monarchia costituzionale, che era incomprensibile per il resto delle classi superiori e per la massa del popolo. E debole si mostrò il Napoletano negli anni 1798 e 1799, malgrado i numerosi atti individuali e collettivi di disperato valore. Perchè, mentre la massa del popolo e la maggioranza delle classi medie e superiori odiavano i giacobini francesi, le idee rivoluzionarie, ed erano fanatici della monarchia legittima e più ancora della fede cattolica, una minoranza esigua delle classi elevate, scarsa di numero, ma forte per intelligenza, esaltazione ed audacia, dispregiava i sentimenti dei suoi compatriotti ed aderiva completamente a quelli dei Francesi. Fu per questo che il tradimento, e forse più che il tradimento il sospetto continuo di esso, disorganizzò ogni resistenza: disorganizzò l'esercito regolare, già per se stesso mediocre, e rese meno efficace la resistenza spontanea delle popolazioni, che forse, senza le intelligenze vere e supposte cogli invasori, avrebbe trionfato [113].

IV. — Finora abbiamo quasi esclusivamente accennato alle differenze di credenze religiose e politiche nei diversi strati sociali, ora faremo anche rilevare come il diverso grado di coltura intellettuale e la diversità di linguaggio, di abitudini e di costumi famigliari abbiano la loro importanza.

Noi siamo così abituati ad ammettere una distinzione fra la classe che ha ricevuto un'educazione letteraria e scientifica più o meno raffinata e quella che non ne ha ricevuto affatto od è rimasta ai primi rudimenti, fra il ceto civile, che ha le abitudini e le maniere della buona società, e la numerosa categoria di persone che di questi requisiti manca, che facilmente possiamo essere indotti a credere che la stessa distinzione, ugualmente profonda ed ugualmente netta, esista in tutte le società umane ed abbia sempre esistito nei nostri paesi. Ora ciò non è: certo nell'Oriente maomettano la distinzione accennata o non esiste quasi affatto o è infinitamente meno spiccata che fra noi [114]; in Russia la profonda differenza, che ci è ora fra la classe che colà si appella l'intelligenza ed i moujicks ed i mercanti dalla lunga barba, non poteva esistere all'epoca di Pietro il Grande, quando non v'erano colà Università, ed i boiardi eran quasi così rozzi ed ignoranti come i contadini. Anche nell'Europa occidentale solo due secoli fa la differenza della coltura intellettuale e delle abitudini pubbliche e private fra le diverse classi sociali era assai meno spiccata di ora; essa si è andata accentuando sensibilmente solo nei secoli decimottavo e decimonono. E, per quanto sia strano a prima vista, pure è esattamente vero che questo movimento nei costumi, notato da parecchi scrittori di paesi diversi [115], coincide col nascere e col crescere di quella corrente d'idee e di sentimenti, che generalmente va intesa col nome di democrazia, rendendo più stridente la contraddizione fra le teorie adesso più in voga e la loro pratica applicazione.

È nelle società burocratizzate che la differenza di educazione fra le varie classi sociali può divenire più accentuata, giacchè in quelle a tipo feudale i singoli membri della classe dirigente sono generalmente dispersi in mezzo ai loro seguaci, vivono in continuo contatto con loro, e devono esserne, in certo modo, i capi naturali. A qualcuno può far maraviglia che, durante il Medio Evo, quando il barone stava isolato in mezzo ai suoi vassalli e li trattava duramente, questi non profittassero della loro superiorità numerica per liberarsi. Or certo la cosa non sempre era facile, perchè un gruppo di persone, superiore per energia e pratica delle armi al resto dei soggetti, era sempre più o meno legato alla sorte del signore. Ma, indipendentemente da questa considerazione, bisogna tenerne presente anche un'altra, che ha un peso grandissimo: il barone conosceva spesso personalmente i suoi vassalli, aveva il loro modo di pensare e di sentire, le stesse superstizioni, le stesse abitudini, lo stesso linguaggio; era per loro un padrone, qualche volta anche duro ed arbitrario, ma era pure l'uomo, che essi comprendevano perfettamente, alla cui conversazione potevano pigliar parte, alla cui mensa, sebbene in luogo più basso, spesso si assidevano, ed insieme al quale qualche volta si ubbriacavano. Or bisogna mancare di qualunque conoscenza psicologica delle classi plebee per non comprendere subito quante cose questa famigliarità vera, proveniente dall'uguaglianza dell'educazione o, se così si vuole, da un'uguale rozzezza di abitudini, faccia tollerare e perdonare [116].

Difatti le prime rivolte dei contadini scoppiarono non quando la feudalità era più dura, ma quando i nobili impararono a stare fra loro e la gaia scienza e le corti d'amore cominciarono a dirozzarli e ad allontanarli dalle rustiche abitudini dell'isolato castello. Ed una osservazione importante fa su questo riguardo Adamo Mickievicz. Secondo quest'autore la nobiltà polacca fu popolare fra i contadini finchè visse in mezzo a loro; questi si lasciavano allora togliere volentieri il pane dalla bocca, perchè il loro signore potesse comprare cavalli ed armi di lusso per la caccia ed anche per andare a sciabolare i Turchi ed i Russi. Ma, quando l'educazione francese s'introdusse fra i nobili polacchi, quando essi impararono a dare le feste di ballo all'uso di Versailles e passarono le loro giornate danzando il minuetto, allora contadini e nobiltà cominciarono a fare due popoli a parte, nè i primi sostennero validamente la seconda nelle lotte, che alla fine del secolo decimottavo combattè contro gli stranieri [117]. Anche l'aristocrazia celtica dell'Irlanda, la vecchia nobiltà degli 0' e dei Mac era, secondo il Macaulay e tutti gli altri storici, popolarissima fra i contadini, le cui fatiche fornivano al capo del clan il lusso della sua rozza ed abbondante tavola, le cui figlie erano talora prelevate per il suo rustico harem; ma quei nobili erano considerati quasi come membri della famiglia, essi coi contadini aveano comune, dicevasi, il sangue e certo le abitudini e le idee. Invece odiatissimo fu il proprietario inglese che li surrogò, e che, forse più moderato e certo più regolato e corretto nelle esigenze, era però straniero di lingua, di religione, di consuetudini, viveva lontano, e, anche stando vicino, avea per tradizione acquistato l'abitudine di stare isolato, senza alcun contatto coi suoi dipendenti, tranne quello strettamente necessario fra padroni e servi [118].

V. — Gli è che vi sono nell'umanità sentimenti individualmente forse imponderabili, di analisi difficile e di più difficile definizione, ma il cui insieme è fortissimo e può contribuire alla preparazione di fatti sociali importantissimi. Chi scrisse che l'uomo si lascia guidare dal solo interesse, diede una massima generale di un valore pratico presso che nullo, la quale riesce a farci apprendere qualche cosa solo a patto di analisi e distinzioni molto minute. Chi crede che l'interesse sia quello solo che viene materialmente espresso per mezzo del danaro, e che si misura a soldi ed a lire, è una persona di poco cuore e che non ha testa sufficiente per capire gli altri uomini. In verità per ogni individuo l'interesse equivale al proprio gusto; ognuno quindi l'intende in una maniera speciale, e per molti la soddisfazione dell'amor proprio, del sentimento della dignità personale, di vanità grandi e piccole, di capricci e rancori individuali, vale più dei godimenti puramente materiali. Questi concetti bisogna sopratutto tener presenti quando si vogliono studiare le relazioni fra ricchi e poveri, fra superiori e subordinati, o meglio fra le diverse classi sociali. In fondo, purchè i primi bisogni siano abbastanza soddisfatti, ciò che contribuisce principalmente a far nascere ed a mantenere la ruggine fra le diverse classi sociali non è tanto la differenza dei godimenti materiali quanto l'appartenere a due ambienti diversi: giacchè, ad una parte almeno delle classi inferiori, ancor più delle privazioni, può riuscire amara l'esistenza di un mondo superiore dal quale è esclusa: di un mondo il cui accesso, senza esser proibito da leggi nè da privilegi ereditari, è ostacolato da un filo di seta sottilissimo, che difficilmente però si può scavalcare: la differenza di coltura, di maniere e di abitudini sociali.

Fin dall'antichità si è scritto che in ogni città ed in ogni Stato vi sono due popolazioni nemiche, che stanno sempre alle vedette per nuocersi l'una all'altra: queste due popolazioni sarebbero i ricchi ed i poveri. Or la massima non ci pare che possa avere un'applicazione assoluta e sopratutto generale, e quanto già abbiamo detto può servire a spiegare le moltissime eccezioni e restrizioni colle quali la si deve accogliere. Generalmente i poveri seguono i ricchi, o meglio le classi dirette seguono le dirigenti, ogni volta che sono imbevute delle stesse opinioni e credenze ed hanno un'educazione intellettuale e morale non troppo dissimile; le plebi inoltre sono fide coadiutrici delle classi elevate nelle lotte contro gli stranieri, quando il nemico appartiene ad un tipo sociale così differente da inspirare uguale ripugnanza a ricchi ed a poveri. Infatti in Spagna nel 1808 ed in Vandea contadini e signori combatterono insieme, nè i primi profittarono mai dei disordini dell'anarchia per svaligiare le case dei secondi. Non ci è quasi esempio che le classi povere di un paese cristiano si siano sollevate per aiutare una invasione maomettana, e molto meno poi le classi povere di un paese maomettano favorirebbero l'invasione cristiana.

La democrazia sociale dell'Europa centrale ed occidentale si mostra indifferente riguardo al concetto di nazionalità e proclama l'alleanza dei proletari di tutti i paesi contro i capitalisti di tutto il mondo; or queste teorie potrebbero forse avere una certa efficacia pratica se avvenisse una lotta fra Tedeschi e Francesi ovvero fra Italiani ed Inglesi, popoli appartenenti tutti, presso a poco, allo stesso tipo sociale. Ma se si trattasse di respingere una seria invasione tartara o chinese, o semplicemente turca o russa, noi crediamo che la grande maggioranza dei proletari, anche colà dove sono fortemente imbevuti di collettivismo mondiale, darebbero volentieri la loro cooperazione alle classi dirigenti [119].

Chi ha molto viaggiato avrà notato un fatto, che ha la sua importanza: spessissimo i poveri di paese diverso, come del resto fanno anche i ricchi che appartengono a differenti contrade, si affratellano fra di loro assai più che ricchi e poveri dello stesso paese [120]. Però ciò accade finchè si è tra popoli i costumi dei quali abbiano molta affinità con quelli di casa propria; perchè se si va in contrade molto lontane, dove si trovino idee ed abitudini interamente nuove, allora il ricco ed il povero dello stesso paese, o anche semplicemente di paesi vicini, si sentiranno fra di loro assai più legati che cogli stranieri della loro classe [121]. Il che vuol dire che, presto o tardi, arriva un punto in cui la differenza di tipo sociale è assai maggiore con lo straniero che fra le diverse classi dello stesso paese.

VI. — L' isolamento psicologico ed intellettuale delle plebi, il distacco troppo marcato fra la coltura, le credenze e la educazione delle varie classi sociali possono dare origine a parecchi fenomeni sociali, interessanti certamente per lo studioso di scienze politiche, ma pericolosi per le società ove accadono.

Ed in primo luogo, in sèguito a quest'isolamento, quasi necessariamente si forma in mezzo alla plebe un'altra classe dirigente, spesso in antagonismo con quella, che tiene in mano il governo legale [122]. Quando questa classe dirigente plebea è bene organizzata può dare a chi ufficialmente governa una data società serii impicci. In molti paesi cattolici, ad esempio, l'influenza morale sui contadini è ancora quasi tutta in potere del clero: questi hanno per il curato tutta quella fiducia che negano al funzionario governativo. In altri, dove il popolo vede in questo funzionario e nel signore degli uomini, se non del tutto nemici, certo completamente estranei, gli elementi più risoluti e maneschi della plebe qualche volta riescono a formare vastissime e tenacissime associazioni, che esigono tasse, amministrano una giustizia speciale per proprio conto, hanno la loro gerarchia, i loro capi, i loro tribunali riconosciuti. Si viene cosi a costituire un vero Stato entro lo Stato, un Governo occulto spesso più temuto, più obbedito e, se non più amato, certo più compreso del Governo legale.

Dappertutto poi dove una frazione della classe politica, o perchè convertita ad una nuova formola politica, o per altre ragioni, aspira a rovesciare il Governo legale, essa usa sempre di appoggiarsi sulle classi inferiori, che facilmente la seguono quando sono nemiche od indifferenti verso l'ordine di cose costituito. E per questa alleanza, così spesso conclusa, che noi vediamo la plebe strumento necessario di quasi tutte le sommosse e rivoluzioni e così spesso stare a capo dei movimenti popolari uomini di una condizione sociale superiore. Accade pure talvolta il fenomeno opposto: cioè che quella parte della classe politica, che ha in mano il potere e resiste alle correnti innovatrici, si appoggi sulle classi basse, che restano fedeli alle antiche idee ed all'antico tipo sociale. Cosi avvenne in Spagna dopo il 1822 e fino al 1830, così nel Napolitano nel 1799 ed in parte fino al 1860. In questi casi si possono avere periodi di governo goffo, ignorante e plebeo, del genere di quello che fu definito la negazione di Dio.

Ma il più pericoloso fra gli effetti, che può produrre la differenza di tipo sociale fra le varie classi sociali e l'isolamento reciproco fra esse, che necessariamente l'accompagna, è la mancanza di energia nelle classi superiori, che divengono deficienti di caratteri arditi e pugnaci e ricche di individui molli e passivi. Abbiamo già accennato come nello Stato a tipo feudale questo fatto riesca quasi impossibile: giacchè, là dove la società si divide in frammenti quasi indipendenti l'uno dall'altro, i capi di ogni singolo gruppo devono essere necessariamente energici, essendo la loro supremazia in gran parte affidata alla propria forza materiale e morale, che hanno campo inoltre di continuamente applicare ed esplicare nelle lotte cogli immediati vicini. Ma, quando l'organizzazione sociale è progredita, allora la superiorità della cultura e della ricchezza e sopra tutto la coesione e l'organizzazione della classe governante, la quale usufruisce dei vantaggi della macchina burocratica, possono, fino ad un certo punto, supplire alla mancanza di energia individuale. Può così accadere che una parte notevole della classe governante, specialmente quella che dà alla società il tono e l'indirizzo intellettuale, si disabitui dal trattare cogli uomini delle classi inferiori e dal direttamente comandarli. È questa la condizione di cose necessaria perchè la frivolezza ed una specie di cultura tutta astratta e convenzionale prendano il posto del senso della realtà e della vera ed esatta conoscenza della vita umana; perchè gli animi perdano ogni virilità e comincino a farsi strada le teorie sentimentali ed esageratamente umanitarie sulla bontà innata della specie umana, specialmente quando non è guasta dalla civiltà [123], e sulla preferenza assoluta da darsi, nelle arti di governo, ai mezzi dolci e persuasivi piuttosto che a quelli rigidi od imperiosi. Si crede allora, come scrisse il Taine, che, poichè la vita sociale per secoli ha proceduto blanda ed ordinata, come un fiume delle acque impetuose tra i suoi robusti argini, gli argini siano diventati superflui e si possano impunemente abbattere, perchè il fiume è rinsavito. 

In questi errori tanto più facilmente una classe politica è esposta a cadere quanto più essa è, se non legalmente, effettivamente chiusa agli elementi provenienti dalle classi inferiori; perchè in queste le necessità della vita, la gara continua ed aspra per il pane, la mancanza di coltura letteraria, mantengono sempre svegli gli aviti istinti della lotta e la rudezza inesauribile della natura umana. Ad ogni modo, si aggiunga o no all'isolamento intellettuale e morale anche quest'altro coefficiente dell'isolamento per dir così familiare, certo è che, quando la classe dirigente è degenerata nel modo che abbiamo accennato, perde l'attitudine a provvedere ai casi suoi ed a quelli della società, che ha la disgrazia di essere da essa guidata. Allora lo Stato rovina al primo urto un po' forte che venga dal nemico esterno, chi governa non sa affrontare la minima tempesta, ed i rivolgimenti che una classe politica forte ed avveduta avrebbe attuato con perdite infinitamente minori di ricchezza, di sangue umano e di senso morale [124] pigliano l'aspetto di cataclismi sociali. 

 


 

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CAPITOLO V.
La difesa giuridica.

I. Varie opinioni intorno al progresso del senso morale. — II. La scuola evoluzionista. — III. Dottrina del Buckle - Disciplina del senso morale. — IV. Influenza delle credenze religiose nella disciplina del senso morale. — V. Influenza dell'organizzazione politica. — VI. Il semplicismo politico in rapporto alla difesa giuridica. — VII. I Governi misti - Completamento della teoria di Montesquieu sulla divisione dei poteri. — VIII. Influenza della separazione del prestigio religioso dal potere laico. — IX. Influenza della distribuzione della ricchezza. — X. Rappresentanza ed equilibrio di tutte le forze politiche. — XI. L'unità di tipo nella classe politica.

I. — Non sarebbe indispensabile definire che cosa sia il senso morale: giacchè si tratta di un concetto, che tutti sentono e capiscono, senza che sia necessario che venga da una formola determinato e circoscritto. Ad ogni modo diremo come per esso generalmente s'intenda quell'insieme di sentimenti, per i quali la naturale propensione degli individui umani ad esplicare le proprie facoltà ed attività, a soddisfare i propri appetiti e le proprie volontà, a comandare ed a godere, viene frenata dalla naturale compassione per il danno ed il dispiacere, che altri uomini potrebbero risentirne. Qualche volta questo sentimento arriva al punto che la soddisfazione morale per aver procurato il piacere e l'utile altrui vince quella materiale di aver provveduto al proprio.

Quando la limitazione all'appagamento del proprio piacere, di fronte al sacrifizio altrui, è determinata dai sentimenti affettuosi verso le persone che ci stanno più vicine e che ci sono ordinariamente care, allora si dice che essa è basata sulla simpatia; quando essa è inspirata soltanto dal rispetto che si deve agli altri uomini, anche estranei, anche nemici, sol perchè uomini, allora si ha il sentimento più delicato e molto meno diffuso della giustizia. L'idealizzazione e l'esagerazione di questi sentimenti sono state concretate nelle note formole: ama il prossimo tuo come te stesso, non fare agli altri quello che non vorresti che fosse fatto a te. Esse però hanno piuttosto il significato di uno sforzo per raggiungere un perfezionamento morale, che mai potrà essere toccato, anzichè quello di un consiglio pratico ed applicabile alla vita reale. Infatti, tranne le eccezioni dovute quasi sempre all'amor paterno e materno, ogni individuo è quello che a preferenza di tutti può e sa provvedere meglio ai casi suoi, e, perchè vi provveda bene, è necessario che ami sè stesso almeno un po' più degli altri e che li tratti in modo differente dal proprio io [125].

È una quistione molto discussa quella intorno al progresso od alla stabilità del senso morale. Si sa che un chiarissimo scrittore del secolo scorso, il Buckle, osservando che i principi etici più puri ed elevati furono già noti e proclamati anche in società antichissime, sostenne che il progresso delle società umane è quasi esclusivamente intellettuale e scientifico, non già morale [126]. A conclusioni essenzialmente diverse viene la moderna e numerosa scuola evoluzionista: secondo questa, il senso morale può e deve continuamente progredire in grazia della lotta per l'esistenza, in base alla quale entro ogni società sopravvivono a preferenza gli individui più ricchi di sentimenti altruistici, che sono i più utili agli interessi del corpo sociale, e, nella lotta tra società diverse, finiscono sempre per vincere quelle dove gli stessi sentimenti sono in media più forti [127]. Esamineremo brevemente le due dottrine, tanto quanto basterà a dimostrare che nessuna di esse può venire riguardata come base inconcussa di deduzioni scientifiche, e cominceremo dalla seconda che fino ad oggi è la più sparsa e diffusa.

II. — Or, anche non tenendo conto di quanto abbiamo creduto di dimostrare nella prima parte del nostro lavoro, circa la lotta per l'esistenza, che viceversa fra gl'individui di una società arrivata ad un grado anche mediocrissimo di cultura, sarebbe piuttosto lotta per la preminenza, ci pare un vero paradosso il principio proclamato dai sedicenti positivisti, secondo il quale, entro ogni gruppo sociale, o ai gradi più elevati, od anche addirittura alla sopravvivenza dovrebbero arrivare preferibilmente gl'individui più morali e perciò più dotati di sentimenti altruistici. Tutto ciò che in questo proposito possiamo concedere, e concediamo volentieri, è che un individuo specialmente sprovvisto di senso morale, e che non sappia abbastanza mascherare le sue tendenze, avrà a superare difficoltà maggiori degli altri per l'antipatia e ripugnanza che generalmente inspirerà; ma anche un individuo di senso morale specialmente squisito si troverà in condizioni svantaggiosissime. In sostanza, in tutti i negozi grandi e piccoli della vita, egli dovrà lottare con armi assolutamente impari. La maggioranza degli uomini userà contro lui quelle arti, che egli potrà conoscere benissimo, ma che si guarderà bene dall'adoperare; e da ciò ricaverà un danno certo maggiore di quello che risentirà dalla malevolenza di cui è circondato un accorto briccone, che sa misurare bene le sue bricconate. In verità si può essere eccezionalmente buoni quasi senza averne conscienza, per naturale semplicità di animo, od anche conscientemente per magnanimità di cuore, per insuperabile ripugnanza al male ed inflessibile dirittura di carattere; ma non già perchè si possa menomamente credere che con la bontà si ottenga più facilmente il conseguimento dei proprî fini o ciò che comunemente si dice la riuscita ed il successo nella vita. L'utilitarismo inteso in questo senso come base della morale, ci si permetta di dirlo, non può essere che la furberia di un ipocrita o il sogno di uno sciocco.

È chiaro quindi che, in tutte le società, la così detta evoluzione e selezione dei migliori dovrebbe risolversi in un perpetuarsi e moltiplicarsi dei tipi di moralità media, che sono veramente i più adatti a ciò che si dice la lotta per l'esistenza; e la sopravvivenza, e forse è più esatto dire la preminenza, dovrebbe a preferenza spettare a quei caratteri, che in ogni ambiente sociale, rappresentano la più aurea mediocrità morale. Senonchè ci pare che, neppure così sostanzialmente modificata, la teoria degli evoluzionisti riesca accettabile; giacchè essa suppone ad ogni modo che l'elemento morale sia sempre il fattore principale, che contribuisce a preferenza degli altri alla riuscita o al mancamento degli scopi, che ogni individuo si prefigge nella vita. Or praticamente la cosa non va così. A tacere dell'influenza della fortuna, che è più grande di quello che generalmente si immagina, la ricchezza o la deficienza di certe qualità intellettuali, come sarebbero la prontezza della percezione e la finezza dell'osservazione, contribuiscono moltissimo a portare un uomo ai più alti gradini della società o a tenerlo nei più bassi. Ma sopratutto vi contribuiscono altre qualità, che dipendono dalla tempra dell'individuo senza che siano, propriamente parlando, nè intellettuali nè morali. Esse sono la tenacia nei propositi, la confidenza in sè stesso, e, sopra tutto l'attività. Anzi, a voler giudicare in qualunque società se un individuo si farà o no avanti nella vita non si può certo usare un criterio unico, ma volendo tener d'occhio il criterio principale, si deve guardare se è attivo e se sa bene impiegare la sua attività [128].

Una parte sola della teorica selezionista possiamo ammettere come vera; crediamo infatti che si possa accettare che nella lotta fra due società (caeteris paribus), debba trionfare quella i cui individui sono in media più provvisti di senso morale, e che quindi saranno più uniti, più fiduciosi gli uni degli altri, più capaci di abnegazione. Ma questa eccezione nuoce anzichè giovare al complesso della tesi evoluzionista; giacchè, se in una data società una media più elevata del senso morale non può provenire dalla sopravvivenza dei migliori, ammesso che il fatto esista, non si può attribuirlo che ad una migliore organizzazione della società stessa: a quelle cause cioè d'indole storica, che sono le peggiori nemiche di coloro, che i fenomeni sociali vogliono precipuamente spiegare mercè i mutamenti dell'organismo e della psiche individuale.

III. — Sebbene meno lontane dal nostro modo di vedere, pure non possiamo accettare le teorie del Buckle senza modificarle o almeno senza completarle. È verissimo infatti che in società molto antiche troviamo massime e leggi, che dinotano un senso morale molto squisito; in papiri, ad esempio, che rimontano alla dodicesima dinastia egiziana, si leggono precetti che valgono quasi quelli della morale cristiana e buddistica [129]. Platonici e Stoici nel mondo greco-romano, gli Esseni in quello ebraico sono pure i rappresentanti di una morale superiore, e numerose traccie di essa si possono agevolmente rintracciare nelle civiltà chinese, indiana e persiana anteriori all'êra volgare. Ma bisogna considerare e notare che, benchè la data alla quale rimontano i precetti accennati sia remota, pure essi sono stati escogitati ed accolti da popoli la cui civiltà era già antica ed il cui senso morale avea perciò subìto una lunghissima elaborazione. Invero, se un paragone è possibile fra la morale di una tribù primitiva e quella di un popolo relativamente civile e che per lunghi secoli ha vissuto organizzato in grandi e numerosi organismi politici, è quello stesso che si può fare fra la morale di un bambino e quella di un adulto. La prima rappresenta l'incoscienza, la seconda la coscienza: nel primo gli istinti buoni e cattivi sono semplicemente abbozzati, nel secondo li osserviamo completamente sviluppati e maturi. Tanto il fanciullo che il selvaggio possono fare il male, e grandissimo male, ma nel loro operato prevarrà sempre il cieco, bestiale impeto al calcolo ed alla premeditazione, e possono anche fare il bene senza mai raggiungere in esso la squisita correttezza, il consciente sacrifizio di sè di cui è capace l'uomo adulto e civile [130].

Ma non è soltanto nella maggiore perfezione degli istinti morali ed immorali che l'uomo civile differisce dal selvaggio; giacchè, nelle società di antica cultura e che per secoli hanno goduto di una salda organizzazione politica, la compressione degli istinti immorali, ciò che alcuni penalisti chiamerebbero la contro spinta che li frena, è indiscutibilmente più forte, ed acquista tutta l'importanza di una inveterata abitudine. In queste società si vanno per lunga e lenta elaborazione creando quegli organi, che fanno sì che, in un certo numero di rapporti pubblici e privati, la moralità generale tenga a freno la manifestazione della immoralità individuale. Quasi tutti comprendono, quando non sono interessati ed appassionati, che un dato atto non risponde a quei sentimenti di giustizia, che sono comuni nella società in cui vivono; ma certo potrebbe darsi che la gran maggioranza commettesse quello stesso atto sotto la spinta della passione o di un forte interesse.

Or l'opinione pubblica, la religione, la legge e tutta l'organizzazione sociale che la fa osservare, sono l'espressione della coscienza della moltitudine, che nei casi generali è spassionata e disinteressata, contro l'uno o i pochi ai quali la violenza dei sentimenti egoistici vela, in un dato momento, il retto intendimento del giusto e dell'onesto; il giudice è lo strumento del senso morale di tutti, che, caso per caso, tiene a dovere e frena le passioni e gl'istinti malvagi di ciascuno.

Quindi non solo in una civiltà avanzata gl'istinti morali, come le passioni egoistiche, si affinano e diventano più coscienti e perfetti, ma in una società la cui organizzazione politica è molto progredita, la disciplina morale è indiscutibilmente maggiore, e sono più numerosi e più specificati gli atti troppo egoistici, che dal controllo e freno reciproco degli individui che la compongono sono proibiti ed ostacolati. In ogni società vi è certamente, un numero di individui relativamente piccolo, che ha tendenze spiccatamente refrattarie ad ogni disciplina sociale; ed è pure certo che vi ha un certo numero di coscienze superiori e di caratteri saldamente temprati, per i quali ogni freno, che li mantenga nella rotta via, riesce quasi superfluo. Ma fra questi due estremi vi è la maggioranza immensa delle coscienze mediocri, per le quali il timore del danno e della pena, il fatto che delle proprie azioni si è responsabili davanti ad altri, che non sono nè complici nè subordinati, sono mezzi efficacissimi per far superare vittoriosamente le mille tentazioni, che la vita pratica offre alla trasgressione dei doveri morali.

I meccanismi sociali che regolano questa disciplina del senso morale formano ciò che noi chiamiamo la difesa giuridica. Diciamo subito che essi non sono in tutte le società ugualmente perfetti: può darsi anzi, e si è dato il caso, che una società scientificamente ed artisticamente più progredita di un'altra resti, da questo lato, in uno stato di notevole inferiorità. E può darsi anche che la difesa giuridica si vada infiacchendo e diventi meno efficace in società le quali sono in un periodo di progresso scientifico ed economico [131]. È innegabile poi che una grave catastrofe, come sarebbe una lunga guerra od una grande rivoluzione, produce dovunque un periodo di dissoluzione sociale; la disciplina dei sentimenti egoistici allora vien meno, le abitudini colle quali essi sono stati lungamente frenati si scuotono, e gli istinti bestiali, addormentati ma non spenti da un lungo periodo di pace e di civiltà, riappaiono vivaci. Giacchè se da una parte la maggiore cultura è riuscita a dissimularli, dall'altra li ha resi più temprati ed acuiti.

È così che vediamo talvolta gruppi di avventurieri appartenenti a popoli civili, in contatto con popoli barbari o di tipo sociale differentissimo, credersi sciolti dagli ordinari vincoli morali e perpetrare le azioni per le quali rimasero celebri i conquistatori spagnuoli nell'America, e Warren Hastings e Clive nell'India; ed è ricorrendo agli stessi criteri che si possono spiegare gli eccessi tremendi della guerra dei trent'anni, della Rivoluzione francese e di altre guerre civili [132].

IV. — Se noi guardiamo ai principali popoli, che hanno avuto ed hanno una storia, vediamo che in essi la disciplina del senso morale è affidata tanto alle religioni quanto a tutta l'organizzazione legislativa. In origine anzi presso tutti, ed ancora adesso presso molti popoli, la legge civile e il precetto religioso si sono assolutamente confusi e le sanzioni che li accompagnavano andavano e vanno sempre uniti. Oggi nei paesi di civiltà europea e chinese l'organizzazione laica o civile e quella religiosa sono più o meno nettamente separate: e la seconda riesce tanto più efficace quanto più forte è la fede che sa inspirare e mantenere; mentre la prima fonda la sua perfezione nella sua maggiore conformità a certe tendenze psicologiche, che sarà nostro dovere d'indagare.

Si è lungamente disputato se la sanzione religiosa, quando è separata da quella politica, riesca più efficace di questa; se il timore dell'inferno valga in pratica più del carcere e del gendarme: ci pare che una risposta precisa ed applicabile a tutti i casi, che la questione può presentare, difficilmente possa darsi. È ovvio che un paese la cui organizzazione politica è fiacca e primitiva e nel quale la fede religiosa è ardente, trovasi in condizioni essenzialmente diverse di quelle di un altro paese, nel quale gli entusiasmi religiosi siano intiepiditi ed il regime politico, amministrativo e giudiziario assai perfezionato. Più avanti dovremo trattare lungamente dell'efficacia etica delle religioni in genere; ad ogni modo possiamo fin da ora dire, che, sebbene tanto il precetto religioso che le leggi civili siano emanazione di quel senso morale collettivo, che è indispensabile in tutte le associazioni umane, sebbene sia innegabile che un qualche effetto pratico tutte le religioni hanno e devono avere, pure è per lo meno arrischiata l'opinione di coloro, che ne vorrebbero esagerare l'importanza. Se chi pensa così avesse ragione, grande, ad esempio, dovrebbe essere la differenza morale fra un popolo cristiano ed uno idolatra. Or certo, se si paragona un popolo cristiano civile ad un popolo idolatra barbaro, il distacco morale è immenso; ma se poniamo accanto due popoli allo stesso grado di barbarie, dei quali uno abbia abbracciato il Cristianesimo e l'altro no, allora si trova che, nella pratica, essi si diportano presso a poco alla stessa maniera, o almeno non vi è un distacco molto sensibile nella loro condotta: i moderni Abissini sono un esempio vivente e notorio di quanto affermiamo [133]. Se poi paragoniamo la società ancora pagana, ma politicamente ben'ordinata, dell'epoca di Marco Aurelio con quella cristiana ma disordinatissima, che ci viene descritta da Gregorio di Tours, dubitiamo forte che il parallelo non riesca tutto favorevole alla prima.

Invero è proprio della natura umana che un danno certo e prossimo, per quanto relativamente piccolo, sia generalmente più temuto di un danno incerto e remoto per quanto grande. Per la massa delle coscienze volgari, nel momento che la cupidità, la libidine o la vendetta le spinge al furto, allo stupro, all'omicidio, il timore dell'ergastolo e del patibolo sono mezzi più potenti e sopratutto più sicuri di prevenzione della possibilità degli eterni tormenti; e se ciò è vero per i grandi strappi al senso morale, che si fanno solo nei momenti di passione violenta, è verissimo per le piccole violazioni ai precetti più ovvii dell'equità e della giustizia, alle quali possiamo essere indotti dalla spinta quotidiana dei piccoli interessi e delle piccole bizze. Infatti quale legge morale o religiosa non riconosce che il pagare i debiti è, in massima, una cosa giusta e doverosa? Eppure dobbiamo confessare che moltissimi buoni credenti si asterrebbero dal farlo, e troverebbero mille cavilli e pretesti per ingannare la propria coscienza, se non vi fossero costretti dalla pubblica vergogna e sopratutto dall'usciere. Non ci vuole un sentimento troppo delicato per capire che il bastonare un altro è una cosa, per lo meno, scorretta; eppure l'abitudine di alzare le mani sul prossimo nei momenti d'ira, viene nelle masse combattuta efficacemente solo dalla sicurezza che chi dà un pugno si espone a riceverne subito un altro, e che l'affare può anche terminare col carcere o con la multa.

E noi vediamo, pur troppo, che gli esseri più deboli e più incapaci di difesa, le donne ed i fanciulli, i quali appunto per ciò dovrebbero essere maggiormente tutelati dal sentimento religioso e morale, sono le vittime più frequenti delle brutalità manesche. E in paesi molto religiosi, ma nei quali le classi inferiori sono completamente abbandonate all'arbitrio di quelle superiori, non è cosa straordinaria che i padroni battano servi e vassalli.

Certo che la fede religiosa, come l'entusiasmo patriottico e le passioni politiche, possono, in dati momenti di sovraeccitazione straordinaria, produrre grandi correnti di abnegazione e di sacrificio e spingere le masse a fatti ed a sforzi che, a chi tien conto solo della natura ordinaria dell'uomo, sembrano quasi sovrumani [134]. I giubilei cattolici e i revivals protestanti ce ne porgono più di un esempio, e, come fatti caratteristici, si possono anche citare il gran movimento di carità e d'amore, che agitò l'Umbria al tempo di S. Francesco d'Assisi, e qualche fugace giornata della rivoluzione francese e dei moti del 1848 in Italia. Ma la possibilità che hanno certi sentimenti di eccitare febbri passeggiere non ci deve indurre in errore intorno alla loro reale efficacia nella vita ordinaria dell'umanità. Si sono viste città intiere, in momenti di sovraeccitazione patriottica e religiosa, spogliarsi dei propri beni per donarli allo Stato od alla Chiesa: ma certo nessuna organizzazione politica può a lungo sussistere se l'imposta non ha un carattere coattivo; e la Chiesa stessa, quando ha potuto, ha reso obbligatorie le decime.

Il sentimento patriottico ed ancor più il religioso, e più ancora quando sono combinati in unica passione, bastano a produrre insurrezioni generali e violente, ed in certi momenti hanno indotto intere popolazioni a pigliare le armi per imprendere spedizioni lontane ed arrischiatissime, come ad esempio avvenne nelle prime due o tre crociate. Ma essi non bastano a fornire eserciti saldi e sicuri, che in tutti i momenti siano pronti laddove il bisogno lo richieda; tranne che non si tratti di popolazioni nelle quali la guerra sia un'occupazione ordinaria e fornisca lucri abituali. Questa specie di eserciti, fra genti che vivono ordinariamente d'agricoltura, d'industrie e di commercio, sono invece il prodotto di una salda disciplina sociale, che costringe inesorabilmente ogni individuo a fare il suo dovere ed a prestare il suo servizio in dati tempi e in dati modi.

V. — Or è certo che l'organizzazione propriamente detta politica, quella che stabilisce l'indole dei rapporti tra la classe governante e quella governata e tra i vari gradi e le diverse frazioni della prima, è il fattore, che contribuisce precipuamente a determinare il grado di perfezione, che può raggiungere la difesa giuridica di un popolo. Un Governo onesto, un Governo di verità e di giustizia, un Governo veramente liberale, come l'intendeva il Guicciardini [135], è la miglior garenzia che, anche i diritti che più comunemente s'intendono per privati, la tutela cioè della proprietà e della vita, saranno efficacemente custoditi. Un regime corrotto, nel quale può accadere che chi comanda, in nome di Dio o del popolo poco importa, libito faccia licito in sua legge, è evidente che sarà insufficiente anche nell'adempiere a questa missione; e, sebbene ufficialmente possa riguardo ad essa proclamare principii accettabili ed anche elevati, pure nella pratica questi saranno malamente osservati [136].

È un'osservazione non solo facile, ma diremo quasi banale questa: che i rapporti fra governanti e governati e fra le varie categorie dei primi, sono più o meno inspirati a principii di moralità e giustizia, secondo la diversità dei paesi e dei tempi. Infatti non vi è chi non veda subito la differenza, che corre su questo riguardo fra il governo dei pascià e dei visir turchi del buon tempo antico, dello stampo di Maometto Köproli, Mustafà Bairakdar ed Ali Tebelen, che disponevano alla spiccia delle sostanze, del corpo e della vita dei raiah ed anche talvolta dei credenti da loro governati, e quello dei mandarini chinesi, che in conclusione devono far capo alla corruzione burocratica per potere aggiunger qualche supplemento al loro stipendio; e per eseguire una sentenza di morte, a meno che una provincia non sia sottoposta a leggi eccezionali, devono spedire il processo a Pekino per esservi riveduto ed all'occorrenza corretto. Salta subito agli occhi che la Russia sotto Ivano IV il terribile, quando le confische e gli sterminii in massa d'intere città erano cose ordinarie, era retta in modo alquanto diverso di come è governata oggi; ne è meno evidente che la Russia d'oggi, è governata in modo diverso dall'Inghilterra, dove ogni arresto personale deve essere subito e seriamente legalizzato. E neppure è dubbio che le grandi nazioni dell'Europa centrale ed occidentale siano rette in modo alquanto diverso delle Repubbliche dell'America meridionale, dove la fucilazione, che il partito vincitore infligge ai capi del partito vinto, non è ancora andata in disuso, ed in qualcuna delle quali, in epoca non remota, coloro che ressero per qualche anno il potere ebbero modo di rubare non dei milioni ma dei miliardi [137].

Tutte queste sensibilissime variazioni nel grado di bontà del regime politico sono da alcuni molto facilmente spiegate colle differenze di razza. Abbiamo già nella prima parte del nostro lavoro ampiamente trattato quest'argomento; ci limiteremo ora a rammentare che il vizio della razza difficilmente si può invocare quando si tratta di popoli, che hanno saputo creare civiltà molto avanzate e che in altri tempi aveano organizzazioni politiche nelle quali la difesa giuridica era relativamente eccellente rispetto a quella delle nazioni, che ora da questo lato li sopravanzano, e che finalmente, nei loro rapporti privati, non mostrano quella inferiorità organica del senso morale, che solo nelle pubbliche faccende verrebbe a manifestarsi [138]. Altri la spiegano colla differenza del grado di civiltà: e questi hanno senza dubbio una parte di ragione; perchè, come più avanti dovremo dimostrare, è assai difficile, per non dire impossibile, che una società vasta e numerosa come una nazione moderna abbia molto perfezionato la sua difesa giuridica, se non ha raggiunto uno sviluppo intellettuale ed economico abbastanza notevole. Ma la parte è cosa differente dal tutto: giacchè molti sono i popoli che hanno avuto periodi di splendore materiale ed anche intellettuale e che, quasi costretti da una specie di forza fatale, non hanno mai potuto disfarsi da certi tipi di organizzazione politica, i quali sembrano del tutto impropri ad assicurare un vero progresso nella morale delle classi governanti [139]: quindi, ciò che comunemente appellasi civiltà è, evidentemente, una condizione necessaria, ma non sufficiente per il vero progresso politico.

Si può invero affermare che le abitudini contribuiscono grandemente nel determinare il grado massimo di perfezione o d'imperfezione nella difesa giuridica, che un popolo è capace di stabilmente godere o sistematicamente tollerare. Infatti si può senza stento ammettere che sarebbe impossibile che, in una od anche in poche generazioni, i moderni Persiani, ad esempio, possano diventare adatti al regime che ora vige in Inghilterra, o che i nostri contemporanei Inglesi possano ridursi a tale da essere governati come lo sono i sudditi dello Scià. Abbiamo già accennato al fatto che le abitudini morali si modificano assai più lentamente di quelle intellettuali, però esse, per quanto lentamente, pur si modificano; e possono andar cambiando in senso buono come in senso cattivo. Se è vero quindi che gl'Inglesi moderni non tollererebbero più un re come Riccardo 3°, un lord cancelliere come Francesco Bacone, un giudice come Jeffreys, un generale comandante le truppe nella Scozia come Graham di Claverhouse e probabilmente neppure un lord protettore come Cromwell, se si può ragionevolmente sperare che Bernabò Visconti e Cesare Borgia sarebbero impossibili fra gl'Italiani d'oggidì, non è men vero che, a qualche secolo d'intervallo, i Romani, dei quali Polibio avea ammirato l'organizzazione politica che era forse la migliore di tutta l'antichità classica, si adattarono a sopportare la tirannide di Tiberio, di Caligola e di Nerone, e che i discendenti dei Greci contemporanei di Aristide, di Pericle e di Epaminonda stettero per lunghi secoli sotto il governo degli imperatori bizantini. Inoltre è innegabile che vi devono essere delle cause, che determinano il formarsi di alcune abitudini a preferenza di altre; sicchè, ammesso anche che la varietà di regime politico sia dovuta principalmente alla differenza di abitudini politiche, resta integro il problema intorno alla ricerca delle cause per le quali le dette abitudini si sono variamente stabilite.

In conclusione noi crediamo di trovarci davanti ad una grande legge psicologica, la quale può sola spiegare perchè gl'istinti morali di un popolo più o meno si affermano e si sviluppano nella sua organizzazione politica; legge che in fondo non è che una delle tante esplicazioni dell'altra legge più generale, che abbiamo esposto in principio di questo capitolo, la quale spiega la maggiore o minore forza dei freni morali in tutte le manifestazioni della vita sociale.

VI. — La preponderanza assoluta di una sola forza politica, il predominio di un concetto semplicista nell'organizzazione dello Stato, l'applicazione severamente logica d'un solo principio ispiratore di tutto il diritto pubblico, sono gli elementi necessari per qualunque genere di dispotismo; tanto per quello fondato sul diritto divino, che per l'altro che presume di avere la sua base nella sovranità popolare; per il fatto che essi permettono a chi ha in mano il potere di sfruttare maggiormente, a beneficio delle proprie passioni, i vantaggi di una posizione superiore. Giacchè, quando coloro che stanno alla testa della classe governante sono gli interpreti esclusivi della volontà di Dio o del popolo, ed esercitano la sovranità in nome di questi enti, in società profondamente imbevute di credenze religiose o di fanatismo democratico, e quando altre forze sociali organizzate non esistono all'infuori di quelle, che rappresentano il principio sul quale si basa la sovranità della nazione, allora nessuna resistenza, nessun controllo efficace sono possibili, che valgano a temperare la naturale tendenza, che hanno coloro che stanno a capo della gerarchia sociale ad abusare dei loro poteri.

Una classe governante, che tutto si può permettere in nome di un sovrano, che tutto può fare, subisce una vera degenerazione morale; quella degenerazione che è comune a tutti gli uomini, i cui atti sono esenti dal freno e dal controllo, che ad essi ordinariamente impone l'opinione e la coscienza dei loro simili. Le responsabilità dei subordinati, che finiscono col risolversi nell'irresponsabilità e nell'onnipotenza dell'uomo, o del piccolo gruppo di uomini che stanno a capo della gerarchia di tutti i funzionari, si chiamino Czar, Sultano o Comitato di salute pubblica, comunicano a tutta la macchina politica i vizi che l'assolutismo genera nei capi. Giacchè tutto si può osare quando s'interpreta la volontà, vera o supposta, di chi crede avere il diritto che tutto pieghi ad un suo cenno, senza che abbia la possibilità di tutto vedere e senza che altre coscienze libere e disinteressate possano controllare le sue passioni ed i suoi errori.

E gli effetti di un simile sistema sono pronti e tristissimi. Crediamo che nessuno come il russo Dostoiewsky, che visse lungamente nel paese dell'autocrazia e passò dieci anni nelle miniere della Siberia, abbia fra i moderni descritto con più verità e sentimento la degenerazione del carattere, che il potere assoluto produce negli uomini, sicchè non rinunciamo a trascrivere le sue parole. Egli dice: “Chi possiede la potenza illimitata sulla carne ed il sangue del suo simile, chi ha la facoltà di avvilire coll'avvilimento supremo un altro essere, è incapace di resistere al desiderio di fare il male. La tirannia è un' abitudine, che diventa alla lunga una malattia. Il miglior uomo del mondo può abbrutirsi così da non distinguersi da una fiera. Il sangue inebria, lo spirito diviene accessibile ai fenomeni più anormali, che possono sembrare delle vere gioie. La possibilità di una tale licenza diviene alle volte contagiosa a tutto un popolo; eppure la società, che disprezza il carnefice ufficiale, non disprezza codesti carnefici potenti...” Or è appunto questa specie di ubbriachezza morale, rilevata pure da parecchi moderni psichiatri, quella che spiega gli eccessi degli onnipotenti, che ci dà la chiave delle follie criminose di parecchi imperatori romani, di Ivano IV e Pietro il Grande, di tanti sultani dell'Oriente, di Robespierre, di Barrere, di Carrier e di Lébon [140].

Si può obbiettare che vi sono stati sovrani assoluti buoni, come ve ne sono stati di cattivi, e che nell'Europa continentale, prima della recente adozione dei Governi costituzionali e parlamentari, l'assolutismo non produsse risultati cosi disastrosi da giustificare quanto noi abbiamo sostenuto. Rispondiamo facilmente che l'assolutismo europeo posteriore al Medio Evo fu tutt'altro che completo; perchè anche l'autorità di un Luigi XIV avea freni possenti nella tradizione di un tempo in cui il Re non era che il primo dei baroni, nei privilegi secolari della nobiltà e delle Provincie, e sopratutto nella separazione più o meno completa della Chiesa dallo Stato. Ad ogni modo, tanta è la ricchezza e la varietà della natura umana, che ammettiamo, ciò che del resto è provato dalla storia, che alcuni individui abbiano saputo interamente dominare le proprie passioni e conservarsi puri ed onesti, anche dopo essere stati lungamente investiti di un'autorità assoluta. Ma l'influenza benefica di questi fortunati accidenti è meno grande di quello che comunemente si crede: giacchè, in un paese abituato stabilmente ad un regime dispotico, la massa della classe politica usa ad essere adulatrice e vile coi superiori, necessariamente deve diventare superba, dispotica, soverchiatrice cogli inferiori; gli uomini sciaguratamente essendo cosi fatti che, quanto più sono soggetti al capriccio ed all'arbitrio di chi sta in alto, tanto più, in generale, tendono a far pesare il loro capriccio ed il loro arbitrio su chi sta in basso e resta in loro balia [141].

VII. — Nell'antichità Aristotile, Polibio e qualche altro scrittore, dando la preferenza ai governi misti di monarchia, aristocrazia e democrazia, intuirono chiaramente la legge, che abbiamo enunciato. In verità, nello Stato greco, l'antica monarchia appoggiata al carattere sacro ed alla tradizione, l'aristocrazia che rappresentava pure la tradizione ed ordinariamente la proprietà territoriale, la democrazia basata sulla ricchezza mobiliare, sul numero, sulle passioni della folla, erano altrettante forze politiche, la cui contemperanza, finchè una non prevalse esclusivamente sulle altre, potea dare, e diede, un tipo di organizzazione politica, nel quale la difesa giuridica era, nei tempi ordinari, sufficientemente garentita. Anche in Roma, all'epoca nella quale la sua costituzione fu tanto ammirata da Polibio, troviamo contemperate le influenze della grande proprietà patrizia e della piccola proprietà plebea con quella della proprietà mobiliare dei cavalieri; troviamo le tradizioni delle grandi famiglie di ottimati, discendenti dai Numi, mantenere la loro possanza di fronte alle passioni popolari ed ai servizi ed alle ricchezze recenti delle grandi famiglie plebee, e troviamo queste forze politiche diverse estrinsecarsi nelle varie autorità politiche, militari, amministrative e giudiziarie, alleandosi e temperandosi in modo da dar luogo allo Stato giuridicamente più perfetto di tutta l'antichità.

Nel secolo scorso Montesquieu dallo studio della Costituzione inglese ricavò la dottrina la quale insegna che, perchè un paese sia libero, è necessario che il potere vi freni il potere e che l'esercizio dei tre poteri fondamentali, che egli trovava in qualunque Stato, sia affidato ad organi politici diversi. Omai i trattatisti di diritto costituzionale hanno dimostrato che una separazione assoluta dei tre poteri trovati dal Montesquieu non esiste e che non è necessario che essi siano precisamente tre. Ma non è questo forse il difetto principale della dottrina del Montesquieu, difetto del resto piuttosto imputabile ai numerosi scrittori, che ad essa attinsero, che al suo primo autore. Costoro infatti, tenendo gli occhi rivolti alla teoria del maestro, hanno dato importanza piuttosto al suo lato formale, e, diremmo quasi curialesco, anzichè a quello sostanziale e politico. Si è dimenticato troppo che un organo politico, per essere efficace a frenare l'azione di un altro, deve rappresentare una forza politica, deve essere l'organizzazione di un'autorità e di un'influenza sociale, che nel seno della società valga qualche cosa, di fronte all'altra, che s'incarna nell'organo politico, che si deve controllare.

È per questa ragione, che, malgrado la lettera degli Statuti e delle Carte fondamentali, noi vediamo in parecchie monarchie parlamentari, il Capo dello Stato non sostenuto nè da vecchie tradizioni, nè dal prestigio quasi scomparso del diritto divino, nè dall'influenza delle classi economicamente elevate, della burocrazia e dell'esercito, diventare insufficiente a controbilanciare l'azione della Camera elettiva; la quale viene sostenuta dalla credenza che essa rappresenti l'universalità dei cittadini e riunisce in sè un cumulo notevole di attitudini, di interessi, di ambizioni e di energie. E perciò che vediamo, negli stessi paesi, la magistratura proclamata a parole uno dei poteri fondamentali dello Stato, ma ridotta di fatto ad essere un ramo della burocrazia dipendente dal Gabinetto ligio alla maggioranza della Camera elettiva, mancare di prestigio e d'indipendenza e non attirare a sè energie morali e intellettuali bastevoli a rilevarne l'importanza. È sempre per la stessa ragione che vediamo qualche Camera alta, composta di funzionari in riposo, di deputati che rinunziano alla vita politica militante e di qualche ricco del quale il Ministero ha trovato conveniente di soddisfare la vanità, e che non offre perciò un sufficiente pascolo nè agli spiriti pugnaci, nè a quelli ambiziosi, essere rigettata facilmente in seconda linea dalla Camera bassa, che le siede accanto.

VIII. — Il primo elemento, e diremo anzi il più essenziale, perchè un organismo politico possa progredire nel senso di ottenere una difesa giuridica sempre migliore, è la separazione del potere laico dall'ecclesiastico; o, per dir meglio, bisogna che il principio a nome del quale si esercita l'autorità temporale non abbia nulla di sacro e di immutabile. Quando il potere si appoggia ad un ordine d'idee e di credenze, al di fuori del quale non è riputato potervi essere nè verità, nè giustizia, è quasi impossibile che esso nella pratica sia discusso e temperato e che il progresso sociale possa arrivare al punto che le diverse potestà si armonizzino e frenino fra di loro, in maniera che sia evitato l'arbitrio di chi sta in alto nella gerarchia sociale. L'immobilità relativa di certi tipi sociali si deve appunto attribuire alla ragione che abbiamo accennato. Il carattere sacro delle caste ha ad esempio impedito da molti secoli qualunque progresso sociale nella civiltà indiana. E bisogna tener presente che essa in origine dovette avere un brillantissimo sviluppo, altrimenti non si potrebbero spiegare i grandi progressi materiali ed artistici, che raggiunse; il che fa supporre, ciò che del resto pare confermato da recenti studi, che la divisione e l'isolamento delle varie caste non siano stati sempre così rigorosi come ora li troviamo [142].

Anche le società maomettane sono colpite dalla stessa debolezza. Questo fatto, parzialmente osservato da molti, è stato con grande esattezza rilevato dal Leroy-Beaulieu. Parlando questo autore dei Tartari maomettani, che ancora abitano la Russia nei governi di Kazan, Astrakan e Crimea, li descrive come agiati, puliti e dediti al commercio, ma aggiunge: “il vero vizio dell'Islam, la sua vera causa d'inferiorità politica non è nel suo domma, nè nella sua morale, ma nella confusione dello spirituale col temporale, della legge religiosa colla civile. Il Corano essendo insieme Bibbia e codice, le parole del Profeta tenendo il posto del diritto, le leggi ed i costumi sono per sempre resi sacri dalla religione e da questo solo fatto deriva che la civiltà maomettana è necessariamente stazionaria” [143]. Per completare quest'analisi, così fine e così giusta, potea aggiungere che, nei paesi dove le popolazioni maomettane sono indipendenti, il sovrano è quasi sempre Califfo o vicario del Profeta, o almeno dal Califfo fa derivare nominalmente o realmente la sua autorità; ed a questo titolo nessuno dei credenti può rifiutargli obbedienza assoluta, a meno che non impugni come illegittima l'autorità del califfato e non si faccia iniziatore di una riforma religiosa [144].

I popoli cristiani hanno potuto superare il pericolo della confusione accennata dal Leroy-Beaulieu ed hanno potuto creare lo Stato laico per un complesso di circostanze favorevoli. In primo luogo il Vangelo contiene fortunatamente poche massime che siano applicabili direttamente alla vita politica; in secondo luogo non bisogna dimenticare che la Chiesa cattolica, malgrado che abbia sempre aspirato ad avere una parte preponderante nel potere politico, non ha potuto giammai monopolizzarlo interamente per due principalissime ragioni, inerenti alla sua costituzione. La prima è che, generalmente, è stato prescritto il celibato dei preti e, sempre, quello dei monaci; sicchè non si sono potute stabilire vere dinastie di abati e di vescovi sovrani; e da questo lato anzi dobbiamo essere molto grati a Gregorio VII. La seconda consiste nel fatto che la missione ecclesiastica, malgrado i numerosi esempi contrarii che troviamo nel bellicoso Medio-Evo, è stata sempre per sua natura poco conciliabile coll'esercizio delle armi. Il precetto il quale vuol che la Chiesa aborrisca dal sangue non si è potuto mai interamente obliare, e in tempi relativamente ordinati e pacifici, ha finito col prevalere: sicchè anche nei secoli che vanno dal decimoprimo al decimoquarto, gli scrittori guelfi accanto alla supremazia papale hanno dovuto ammettere l'esistenza di un imperatore, di un sovrano laico, che di questa fosse lo strumento ed il braccio secolare. Non bisogna poi dimenticare che il dispotismo più completo, al quale siano stati sottoposti dei popoli cristiani, lo troviamo a Bisanzio ed in Russia, dove i sovrani laici riuscirono più completamente a ridurre sotto la loro diretta influenza l'autorità ecclesiastica, e che le libertà inglesi molto debito di gratitudine hanno verso i Puritani e gli altri non conformisti.

IX. — Dopo la separazione dell'autorità laica da quella ecclesiastica, i coefficienti più potenti di una difesa giuridica più o meno progredita si trovano nel modo come è distribuita in una società la ricchezza e nel modo come è organizzata la sua forza militare. E qui occorre anzitutto fare una distinzione fra i popoli che sono ancora nel periodo feudale e quelli che già hanno un'organizzazione burocratica.

Nello Stato feudale il monopolio della ricchezza, che, in uno stadio ancor rozzo di civiltà, consiste nel possesso della terra, e la supremazia militare si trovano ordinariamente concentrati nella classe dominatrice; ma questo stato di cose, pur presentando moltissimi inconvenienti, non produce mai gli effetti, che avrebbe in una organizzazione sociale più perfezionata. Il capo di uno Stato feudale infatti potrà fare un torto a qualcuno dei suoi baroni, ma non potrà mai essere il padrone assoluto di tutti i suoi feudatari, perchè questi disponendo di una parte, diciamo così, della pubblica forza, potranno sempre esercitare di fatto quel diritto di resistenza, che negli Stati burocratici, quando è sancito, resta scritto nelle costituzioni e nei libri di diritto pubblico. Ed anche i singoli baroni hanno un limite alla tirannia, che possono esercitare contro la massa dei loro soggetti, nella disperazione degli stessi, che si può cambiare facilmente in ribellione. Quindi in tutti i paesi veramente feudali, il dominio dei capi, a scatti violento ed arbitrario, è ordinariamente assai limitato dalle consuetudini; e si sa ad esempio che gli Abissini e sopratutto gli Afgani non prestano che un'obbedienza molto condizionale ai loro Ras ed ai loro Emiri. Abbiamo già visto come le tradizioni e gli avanzi di un regime feudale valgano a temperare l'autorità di un capo dello Stato, tanto che, neppure all'epoca di Luigi XIV e di Federico il Grande di Prussia, la monarchia europea può essere paragonata ai regimi politici, a capo dei quali stavano o stanno gli imperatori di Bisanzio o gli Scià di Persia [145]. Ma quando al contrario la classe, che ha il monopolio della ricchezza e delle armi estrinseca il suo potere per mezzo di una burocrazia accentratrice e di un esercito stanziale onnipotente, allora si può avere il dispotismo nelle sue peggiori manifestazioni: si ha cioè una forma di governo barbara e primitiva, la quale tiene a sua disposizione gli strumenti di una civiltà avanzata, un giogo di ferro, che può essere applicato da mani rozze e inconscienti e che difficilmente si può spezzare, perchè è temprato da artefici provetti.

Che l'onnipotenza di un esercito stanziale sia una delle forme peggiori di regime politico è cosa cosi ovvia e conosciuta, che non ci affaticheremo ad insistervi ancora [146]. Si sa pure che il soverchio accentramento della ricchezza in una frazione della classe governante ha prodotto la decadenza di organismi politici relativamente molto perfetti come ad esempio la repubblica romana. È impossibile infatti che leggi ed istituzioni, che garentiscano la giustizia ed i diritti dei deboli, siano efficaci, quando la ricchezza è così distribuita, che di fronte ad un piccolo numero di persone, che possiedono le terre ed i capitali, vi è una moltitudine di proletari, che non hanno altra risorsa che le proprie braccia ed hanno bisogno dei ricchi per non morir di fame dall'oggi al domani. In questa condizione di cose la massima che la legge è uguale per tutti, la proclamazione dei diritti dell'uomo ed il suffragio universale non sono che ironie; ed è pure un'ironia il dire che ogni plebeo porta nel suo sacco il bastone di maresciallo, cioè che può diventare alla sua volta capitalista. Giacchè, anche ammesso che qualcuno lo diventerà, egli non sarà il migliore di animo e di costumi, ma il più infaticabile, il più fortunato e forse anche il più briccone, mentre la massa resterà sempre ugualmente sottomessa a coloro che stanno in alto [147].

Non ci è poi da farsi illusioni sulle conseguenze pratiche di un regime, in cui la direzione della produzione economica, la distribuzione di essa ed il potere politico fossero indissolubilmente legati ed attribuiti alle stesse persone. Noi vediamo che, a misura che lo Stato assorbe e distribuisce una parte maggiore della pubblica ricchezza, i capi della classe politica hanno maggiori mezzi d'influenza e di arbitrio sui loro subordinati e più agevolmente si sottraggono al controllo di chicchessia. Non ci è invero chi non sappia come una delle cause più importanti della decadenza del Parlamentarismo sia la grande quantità di impieghi, di appalti, di lavori pubblici e di altri favori d'indole economica, che i governanti possono distribuire o ad individui o a collettività di persone; e gl'inconvenienti di questo regime sono maggiori colà appunto dove relativamente più grande è la quantità di ricchezza che il Governo ed i corpi elettivi locali assorbono e distribuiscono; e dove quindi è più difficile procacciarsi una posizione indipendente ed un onesto guadagno senza aver che fare con le pubbliche amministrazioni. Se poi tutti gli strumenti della produzione fossero in mano del Governo, i funzionari, che la produzione dovrebbero dirigere e distribuire, sarebbero gli arbitri della fortuna e del benvivere di tutti; e giammai oligarchia più possente, camorra più universale si sarebbe avuta in una società di coltura avanzata. Quando tutti i vantaggi morali e materiali dipendessero da coloro che hanno in mano il potere, non ci è viltà che non si farebbe per contentarli; come non ci è violenza o frode alla quale non si ricorrerebbe per arrivare al potere, ossia per appartenere al numero di coloro che distribuiscono la torta, anzichè restare fra i molti altri che si devono contentare della porzione loro attribuita.

Una società si trova nelle condizioni migliori per applicarvi una organizzazione politica relativamente perfetta, quando in essa esiste una classe numerosa, in posizione economica presso che indipendente da coloro che hanno nelle mani il supremo potere, la quale ha quel tanto di benessere, che è necessario per dedicare una parte del suo tempo a perfezionare la sua cultura e ad acquistare quell'interesse al pubblico bene, quello spirito diremmo quasi aristocratico, che solo possono indurre gli uomini a servire il proprio paese senza altre soddisfazioni che quelle che procura l'amor proprio. In tutti i paesi, che sono stati e sono all'avanguardia della difesa giuridica, o come comunemente dicesi della libertà, una classe simile si è sempre trovata. Esisteva a Roma, quando vi era quella numerosa plebe composta di piccoli proprietari, che, per la frugalità dei tempi, poteva bastare a se stessa e che seppe, passo passo, con una tenacia maravigliosa, conquistare il diritto di piena cittadinanza. Esisteva nell'Inghilterra del secolo decimosettimo ed esiste in quella presente; giacchè nell'una e nell'altra si è trovata e si trova una numerosa gentry, formata prima a preferenza di medii proprietari, ora a preferenza di medii capitalisti, che ha fornito e fornisce il miglior contingente alla classe politica. Esisteva ed esiste negli Stati Uniti d'America, dove la classe dei farmers agiati ha fornito e fornisce gli elementi politici migliori; ed esiste più o meno in tutti gli Stati d'Europa centrale ed occidentale. Colà dove, per cultura, per educazione, per troppo scarsa agiatezza, questa classe è insufficiente alla sua missione, il governo parlamentare, come farebbe qualunque altro regime politico, dà i frutti peggiori.

X. — È indiscutibile poi che col crescere della civiltà aumenta il numero di quelle influenze morali e materiali, che sono suscettibili di diventare forze politiche. Accanto alla ricchezza immobiliare si crea ad esempio quella mobiliare, frutto delle industrie e dei commerci; gli studi progrediscono, le occupazioni che hanno per base una cultura scientifica acquistano importanza, e si forma una nuova classe sociale, la quale può, fino ad un certo punto, bilanciare il prestigio materiale dei ricchi e quello morale dei sacerdoti. Inoltre la tolleranza reciproca, che può essere effetto di una cultura avanzata, permette la coesistenza di diverse correnti religiose e politiche, che naturalmente si bilanciano e controllano a vicenda, e nello stesso tempo rende possibile la discussione pubblica degli atti dei governanti [148]. La specializzazione stessa delle funzioni pubbliche fa sì che influenze diverse possano estrinsecarsi e partecipare al reggimento dello Stato.

Senonchè è da osservare che ogni forza politica, perchè si faccia valere proporzionatamente alla sua reale importanza, è necessario che sia organizzata, e che, perchè sia bene organizzata, sono indispensabili diversi coefficienti, fra i quali principalissimi il tempo e la tradizione. E perciò che spesso vediamo un vero disquilibrio prodursi, in diverse epoche ed in paesi diversi, fra l'importanza che una classe aveva nella società e la sua diretta influenza nel governo del paese [149]. Oltreciò vi è quasi sempre qualche forza politica, che ha la tendenza invincibile a soverchiare, ad assorbire le altre, ed a distruggere quindi l'equilibrio giuridico legalmente stabilito. Ciò è vero tanto per le forze politiche che hanno un carattere materiale, come sarebbero la ricchezza e la preponderanza militare, quanto per quelle che hanno un carattere morale, come sono le grandi correnti religiose e dottrinali. Ognuna di queste correnti pretende di avere il monopolio della verità e della giustizia, ed ogni specie di esclusivismo e di bacchettoneria, siano essi cristiani o maomettani, abbiano il carattere sacro o quello razionalista, s'inspirino all'infallibilità del papa o a quella della democrazia, sono da questo lato ugualmente perniciosi. Ogni paese, ogni epoca, può avere la sua speciale corrente d'idee e di credenze che, essendo la più forte, preme sul meccanismo politico e tende a sconvolgerlo. Avviene anzi generalmente che si apprezzino benissimo i danni prodotti dalle correnti già indebolite e passate di moda, che si stigmatizzino con orrore le lesioni gravissime che esse hanno fatto al sentimento della giustizia; mentre non si scorgono o si scusano o si condannano debolmente i danni analoghi, che la corrente in voga ha fatto o minaccia di fare. Si grida e si proclama che la libertà è raggiunta, che la bufera è passata, mentre in verità essa non ha che cambiato di direzione e, ci si passi la metafora, di forma e di colore.

Al giorno d'oggi in Europa due sono le forze morali, che aspirano a rompere l'equilibrio giuridico: la Chiesa cattolica e la democrazia sociale. La prima, malgrado la sua mirabile organizzazione, può essere per il momento riguardata come meno violenta e pericolosa e continuerà ad esserlo fino a quando le minaccie della seconda non avranno spinto di nuovo le classi alte in grembo a quelle credenze, che esse hanno ora abbandonato o professano molto tiepidamente. Fra le forze materiali, quella che più facilmente si può imporre a tutti i poteri dello Stato e riesce più facilmente a violare, non diciamo le norme della giustizia e dell'equità, ma qualche volta anche il testo preciso della legge, è la ricchezza mobiliare; o almeno quella parte di essa che è potentemente organizzata. Il grande sviluppo del credito e del sistema bancario, le grandi compagnie per azioni, che spesso dispongono dei mezzi di comunicazione di estesissime contrade e d'interi Stati, l'estensione grandissima che hanno preso i debiti pubblici, hanno creato, negli ultimi cento anni, nuove compagini, nuovi elementi d'importanza politica, la cui azione invadente e prepotente parecchi dei maggiori Stati del nuovo e del vecchio mondo hanno avuto già occasione di sperimentare.

La relativa facilità di organizzazione della ricchezza mobiliare, la possibilità di accentrare la direzione di una parte ragguardevole di essa in mano di pochi individui contribuisce a spiegare la sua preponderanza. Abbiamo qui uno dei tanti esempi di minoranze organizzate che prevalgono sulle maggioranze disorganizzate. Un piccolissimo numero d'individui possono dirigere tutte le Banche d'emissione di uno Stato, oppure tutte le compagnie che esercitano la grande industria dei trasporti ferroviari o marittimi, oppure anche possono essere arbitri delle grandi compagnie per azioni, che esercitano industrie indispensabili alla difesa del paese, come quelle metallurgiche, o compiono opere pubbliche per le quali neppure le finanze dei Governi più ricchi sarebbero sufficienti. Questi individui, che hanno il maneggio di centinaia di milioni, possiedono mezzi svariatissimi per allarmare o lusingare interessi molto estesi, per intimidire e corrompere funzionari, ministri, deputati e giornalismo; senza che quella parte del capitale nazionale, che è senza dubbio la parte maggiore, la quale si trova impegnata in moltissime industrie mediocri o piccole, ovvero dispersa in una moltitudine di mani, sotto forma di risparmi più o meno grandi, possa menomamente reagire contro di essi. E si noti che anche la parte principale del capitale delle Banche e delle Compagnie industriali per azioni, appartiene ordinariamente ai piccoli e mediocri azionisti, i quali non solo restano completamente passivi, ma spesso sono le prime vittime dei loro duci, che sulle loro perdite riescono a fondare la loro fortuna e la loro influenza [150].

XI. — È da notare infine che qualunque ordinamento politico semplicista, basato sopra un principio assoluto, il quale fa sì che tutta la classe politica sia organizzata sopra unico tipo, rende malagevole la partecipazione alla vita pubblica di tutte le influenze sociali e più malagevole il controllo, che le une possono sulle altre esercitare. Ciò è vero tanto quando il potere è esclusivamente affidato ad impiegati, che si suppongono nominati dal principe, che quando esso è in mano a funzionari elettivi, la cui scelta si dice che appartenga al popolo. Dappoichè i freni che la burocrazia come la democrazia possono imporre a loro stesse, e che si esplicano per mezzo di altri burocratici o di molteplici funzionari elettivi, riescon sempre insufficienti e nella pratica non raggiungono mai interamente il loro scopo.

La storia amministrativa dell'impero romano ci fornisce infatti un esempio opportuno della incapacità d'una burocrazia accentratrice a frenare efficamente sè stessa. Si sa che in origine, tanto nella capitale che nei municipi, nelle colonie e nelle città di provincia, vi era, sotto la supremazia di Roma repubblicana o imperiale, quello che gl'Inglesi chiamano un self-government; le cariche pubbliche erano cioè gratuitamente esercitate da una numerosa classe agiata. Ma fin dal principio dell'impero le funzioni, che in Roma fino allora erano state attribuite agli edili ed ai censori, furono date a funzionari speciali stipendiati, aiutati nel loro servizio da un personale numeroso d'impiegati pure retribuiti. Così la cura dell'alimentazione della città fu affidata al praefectus annonae, i lavori pubblici ai curatores viarum, aquarum, operum pubblicorum, riparum et alvei Tiberis, la sorveglianza dell'illuminazione e sugli incendi al praefectus vigilum e la polizia al praefectus urbis. Ben presto il sistema della capitale si andò estendendo ai municipî, che andarono perdendo la loro autonomia amministrativa. Infatti, fin dalla fine del primo secolo dell'impero, vediamo diminuire sensibilmente l'autorità dei duumviri juris dicundo e degli aediles, ai quali era affidata l'amministrazione municipale delle singole città, che vennero poco a poco sostituiti da impiegati imperiali: juridici, correctores, curatores rerum publicarum. Per quanto l'evoluzione fosse lenta [151], a partire da Nerva e Traiano interpolatamente l'autorità dei funzionari elettivi veniva sospesa e le loro attribuzioni erano affidate per un dato tempo ad un curatore simile al nostro regio commissario, e nello stesso tempo si andava lentamente accrescendo l'autorità ispettiva e l'ingerenza del corrector provinciae, equivalente nel caso al nostro prefetto. Finchè, alla fine del secondo secolo, vediamo quasi universalmente spente le autonomie municipali ed una vastissima ed assorbente rete burocratica stendersi per tutto l'impero [152].

Contemporaneamente decadeva l'agiata borghesia municipale, che componeva l'ordo decurionum, la quale partecipava al reggimento delle città e dal cui seno uscivano appunto coloro, che coprivano le cariche di duumviro e di edile [153]. Or, quando l'accentramento burocratico ed il fiscalismo ebbero creata la società romana del Basso Impero, composta di una classe ristrettissima di grandi proprietari e di alti funzionari e di un'altra numerosissima di persone assolutamente povere, prive di ogni importanza sociale, e che, sebbene libere di nascita, decadevano facilmente fino a ridursi alla condizione di coloni, noi vediamo comparire un'istituzione originalissima, un nuovo organo burocratico, che avea appunto la missione di difendere e tutelare le classi disagiate e gli avanzi dei piccoli proprietari contro gli abusi della burocrazia. Il defensor civitatis creato da Valentiniano I°, nel 364, era appunto un impiegato, creato apposta per proteggere la plebe urbana contro le soverchierie degli alti funzionari e dei ricchi, che con quelli facevano causa comune; egli dovea specialmente curare che i reclami dei poveri fossero accolti come di diritto e potessero arrivare ai piedi del trono. Ma questo sforzo, che fece l'assolutismo burocratico per correggere e controllare sè stesso, malgrado le rettissime intenzioni del legislatore, non dovette avere una sensibile efficacia; giacchè i mali antichi non disparvero e le cause, che conducevano l'impero alla dissoluzione, continuarono colla stessa forza ad agire [154].

In Russia l'assolutismo burocratico trova le sue antichissime radici nell'influenza bizantina, che fin dall'epoca di Wladimiro il Grande e dei suoi successori si fece sentire a Kief, e fu certo rafforzato dalla terribile dominazione mongolica, che sopravvenne nel secolo tredicesimo e fece sentire il suo peso fin nel decimosesto. Ed anche quivi la famosa cancelleria segreta organizzata dallo czar Alessio, verso la metà del secolo decimosettimo, non era che una polizia speciale, che facea capo direttamente al sovrano ed era incaricata di scrutare gli abusi ed anche i tentativi di rivolta degli alti impiegati e dei boiari, i quali formavano in fondo una unica classe. Or l'attuale terza sezione, tanto tristamente famosa, discende in linea diretta e legittima da questa cancelleria segreta, più volte nominalmente abolita, ma sempre di fatto conservata [155]; e pare che, più che a correggere la venalità e la corruttela della burocrazia russa, essa sia stata efficace nell'aumentare l'oppressione, che questa fa subire a tutto il resto del paese.

Negli Stati Uniti d'America vediamo al contrario l'impotenza della democrazia a controllare e limitare se stessa. Non si può negare che i redattori della Costituzione del 1787 abbiano avuto gran cura di attuare il contrappeso e l'equilibrio perfetto dei diversi poteri e dei diversi organi politici. Data la base assolutamente democratica del Governo, la mancanza assoluta di un potere, che direttamente non provenga dalle elezioni popolari, difficilmente crediamo che si sarebbe potuto immaginare di meglio. Difatti, anche non tenendo conto, che colà il Senato, munito di poteri più efficaci delle Camere alte europee [156] e fondato sul sentimento ancor vivace delle autonomie dei singoli Stati, è certamente molto autorevole, il Presidente, che usa liberamente del diritto di veto, che non può essere buttato giù da un voto della Camera bassa e che riassume nella propria persona la responsabilità del Governo per un intero lustro, come organo della difesa giuridica è superiore ai Gabinetti dei paesi parlamentari: corpi collettivi meno autorevoli, che hanno più bisogno di cattivarsi la simpatia dei deputati e dei politicanti, ed i di cui membri sentono meno il peso della responsabilità personale. Certo si deve anzi a questa larghezza di poteri ed al sentimento della responsabilità personale, che spesso si sviluppa stando in una carica elevatissima, se, nell'ultimo mezzo secolo, abbiamo visto alcuni Presidenti, come il Johnson, l'Hayes ed il Cleveland, opporsi con tenacia e coraggio ai peggiori eccessi dei partiti, che li avevano eletti [157].

Ma questa perfezione che chiameremo formale, del meccanismo del Governo federale ed anche dei Governi dei singoli Stati non ha potuto riparare che fino ad un certo punto al vizio fondamentale di tutto il regime politico ed amministrativo dell'Unione americana. Vizio, che è stato molto aggravato dalla tendenza, che fra il 1820 ed il 1850 cominciò a prevalere e che ora è diventata quasi generale, per la quale il suffragio è quasi in tutti gli Stati divenuto universale; sicchè un'unica categoria di elettori dà i suffragi in tutte le elezioni e si son rese direttamente elettive e temporanee le nomine dei giudici dei vari Stati, che prima erano a vita e generalmente attribuite ai rispettivi governatori [158]. In questo modo la stessa cricca elettorale elegge infallibilmente le autorità federali e quelle locali; governatori, giudici e Parlamento sono in fondo gli istrumenti delle stesse influenze, le quali diventano le padrone assolute ed irresponsabili di tutto uno Stato. Tanto più che i politicanti americani, che fanno un mestiere delle elezioni, sono abilissimi nell'arte di stabilire il Ring (letteralmente tradotto l'anello, il circolo), cioè il sistema mediante il quale tutti i poteri, che dovrebbero controllarsi e completarsi a vicenda, diventano l'emanazione di un solo caucus o comitato elettorale.

Ma si potrebbe obiettare che, col sistema del suffragio universale, tutte le forze e tutte le influenze politiche possono essere rappresentate nella classe governante proporzionatamente alla loro importanza numerica, e che riesce perciò impossibile ad una minoranza di monopolizzare il potere a proprio vantaggio e farne così uno strumento alle proprie vedute ed alle proprie passioni. A quest'obiezione, che riflette un sistema d'idee ancora molto in voga, ma che noi non abbiamo accettato ed abbiamo fin qui indirettamente combattuto, risponderemo direttamente nel capitolo venturo.

 


 

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CAPITOLO VI.
Polemiche.

I. La teoria democratica. — II. Rapporti fra il regime rappresentativo e la difesa giuridica. — III. Significato della così detta azione dello Stato. — IV. Questioni intorno ai limiti di questa azione. — V. La dottrina del Comte sui tre stadi intellettuali e politici. — VI. Valore pratico del parallelismo stabilito dal Comte. — VII. Classificazione degli Stati, secondo lo Spencer, in militari ed industriali. — VIII. Debolezze e lacune di questa classificazione.

I. — Nei precedenti capitoli abbiamo esposto quali siano, secondo il nostro modo di vedere, alcune delle leggi e tendenze costanti che regolano le società umane. Ora possiamo più agevolmente fare la critica di alcune opinioni e teorie politiche, ancora o almeno fino a poco tempo fa, molto in voga, le quali vengono, secondo noi, dalle leggi che abbiamo ricordato più o meno sfatate.

Molte fra le dottrine sulla libertà e sull'uguaglianza, come ancora sono comunemente intese, dottrine che il secolo decimottavo ha escogitato, che il diciannovesimo ha maturato e tentato di applicare e che il ventesimo probabilmente liquiderà o modificherà sostanzialmente, si riassumono e si concretano nel concetto che vuole a base di ogni Governo il suffragio universale. Si crede infatti molto comunemente che Governo libero, egalitario, legittimo, sia esclusivamente quello basato sulla volontà della maggioranza, la quale coi suoi suffragi trasmette per un dato tempo i suoi poteri ai propri mandatari. Fino a qualche generazione addietro, e per parecchi scrittori ed uomini politici anche oggi, tutte le imperfezioni dei Governi a base rappresentativa sono state attribuite alla incompleta o falsata applicazione di questi principii [159].

Una scuola così vasta, credenze cotanto diffuse, non si sfatano con qualche pagina, quindi noi ora non faremo una confutazione in regola delle teorie sulle quali si fonda il suffragio universale. Del resto, indipendentemente da quanto abbiamo già detto su questo argomento nel presente lavoro, di esso ci siamo occupati anche in altri scritti [160]; sicchè ora accenneremo semplicemente a qualcuno degli argomenti fondamentali che meglio possono minare le basi dell'edificio intellettuale, sul quale il suffragio universale è poggiato. Ci basterà quindi di dimostrare che la supposizione per la quale l'eletto è ritenuto l'organo della maggioranza dei suoi elettori ordinariamente non è conforme alla verità. E, fondandoci sull'esperienza dei fatti e ricordando alcune osservazioni pratiche, che tutti hanno presenti e che riguardano il modo come si svolge il fenomeno elettorale, facilmente proveremo il nostro assunto.

Quel che avviene colle altre forme di Governo, che cioè la minoranza organizzata domina la maggioranza disorganizzata, avviene pure, e perfettamente, malgrado le apparenze contrarie, col sistema rappresentativo. Quando si dice che gli elettori scelgono il loro deputato, si usa una locuzione molto impropria; la verità è che il deputato si fa scegliere dagli elettori, e, se questa frase sembrasse in qualche caso troppo rigida e severa, potremmo temperarla dicendo che i suoi amici lo fanno scegliere. Accade nelle elezioni, come in tutte le altre manifestazioni della vita sociale, che gl'individui, che hanno la voglia e sopratutto i mezzi morali, intellettuali e materiali per imporsi agli altri, primeggiano su questi altri e li comandano.

Il mandato politico è stato quasi assimilato a quello civile già noto nel diritto privato. Ma, nei rapporti privati, la delegazione di poteri e di facoltà presuppone sempre nel mandante la più ampia libertà nella scelta del mandatario. Or appunto questa libertà di scelta, ritenuta amplissima in teoria, diventa necessariamente quasi nulla ed irrisoria nella pratica delle elezioni politiche. Infatti se ogni elettore dasse il suo voto al candidato del suo cuore, sicuramente non ne risulterebbe altro, nella quasi totalità dei casi, che una grande dispersione di voti; poichè è quasi impossibile che molte volontà, non coordinate e non organizzate, s'incontrino nella scelta spontanea di un individuo, la quale può essere determinata da criteri diversissimi e quasi tutti subiettivi. Per dare al suo voto qualche efficacia ogni singolo elettore è perciò costretto a limitare la scelta in un campo ristrettissimo, cioè fra le due o tre persone che hanno qualche probabilità di riuscita [161]; e questa probabilità hanno ordinariamente solo coloro che sono sostenuti da un gruppo, da un comitato, da una minoranza organizzata, che ne propugna la candidatura.

Abbiamo altrove ragionato lungamente dei modi come si formano queste minoranze organizzate attorno ai candidati singoli od ai gruppi di candidati [162]. Ci basterà ora ricordare che esse sono ordinariamente fondate sull'influenza del censo, sopra cointeressamenti materiali o sui legami di famiglia, di classe, di setta di partito politico. Buona o cattiva che sia la loro composizione, è innegabile che i comitati ed i deputati, che alle volte sono i loro strumenti, alle volte i loro duci e padroni, rappresentano l'organizzazione di un numero rilevante di valori e di forze sociali. La vera conseguenza pratica del regime rappresentativo è perciò non già il governo della maggioranza, ma la partecipazione di un certo numero di valori sociali al reggimento dello Stato, la influenza e l'organizzazione di molte forze politiche, che in uno Stato assoluto, cioè retto dalla sola burocrazia, sarebbero rimaste inerti ed escluse.

II. — Esaminando i rapporti che il regime rappresentativo ha con la difesa giuridica si possono fare le seguenti distinzioni ed osservazioni.

Se è verissimo che la gran maggioranza degli elettori è passiva, nel senso che non ha libertà di scegliere il suo rappresentante, ma solo un limitatissimo diritto di opzione fra i diversi candidati, pure questa facoltà, per quanto sia limitata, fa sì che i pretendenti alla deputazione, cerchino di attirare a sè quella forza che può dare il tracollo alla bilancia in prò dell'uno o dell'altro; e perciò fanno ogni sforzo per adulare, carezzare ed attirarsi le simpatie delle masse. In questo modo certi sentimenti e certe passioni della folla devono necessariamente avere influenza sull'animo dei deputati, e l'eco di un'opinione molto sparsa, di un malcontento molto forte si fa facilmente sentire fin nelle più alte sfere dei governanti.

Si può obiettare che quest'influenza della maggioranza degli elettori necessariamente è ristretta alle grandi linee dell'indirizzo politico; che essa si fa sentire solo in pochissimi argomenti di carattere generale e che, entro questi limiti, anche nei Governi assoluti, le classi dirigenti sono obbligate a tener conto dei sentimenti delle masse. È certo infatti che il Governo più dispotico deve procedere molto cautamente quando si tratta di urtare i sentimenti, le convinzioni, i pregiudizi della maggioranza dei governati, o quando deve imporre ad essa sacrifici pecuniari ai quali non è abituata; ma la cautela nell'offenderla sarà anche maggiore quando ogni singolo deputato, il cui voto può essere tanto utile e necessario al potere esecutivo, sa che il malcontento delle turbe può, a breve scadenza, procacciare il trionfo di un aborrito rivale [163].

Il regime rappresentativo ha poi effetti molto diversi a seconda che varia la composizione molecolare del corpo elettorale. Se tutti gli elettori, che hanno qualche influenza per coltura e posizione sociale, sono entro i Comitati, e se al di fuori di questi non resta che una massa di poveri e di ignoranti, è impossibile che essa possa esercitare con qualche serietà ed efficacia il suo diritto di controllo ed opzione, ed in questo caso fra le diverse minoranze organizzate, che si disputano il campo, vince infallibilmente quella che più spende e più inganna.

Lo stesso avviene se entro il corpo elettorale le persone che hanno capacità ed indipendenza economica, rappresentano una minoranza sparuta, la quale non ha modo d'influire direttamente sul voto delle maggioranze; perchè, come ordinariamente accade nelle grandi città, queste si sottraggono alla loro azione morale e materiale. Mentre quando le capacità politiche dispongono esse direttamente dei voti della maggioranza e riescono a sottrarla alla azione dei Comitati e dei galoppini, può avvenire che il controllo sull'opera di costoro sia efficace. Sicchè il paragone fra i meriti e le dottrine dei diversi candidati sarà relativamente serio e spassionato solo quando le forze elettorali non sono interamente in potere di coloro che delle elezioni fanno un'occupazione abituale od un mestiere.

Ma la vera garanzia giuridica nei Governi rappresentativi sta nella discussione pubblica, che ha luogo in seno alle assemblee. Dentro queste possono penetrare forze ed elementi politici disparatissimi e basta una piccola minoranza indipendente per controllare l'operato di una grande maggioranza e sopratutto per limitare l'onnipotenza della organizzazione burocratica. Ma quando le assemblee, oltre ad essere organi di discussione e di pubblicità, diventano, come accade nei Governi parlamentari, il corpo politico che riassume in sè tutto il prestigio e tutto il potere dell'autorità legittima, allora, malgrado il freno delle pubbliche discussioni, su tutta la macchina amministrativa e giudiziaria può pesare la tirannia irresponsabile ed anonima degli elementi che prevalgono nelle elezioni e parlano a nome del popolo: si può avere cioè uno dei peggiori tipi di organizzazione politica che la maggioranza reale di una società moderna possa tollerare [164].

Il referendum nei Governi a base quasi esclusivamente rappresentativa può essere un modo abbastanza efficace col quale quel complesso di odii ed amori, entusiasmi e disgusti, che, quando sono veramente sparsi e generali, formano ciò che più verisimilmente si appella la pubblica opinione, può reagire contro l'operato e l'iniziativa della minoranza governante. Difatti, trattandosi non di fare una scelta od un'elezione, ma di dire un sì od un no sopra una determinata questione, ogni singolo voto non può andare disperso, ed ha la sua pratica importanza indipendentemente da ogni organizzazione e coordinazione di setta, di partito, di comitati. È certo però che col referendum non si avvera neppure l'ideale democratico del Governo della maggioranza, poichè il governare, più che nel consentire o proibire le modificazioni della Costituzione od anche della legislazione, consiste nel dirigere tutta la macchina militare, finanziaria, giudiziaria ed amministrativa, o nell'influire su chi la dirige. Inoltre il referendum se da una parte limita il potere della classe governante, dall'altra non è men vero che può seriamente ostacolare tutti i miglioramenti dell'organismo politico; i quali saranno sempre più facilmente apprezzati dalla classe governante, per quanto possa essere interessata e corrotta, che dalla maggioranza dei governati [165].

III. — Una quistione, che si agita molto tra gli scrittori di scienze sociali, è quella relativa alla maggiore o minore ingerenza che spetta allo Stato. Noi cercheremo di dimostrare che essa non è una questione sola, ma un complesso di questioni, ed, applicando le teorie che nei capitoli precedenti abbiamo esposte, forse contribuiremo a dissipare alcuni equivoci e malintesi, che finora ne hanno ostacolato il retto e preciso intendimento, ed hanno perciò impedito che si venisse, almeno in qualcuna di esse, a conclusioni precise.

È molto sparso ancora quel modo di vedere, che fa della società e dello Stato due enti perfettamente separati e distinti e spesso li considera anche come antagonisti. Or, prima di tutto noi crediamo che occorra determinare chiaramente che cosa si intende per Società e che cosa s'intende per Stato. Stando alle regole dei Codici ed alle concezioni del diritto amministrativo, lo Stato è certamente un ente distinto, capace di vita giuridica, il quale rappresenta gli interessi della collettività ed amministra il demanio pubblico; e che, come tale, può venire in conflitto d'interessi con i privati e con gli altri enti giuridici. Politicamente parlando però lo Stato non è che l'organizzazione di tutte le forze sociali, che hanno valore politico. Esso, in altre parole, rappresenta il complesso di tutti quegli elementi, che in una società sono atti alla funzione politica e sanno e vogliono ad essa partecipare; è quindi il risultato della loro coordinazione e della loro disciplina.

Questo è il vero punto di vista da cui lo Stato va considerato dai cultori delle scienze sociali; giacche è brutto e pericoloso errore, che dura ancora nel nostro secolo ed impedisce il retto apprezzamento dei problemi politici, la tendenza curialesca a riguardarli dal lato, non diciamo giuridico, ma prettamente ed esclusivamente giudiziario. Sicchè, secondo il nostro modo di vedere, antagonismo fra Stato e Società non può esistere, potendosi riguardare lo Stato come quella parte della Società, che disimpegna la funzione politica, e tutte le questioni riguardanti la ingerenza o non ingerenza dello Stato vengono ad assumere un nuovo aspetto, per il quale, piuttosto che studiare quali debbano essere i limiti dell'azione dello Stato, si deve cercare quale sia il miglior tipo di organizzazione politica; quello cioè che consente a tutti gli elementi, che hanno valore politico in una data Società, di essere meglio utilizzati e specializzati, meglio sottoposti al reciproco controllo ed al principio della responsabilità individuale per gli atti che compiono nelle loro rispettive mansioni.

Comprendiamo che quando si hanno certe abitudini intellettuali non è facile il mutarle rapidamente ed adattarsi a nuovi metodi di osservazione e ad una nuova maniera di considerare un dato argomento. Però confidiamo che basterà un semplice accenno alle pratiche applicazioni che può avere il sistema da noi esposto, perchè il lettore si familiarizzi con esso e ne scorga anche i vantaggi.

Ad esempio, quando si contrappone l'azione dello Stato all'iniziativa privata spesso non si fa che un paragone fra l'opera della burocrazia e quella che possono esercitare altri elementi direttivi della Società, che, in qualche caso, possono anche, senza essere impiegati stipendiati, rivestire un carattere ufficiale. Nelle nostre società di tipo europeo, per quanto burocratizzate, la burocrazia non è lo Stato, ma soltanto una parte di esso. Sicchè quando si dice comunemente che in Italia ed in Francia, in Germania ed in Russia, lo Stato fa tutto ed assorbe tutto, bisogna interpretare la massima nel senso che la burocrazia francese, italiana, tedesca e russa hanno molte più attribuzioni di quelle di altri paesi, ad esempio, di quella inglese e dell'americana. Come, quando si parla del famoso Self government inglese, del popolo dell'Inghilterra che si governa da se stesso, non bisogna supporre, come se ne potrebbe avere la tentazione stando alla dizione usata, che nei paesi del continente europeo, i Francesi, gl'Italiani, i Tedeschi ed i Russi non si governino da loro stessi e che essi affidino a stranieri la direzione delle rispettive funzioni politiche ed amministrative; ma bisogna intendere semplicemente che certi uffici, che in Inghilterra sono affidati a persone nominate dagli elettori o anche nominate dal Governo, ma scelte fra i notabili dei diversi luoghi e non retribuite nè traslocabili a volontà, sono negli altri paesi d'Europa disimpegnati da burocratici.

IV. — Abbiamo già accennato [166] come, sebbene la burocrazia e le assemblee che dispongono del supremo potere politico, abbiano avuto ed abbiano ingerenza in certi rami della produzione economica, quali sarebbero, ad esempio, la manutenzione e costruzione delle opere pubbliche e le banche di emissione, pure sembra accertato che la direzione di questo ramo dell'attività sociale non sia stata mai, in nessuna società pervenuta ad un certo grado di coltura e prosperità, completamente burocratizzata. Questa direzione è stata ed è in massima sempre affidata ad elementi, che certo fanno parte delle forze direttrici della società e quindi sono vere forze politiche, ma non entrano nei quadri della pubblica amministrazione. Si potrebbe anche ricordare quanto sia stata in generale dannosa l'ingerenza degli elementi che hanno la direzione propriamente politica, cioè legislativa, amministrativa e giudiziaria, della società, nelle faccende economiche, e quanta parte del depauperamento, che affligge qualche nazione moderna, si debba a quest'ingerenza attribuire [167].

Generalmente coloro che vogliono restringere le funzioni dello Stato dovrebbero inspirarsi a questo pratico e semplicissimo concetto: che, in tutti i rami dell'attività sociale, nell'istruzione pubblica, nel culto, nella beneficenza, nell'amministrazione della giustizia, nell'organizzazione militare, ecc. la funzione direttiva è sempre necessaria e che deve essere affidata ad una classe speciale, che abbia le attitudini necessarie a disimpegnarla.

Or quando si vuole togliere, in tutto od in parte, una di queste attribuzioni alla burocrazia od ai corpi elettivi bisogna tener presente che è necessario che esista in seno alla società una categoria di persone, che possieda le attitudini, ossia abbia la necessaria preparazione morale ed intellettuale ed anche la posizione economica sufficiente per adempire al nuovo ufficio che le viene affidato. Spesso anche non basta che in una società vi siano gli elementi adatti a ciò, ma bisogna che siano bene scelti e bene coordinati, altrimenti l'esperimento può fallire e produrre risultati dannosi. Noi crediamo, ad esempio, che questa sia stata la vera ragione per la quale l'istituzione dei giurati non ha fatto buona prova in molti paesi del continente europeo.

I cosi detti giudici popolari infatti rappresentano l'intervento di elementi sociali estranei alla magistratura regolare nell'amministrazione della giustizia penale; ma sono troppo numerosi per poter essere tutti intellettualmente e moralmente preparati al loro ufficio, e perchè il farne parte dia tale una soddisfazione di amor proprio da fare loro acquistare quello spirito di corpo, quel sentimento, diremmo quasi aristocratico, che è necessario per rialzare il carattere medio di uomini ai quali così delicate mansioni sono affidate [168].

Dall'altra parte coloro che invocano un maggiore intervento dello Stato dovrebbero pensare al significato pratico e positivo di questa parola, spogliandola di tutto ciò che essa ha di vago, di indeterminato, diremmo quasi di magico e di soprannaturale nell'uso comune. Spesso ai giorni nostri contro tutti i danni della concorrenza privata, come rimedio a tutte le cupidigie, alla libidine del prepotere, a tutti gli eccessi dell'individualismo, o meglio dell'egoismo, s'invoca l'intervento dello Stato. Il quale, organo del diritto e del progresso morale, dovrebbe sollevare gli umili e debellare i superbi; e, puro di tutte le volgari preoccupazioni degli interessi personali, dovrebbe reprimere tutte le iniquità, provvedere a tutti i bisogni materiali e morali, avviare l'umanità sui floridi sentieri della giustizia, della pace, dell'armonia universale [169]. Quanto scemerebbe questa fiducia se, invece di pensare allo Stato ente astratto, posto quasi al di fuori della società, si tenesse presente ciò che esso è in fatti, vale a dire l'organizzazione concreta di una gran parte degli elementi dominatori di una società. Se si pensasse che, nella nostra società europea, quando si parla di azione dello Stato, la frase si riferisce all'azione che possono esercitare ministri, deputati ed impiegati; tutta bravissima gente, che, per quanto possa essere migliorata o frenata dal sentimento della responsabilità, dalla disciplina e dallo spirito di corpo, ha tutte le facoltà e tutte le debolezze umane. Eccellenti persone, che però, come tutti gli uomini, hanno gli occhi, che si possono all'occorrenza aprire o chiudere, e la bocca, che può, secondo i casi, parlare, tacere ed anche mangiare; e le quali possono peccare anch'esse di orgoglio, di accidia, di cupidigia e di vanità, ed avere le loro simpatie ed antipatie, le loro amicizie ed avversioni, le loro passioni ed i loro interessi; e fra questi anche quello di restare al proprio posto, ed all'occorrenza di conseguirne uno migliore.

V. — Sarebbe opera impossibile, od almeno assai difficile, il rispondere a tutte le teorie e le dottrine, che si allontanano dal nostro modo di vedere intorno alle tendenze costanti ossia le leggi, che regolano l'organizzazione delle società umane. Fra queste dottrine due però ve ne sono, strettamente connesse e legate, che, per la loro odierna diffusione, hanno tale importanza, che di esse non possiamo assolutamente tacere. Intendiamo alludere alle teorie del Comte ed a quelle dello Spencer. Il primo, come si sa, ha messo in rilievo i tre stadi dell'intendimento umano: il teologico, il metafisico ed il positivo, ai quali fa corrispondere tre tipi diversi di ordinamento sociale: il militare, il feudale e l'industriale. Il secondo classifica invece semplicemente le società umane in Stati militari, fondati sulla coercizione, ed in Stati industriali, basati sul contratto e sul libero consenso di coloro che li compongono. Sulle orme di questi illustri sociologhi, ora gran parte di coloro che, specialmente in Italia, si occupano di scienze sociali e politiche, fanno di questi concetti la pietra angolare dei loro ragionamenti e dei loro sistemi.

In linea generale sulla classificazione dei tre stadi intellettuali fatta dal Comte ci pare che ci sia poco da obiettare. L'uomo infatti può spiegarsi tutti i fenomeni, tanto dell'universo inorganico che di quello organico, compresi quelli sociali, attribuendoli ad enti soprannaturali, all'intervento cioè di Dio o degli Dei, di genî, benefici o malefici, che sono autori della vittoria e della sconfitta, dell'abbondanza e della carestia, della salute e della pestilenza, ed allora si ha il periodo detto teologico. Li può anche spiegare attribuendoli a cause prime, frutto della sua imaginazione oppure di un'osservazione superficiale e sconnessa dei fatti, come quando credeva dipendesse dal moto e dalla congiunzione dei pianeti la sorte degli individui e delle nazioni, dalle combinazioni degli umori la sanità del corpo umano, e dalla quantità di metalli preziosi posseduti la ricchezza dei popoli, ed allora è nello stadio aprioristico o metafisico. Può infine, rinunciando a conoscere le cause prime di questi fenomeni, studiarne, con rigoroso sistema d'osservazione, le leggi naturali che li regolano e farne suo prò, ed allora è nel periodo scientifico o positivo.

Dove cominciano le obiezioni e le critiche al sistema del Comte è quando si vuole fare una distinzione cronologica netta e precisa fra le varie società umane, assegnandole ad uno dei tre periodi accennati. Poichè è impossibile negare che tutti e tre i periodi intellettuali coesistano in tutte le società umane, dalle più mature a quelle che sono ancora, per dir così, nello stadio selvaggio. Infatti la Grecia antica ci diede Ippocrate ed Aristotile, Roma Lucrezio, la moderna civiltà europea ci ha dato la fisica, la chimica, l'economia politica, ha inventato il telescopio ed il microscopio, si è impadronita della elettricità ed ha scoperto i microbi, che cagionano le pestilenze e le malattie; eppure non si può non riconoscere che ad Atene come a Roma antica, a Parigi come a Berlino, a Londra come a New-York, la maggioranza degli individui erano e sono in pieno periodo teologico, o almeno in quello metafisico. Come non ci fu epoca alcuna della classica antichità nella quale non si consultassero auguri ed oracoli, non si facessero sacrifici e non si credesse ai presagi, così vediamo ancora le religioni rivelate avere una parte importantissima nella vita dei nostri contemporanei e, dove esse s'indeboliscono, vediamo svilupparsi le superstizioni spiritistiche e gli assurdi metafisici della democrazia sociale. E d'altra parte il selvaggio che nella pianta e nel sasso vede un feticcio, che crede che lo stregone della tribù possa produrre la pioggia e scongiurare il fulmine, non potrebbe vivere se non possedesse alcune vere nozioni positive. Quando egli studia le abitudini della selvaggina, quando impara a distinguerne le orme e tien conto della direzione del vento per sorprenderla ed impadronirsene, fa suo prò di osservazioni accumulate e coordinate da lui e dai suoi maggiori, agisce perciò secondo i dettami di una vera scienza [170].

Ma vi ha di più: come si può già intuire dagli esempi accennati, non solo nella stessa epoca e nello stesso popolo possono coesistere i tre periodi intellettuali del Comte, ma anche nello stesso individuo. Diremo anzi che questa è la regola generale, della quale gli esempi a centinaia saltano agli occhi di tutti, e che il contrario è l'eccezione. A chi infatti non è accaduto di conoscere qualche capitano di nave buon credente, che presta fede anche ai miracoli della Madonna di Lourdes o della Madonna di Pompei, che in politica o nelle scienze economiche si trova in completo stadio metafisico e che, quando si tratta di dirigere la rotta e comandare la manovra della sua nave, fa uso di criteri rigorosamente scientifici? Tutti o quasi tutti i medici, fino a due secoli fa, erano credenti nelle loro religioni, e perciò non negavano l'efficacia delle preghiere e dei voti nella guarigione delle malattie; inoltre sul funzionamento dei diversi organi del corpo umano e sulle virtù di certi semplici avevano svariate credenze assolutamente metafisiche, dovute in gran parte all'influenza di Galeno e dei medici arabi, ma nello stesso tempo non mancavano certo di cognizioni positive, che rimontano ad Ippocrate, e che, lentamente elaborate dall'esperienza di tanti secoli, permettevano in certi casi una cura razionale. Similmente le preghiere per invocare la vittoria dell'Altissimo ed i Te Deum per ringraziarlo furono in uso in Europa, assai tempo dopo che Gustavo Adolfo, Turenne e Montecuccoli aveano cominciato a condurre le guerre con norme scientifiche.

Senofonte, per citare un caso concreto, quando credeva che un sogno fosse un avvertimento degli Dei era in pieno periodo teologico; sulla forma della terra e sulla composizione dei corpi aveva certamente delle idee, che i geografi ed i chimici dei giorni nostri avrebbero giustamente caratterizzato per metafisiche; ma, nel condurre la famosa ritirata dei diecimila, quando, ad esempio, per riparare la colonna principale, che marciava coi bagagli, dai continui assalti della cavalleria persiana la faceva coprire da due linee di fiancheggiatori armati alla leggiera, si regolava secondo criteri, che, dato il sistema d'armamento allora in uso, anche uno stratega moderno avrebbe trovato scientifici e positivi. Lo stesso autore se nella Ciropedia si mostra prevalentemente teologico e metafisico, diventa di nuovo positivo nel suo trattato sull'arte di cavalcare, perchè su quest'argomento, come farebbe un moderno, trae i suoi precetti dallo studio della natura del cavallo.

VI. — La verità è che in questo, come in tanti altri casi, il semplicismo non si adatta bene alle scienze che riguardano la psicologia dell'uomo, animale molto complesso, pieno di contraddizioni, e che non sempre si cura di esser logico e coerente; e che perciò anche quando crede e spera che Dio possa intervenire in sostegno della sua causa, ha cura contemporaneamente di tenere asciutte le polveri, di valersi cioè del sussidio dell'intelletto e dell'esperienza propria e degli altri. Il solo argomento veramente valido, che si potrebbe addurre a favore della classificazione del Comte, è questo: che, sebbene i tre stadi intellettuali coesistano in tutte le società umane e si possano rintracciare nella maggioranza degli individui che le compongono, pure possono essere, secondo i casi, assai inegualmente distribuiti; sicchè un popolo può avere un corredo di cognizioni scientifiche indiscutibilmente superiore a quelle di un altro, e, secondo le varie epoche della sua storia, può su questo riguardo grandemente progredire o decadere; come pure è innegabile che le dottrine metafisiche e le credenze soprannaturali hanno generalmente maggiore presa ed influenza sulle nazioni e sugli individui maggiormente sprovvisti di cultura scientifica. Ma, cosi ridotta, la teoria del Comte rassomiglia molto a quest'altra, per verità alquanto banale: che quanto più una società è scientificamente progredita, meno campo resta alle dottrine aprioristiche, e di altrettanto diminuisce in essa l'influenza del soprannaturale [171].

Dove poi i concetti del padre della moderna sociologia ci sembrano anche più lontani dalla verità è nella parte che si riferisce al parallelismo fra i tre stadi intellettuali ed i tre tipi di organizzazione politica che egli stabilisce: il militare, cioè, il feudale e l'industriale, — corrispondenti il primo alla infanzia, il secondo all'adolescenza, il terzo alla maturità delle società umane.

La funzione militare, l'organizzazione cioè di una forza armata per la difesa interna ed esterna di un popolo, e se si vuole, secondo portano gl'interessi, i pregiudizi e le passioni umane, anche per l'offesa, fino ad oggi è stata ed è una necessità di tutte le società umane. La preponderanza politica maggiore o minore dell'elemento militare dipende, in parte, da cause che abbiamo già studiato, dall'essere cioè o no questo elemento una forza politica più o meno indispensabile ed assorbente, più o meno da altre forze politiche bilanciata, ed in parte da altre cagioni, che quando sarà il momento opportuno non mancheremo di esporre. Intanto possiamo fin d'ora con sicurezza affermare che non vediamo la necessità del connubio indissolubile che, secondo il Comte, vi dovrebbe essere fra la prevalenza politica del militarismo e la prevalenza, nel mondo intellettuale e morale, del periodo teologico. Diremo anzi di più: che non ci pare cioè in niun modo provato, che il tipo di organizzazione, che il citato autore chiama militare, debba esclusivamente prevalere solo in quelle società, che si trovano al primo stadio del loro sviluppo, e, per parlare il linguaggio dei moderni positivisti, nello stato d'infanzia.

La società ellenica, ad esempio, dopo Alessandro Magno si trovava evidentemente organizzata secondo un tipo, che qualunque sociologo avrebbe caratterizzato per quello militare. Le leghe repubblicane della Grecia propriamente detta, posteriormente alla conquista macedone, non ebbero che una importanza politica molto limitata; esse, fino alla conquista romana, furono sempre nella clientela o nel vassallaggio dei grandi regni ellenizzati d'Egitto, di Siria e sopratutto di Macedonia, i quali erano vere monarchie militari assolute e fondate sulla forza degli eserciti. Eppure, proprio in quell'epoca, la società greca era tutt'altro che in uno stato d'infanzia o in un periodo teologico, perchè poco prima di allora si erano formate ed allora fiorivano quelle scuole filosofiche, che rappresentano il massimo sforzo del pensiero ellenico verso la scienza positiva. Lo stesso si può osservare nella società romana, quando, dopo Cesare, si affermò l'assolutismo imperiale sorretto dai pretoriani e dalle legioni.

La prevalenza delle credenze religiose, la fede ardente che in esse un popolo può avere, producono poi immancabilmente la preponderanza politica delle classi sacerdotali. Ora queste non sempre sono fuse interamente colle classi militari, nè sempre hanno con esse completa comunanza di sentimenti e d'interessi. La stessa unione fra il trono e l'altare, che ebbe luogo in Europa al principio di questo secolo dopo la Santa Alleanza, fu dovuta alla peculiare circostanza che entrambi erano direttamente minacciati dalla corrente razionalista e rivoluzionaria. Ma questo fatto, lungi dal formare una regola generale, che possa esser presa come legge universale, è da riguardarsi piuttosto come uno dei tanti fenomeni transitori che nella storia si producono. Non mancano certo gli esempi in contrario; e sono facili a portarsi quelli dell'India, dove ci fu un'epoca, nella quale la casta dei Bramini si trovò in lotta con quella dei guerrieri, e l'altro delle lotte avvenute in Europa fra il Papato e l'Impero.

Ci pare poi impossibile trovare una giustificazione qualsiasi, fondata sui fatti, di quella parte della dottrina del Comte, che, alla prevalenza della metafisica nel pensiero umano, fa corrispondere la prevalenza del sistema feudale nell'ordinamento politico [172]. Abbiamo già visto come, ciò che comunemente si chiama l'organizzazione feudale, sia un tipo politico relativamente semplice, che si riscontra spessissimo nell'inizio delle grandi società umane e si riproduce quando un grande Stato burocratico viene a dissolversi. Quantunque il progresso politico e quello scientifico non procedano sempre di pari passo, come è provato dalla storia d'Italia nel Rinascimento, pure si può ammettere con molte riserve che, in generale, ad uno stadio politico primitivo o ad un periodo di decadenza e dissoluzione politica, corrisponda uno stato d'ignoranza quasi generale od un periodo di accasciamento intellettuale. Ma non si sa proprio vedere il perchè questo debba essere caratterizzato dal prevalere dei concetti metafisici anzichè di quelli teologici; come pure non si può ammettere che, durante il fiorire di un ordinamento feudale, l'attività scientifica debba essere necessariamente spenta. Confucio, che visse in un'epoca nella quale la China era ordinata feudalmente, non fu certo un metafisico; e dall'altro lato la scienza del trivio e del quadrivio, come del resto qualunque altra specie di cultura che non sia affatto superficiale, è ignota agli Afgani ed agli Abissini moderni.

Il Comte si fonda sull'esempio del Medio Evo europeo : quest'epoca ebbe senza dubbio i suoi grandi scrittori metafisici, come ne ebbe pure la classica antichità; però il voler fare del pensiero medioevale quasi un ponte di passaggio fra l'antichità teologica ed il moderno pensiero scientifico è un concetto falso, come è falsa la credenza che il feudalismo sia stato la forma politica organicamente intermedia fra gli antichi imperi ieratici e lo Stato moderno.

Ma basta leggere gli scrittori medioevali, specialmente quelli delle epoche che si allontanano un poco dalla caduta dell'Impero d'occidente e non sono troppo vicine al Rinascimento, per capire subito quanto il pensiero medioevale fosse assai più profondamente, assai più costituzionalmente teologico di quello antico. Quegli scrittori ed i loro contemporanei sono immensamente più lontani, più diversi da noi, di quanto lo siano stati i contemporanei di Aristotile e di Cicerone. E l'ordinamento feudale si formava e fioriva proprio in quei secoli nei quali la paura continua delle carestie e della peste, le frequenti apparizioni di Enti celesti ed infernali, turbavano, imbecillivano completamente i cervelli umani; quando il terrore del demonio era lo stato permanente di quelle povere anime, in cui, per mancanza di qualunque cultura, la ragione deperiva ed il maraviglioso, il soprannaturale diventavano un elemento familiare come l'aria respirabile [173].

VII. — Resterebbe a dimostrare come il terzo rapporto necessario, che pone il Comte fra il regime industriale e la scienza positiva, sia anch'esso fallace. Ce ne dispensiamo, perchè, in quest'ultima parte, i concetti dell'autore del sistema di politica positiva non hanno avuta molta eco, essendo essi troppo diversi da quelli che finora sono più in voga fra i nostri contemporanei, e non offrendo sufficiente appiglio a giustificare, con una parvenza di metodo scientifico, passioni ed interessi che finora hanno molta forza. Infatti si sa che l'industrialismo secondo il Comte è un tipo di organizzazione sociale di là da venire, nel quale la funzione direttiva della società dovrebbe essere affidata ad un sacerdozio scientifico positivista e ad un patriziato bancario ed industriale, fra i quali non dovrebbe essere facile ai membri della classe inferiore di penetrare. Perchè l'autore, prevedendo il caso, non dimenticò di scrivere che "il sacerdozio disporrà i proletari a disprezzare qualunque tendenza ad uscire dalla propria classe, come contraria alla dignità dell'ufficio popolare e funesta alle giuste aspirazioni del popolo, che sempre è stato tradito dai suoi disertori" [174]. Altra idea fondamentale dell'A, è che tutto il movimento intellettuale e politico della fine del secolo decimottavo e della prima metà del decimonono sia stato un movimento rivoluzionario, che ha avuto per risultato l'anarchia morale e politica proveniente dalla distruzione del regime monoteista feudale al quale nulla si è saputo sostituire. Coerentemente a questo modo di vedere, il regime parlamentare è severamente condannato dal Comte, come un effetto del periodo anarchico nel quale siamo; la stessa funzione rappresentativa, per la quale gl'inferiori scelgono i superiori, è definita da quest'autore come una operazione rivoluzionaria [175].

Piuttosto ci converrà fermarci sulla seconda teoria, che abbiamo già accennato; sulla modificazione cioè che lo Spencer, e dopo lui moltissimi moderni sociologhi, hanno apportato alle dottrine del loro maestro, classificando le società umane in due tipi, rappresentati dallo Stato militare e dallo Stato industriale [176].

Qualunque classificazione deve essere fondata sopra caratteri distintivi netti e precisi e lo Spencer infatti non manca di avvertirci che, sebbene "durante l'evoluzione sociale si vedano i caratteri dei due tipi mescolarsi, pure, nella teoria come nei fatti è possibile di seguire con tutta la chiarezza desiderabile i caratteri opposti, che distinguono ciascuna delle due organizzazioni nel loro completo sviluppo" [177]. Or, trattandosi di un autore così reputato, anzi addirittura così celebre, si può ammettere che egli sia il migliore giudice dell'opera propria; ma tuttavia avremmo desiderato una chiarezza e certo una precisione maggiore in quei due capitoli dei principii di sociologia nei quali l'illustre scrittore tratta ex professo di questo argomento; e non esitiamo a confessare che, certo per colpa nostra, non ci siamo formato un concetto del tutto determinato delle idee che egli espone in proposito [178].

Il criterio fondamentale della classificazione dello Spencer, quello che non solo è esposto nei due capitoli accennati, ma al quale continuamente si allude in tutte le sue opere ed in quelle dei suoi numerosi seguaci, è questo: che la società militare è fondata sul regime degli statuti, sulla coercizione che i governanti esercitano sui governati, mentre quella industriale è basata sul contratto, sul libero consenso di coloro che ne fanno parte, nè più nè meno come una società letteraria, industriale e commerciale, la quale non è possibile senza il libero assentimento dei soci. Ora, ci perdonino tutti coloro che hanno abbracciato questo concetto, ma a noi sembra, e non possiamo fare a meno di confessarlo, che esso si fondi sopra presupposti eminentemente aprioristici e che non reggono alla prova dei fatti. Qualunque organizzazione politica crediamo invece che sia contemporaneamente spontanea e coercitiva; spontanea poichè essa proviene dalla natura dell'uomo, come è stato osservato fin da Aristotile, e nello stesso tempo coercitiva, perchè è un fatto necessario, l'uomo non potendo vivere altrimenti. È naturale quindi, ed è spontaneo, e nello stesso tempo è indispensabile, che, dove ci sono uomini, ci sia una società, e che, dove vi è una società, ci sia anche uno Stato; cioè una minoranza dirigente ed una maggioranza che da essa è diretta.

Si potrebbe obiettare che noi spostiamo la quistione in modo artificiosamente a noi vantaggioso, e che, sebbene l'esistenza di un'organizzazione sociale sia un fatto naturale e necessario là dove ci sono gruppi o moltitudini umane, pure ci possono essere alcuni Stati i cui ordinamenti riscuotono l'assentimento, o almeno l'acquiescenza completa, della gran maggioranza degli individui che ne fanno parte, mentre altri questa condizione non raggiungono. Non neghiamo che la cosa sia precisamente così, ma non vediamo però perchè i primi si debbano chiamare Stati industriali ed i secondi Stati militari. Infatti il consenso della maggioranza di un popolo in una data forma di regime politico, dipende unicamente dal fatto che questo regime è fondato sopra credenze religiose o filosofiche universalmente accettate; o, per parlare il linguaggio nostro, dipende dalla diffusione e dall'ardore della fede, che la classe governata ha nella formola politica con la quale la classe governante giustifica il suo potere. Ora questa fede, in generale, è certo maggiore in quegli Stati, che lo Spencer classificherebbe fra gli Stati militari e che presentano tutti i caratteri che egli ad essi suole attribuire; cioè negli Stati dove un Governo assoluto ed arbitrario si fonda sul diritto divino.

Infatti nelle monarchie orientali spesso si congiura contro la persona del sovrano, ma fino a pochi anni fa è stata rara l'aspirazione ad una forma diversa di Governo; e fra i popoli della moderna Europa noi vediamo che i Turchi ed i Russi, ad eccezione di una piccola minoranza istruita, sono stati quelli fra i quali il regime che esisteva fino a pochi anni fa era più in armonia coll'ideale politico della gran maggioranza della nazione. Del resto in tutti i paesi barbari la popolazione può essere malcontenta del capo dei capi, ma ordinariamente non concepisce e non desidera un regime politico migliore.

Senza che sia mai tassativamente detto, da alcuni esempi citati dallo Spencer [179] e dal capitolo che segue i due già rammentati, e che tratta del passato e dell'avvenire delle istituzioni politiche, si potrebbe arguire che per lui gli Stati industriali sono quelli nei quali il Governo ha una base rappresentativa, o nei quali vi è almeno la tendenza a non riconoscere altra autorità legittima se non quella che emana dai popolari comizi.

Però malgrado gl'indizi che abbiamo accennato, non possiamo ammettere che sia precisamente questo il concetto del chiarissimo autore. Perchè altrimenti tutti i suoi volumi di Sociologia non servirebbero che a rinforzare quella corrente d'idee già tanto diffusa, che comunemente appellasi radicale, e che dallo stesso Spencer e da molti dei suoi seguaci è stata più o meno direttamente combattuta. Inoltre egli non può ignorare quanto il sistema elettivo sia stato diffuso nelle repubbliche dell'antica Grecia, a Roma e persino fra gli antichi Germani, che tumultuariamente sceglievano i loro capi innalzandoli sugli scudi, e tutti questi popoli, stando ai suoi criteri, andrebbero classificati fra quelli che avevano un tipo accentuatamente militare. Nè infine si può ammettere che alla sua alta mente siano sfuggite totalmente le considerazioni già più o meno accennate in altri libri e da altri autori, e che noi abbiamo sommariamente svolte nel principio di questo capitolo. Or dalle considerazioni ricordate risulta che la partecipazione del popolo ai comizi elettorali non significa che esso diriga il Governo e che la classe dei governati scelga quella dei governanti, ma piuttosto che la funzione elettorale, quando si svolge in buone condizioni sociali, equivale ad un mezzo col quale alcune forze politiche controllano e limitano l'azione delle altre.

VIII. — Lo Spencer stabilisce altri caratteri distintivi fra i due tipi militare ed industriale, che ci sembrano ugualmente vaghi ed indeterminati. Scrive egli, ad esempio, che colla decrescenza del militarismo e l'accrescimento relativo dell'industrialismo, si va da un ordinamento sociale nel quale gl'individui esistono a profitto dello Stato ad un altro ordinamento nel quale lo Stato esiste a profitto degl'individui [180]. Distinzione sottile, che ci rammenta quella che si farebbe qualora si disputasse se nell'uomo il cervello esista a profitto del resto del corpo o il resto del corpo esista a vantaggio del cervello. Altrove asserisce che l'azione dello Stato militare è regolatrice positiva, nel senso che impone una quantità di atti da compire, mentre quella dello Stato industriale è regolatrice negativa [181], limitandosi essa a prescrivere gli atti che non si possono commettere; non avendo presente che non esiste organizzazione sociale nella quale l'azione dirigente non sia nello stesso tempo positiva e negativa, e che, siccome l'attività umana è limitata, moltiplicando la regolamentazione negativa, si ottiene, riguardo all'inceppamento dell'iniziativa individuale, quasi lo stesso risultato di quello che produce una soverchia regolamentazione positiva.

Alcuni caratteri poi dello Stato militare che lo Spencer enumera si riferiscono alle società soverchiamente burocratizzate, come sarebbero quelle che l'autore ritrova nell'antico Perù, dove gli ufficiali pubblici dirigevano le colture e distribuivano l'acqua (probabilmente a scopo d'irrigazione oppure in paesi ed in tempi di estrema siccità); mentre altri al contrario si riscontrano nei popoli, dove l'autorità sociale è ancora, od è stata recentemente, debole, e che si trovano in quel periodo di organizzazione rozza e primitiva, che noi abbiamo definito l'ordinamento feudale o ne sono usciti da poco. Fra quest'ultimi va messa l'usanza della vendetta privata, che il chiarissimo autore, il quale crede opportuno citare in proposito l'autorità di Brantôme, trova ancora diffusa in Francia alla fine del Medio Evo perfino fra gli ecclesiastici.

Inoltre, dove vige quest'usanza, e quindi presso tutti i popoli barbari, o la cui organizzazione sociale è molto indebolita, è naturale che il valore personale sia qualità molto pregiata e cosi va spiegata quest'altra caratteristica che lo Spencer attribuisce alle società militari. Aggiungiamo che lo stesso accade in quelle società che, per svariate ragioni, hanno dovuto sostenere molte guerre offensive e difensive, e che è naturale che la bravura sia l'unico attributo che conferisce prestigio ed influenza, là dove la rozzezza non permette alle attitudini scientifiche, od a quelle che mirano a produrre la ricchezza, di svilupparsi.

Finalmente non possiamo tacere che la tendenza, che lo Spencer attribuisce alle società militari, di vivere delle proprie risorse economiche ricorrendo il meno possibile agli scambi internazionali, è più che altro una conseguenza della rozzezza e dell'isolamento di molti popoli e, presso altri già più civili, dei pregiudizi delle masse sfruttati dagli interessi dei pochi, che sanno raggiungere il loro tornaconto a danno dei molti. È molto probabile infatti che ben poco abbiano profittato degli scambi cogli altri popoli quelle tribù che lo Spencer cita così spesso come tipi di società industriali primitive; ed al giorno d'oggi le correnti protezioniste pur troppo non si sono fatte sentire meno forti nell'industriale America del Nord che nella militare Germania. Nè vuolsi per ultimo dimenticare che mal si apporrebbero coloro i quali volessero distinguere le società industriali dal grado di sviluppo economico che hanno raggiunto, o quelle militari dall'energia e dalla prevalenza guerresca che hanno saputo ottenere. Giacchè lo stesso Spencer direttamente od indirettamente ci avverte che questo criterio, forse superficiale ma certo molto semplice e facilmente percepibile, è da scartare. Difatti, riguardo alla prima ipotesi, l'egregio l'autore non manca di far rilevare che "non bisogna confondere una società industriale con una società industriosa" e che "le relazioni sociali che caratterizzano il tipo industriale possono coesistere con un'attività produttrice molto limitata" [182]; e riguardo alla seconda lo Spencer non vorrà ammettere che la Repubblica romana abbia avuto una organizzazione più militare e meno industriale, nel senso che egli dà a quest'espressione, degli Imperi Orientali che furono da essa conquistati, o che i conquistatori inglesi siano stati meno inoltrati nel tipo industriale dei conquistati indiani.

Malgrado queste e malgrado altre obiezioni, che si potrebbero muovere alla classificazione dello Spencer, non possiamo però negare, che, diremo così, nascosta ed ottenebrata da un equivoco, con essa una grande verità non sia stata intravista. E certo che, oltre ai criteri di classificazione che abbiamo già accennato e che ci siamo sforzati di confutare, molti altri se ne possono desumere da tutte le affermazioni sue, dall'insieme delle sue opere e sopratutto dallo spirito che le anima. Dal complesso di quanto questo autore ha scritto non si può infatti fare a meno di ricavare che egli per Stato militare intende quello in cui la difesa giuridica è meno progredita, e per Stato industriale un altro tipo di società, in cui la giustizia e la morale sociale sono maggiormente tutelate. L'equivoco, di cui testè abbiamo parlato e che ha impedito allo Spencer di procedere oltre nello scoprire una grande verità scientifica, consiste in ciò: che egli, preoccupato dal fatto che la violenza materiale è stata ed è uno dei maggiori ostacoli al progredire della difesa giuridica, ha creduto nello stesso tempo che la guerra e la necessità di un'organizzazione militare sia di ogni violenza l'origine.

Così concependo il problema, si è confusa la causa con uno dei suoi effetti. Si è creduto che la guerra sia l'esclusiva origine della tendenza, che ha la natura umana a prepotere sui propri simili, mentre non è che una delle sue tante manifestazioni. Ora questa tendenza, che, nei rapporti esterni fra popolo e popolo, non può essere frenata che dalla prevalenza sempre maggiore degli interessi materiali ben intesi [183], nei rapporti interni fra gl'individui dello stesso popolo, abbiamo già visto che viene, fino ad un certo punto, neutralizzata solo dalla moltiplicità delle forze politiche che in una società si possono affermare e dal controllo che le une sulle altre possono esercitare.

Su quanto abbiamo scritto già sopra quest'importante argomento nulla abbiamo da togliere, ma certo molto ci resta da aggiungere. È infatti nostro compito l'esaminare come mai fra le classi dirigenti, fra le forze politiche, quella frazione che rappresenta appunto la forza materiale, che tiene in mano le armi, non rompa l'equilibrio giuridico a suo vantaggio e non s'imponga sistematicamente alle altre. Certo la possibilità che questo fatto avvenga è un pericolo continuo, al quale tutte le società sono esposte e che suole minacciare specialmente quelle che si trovano in un periodo di rapido rinnovamento di forze e di formole politiche. Senonchè l'esame dei rapporti fra gli ordinamenti militari e la difesa giuridica, la ricerca dei metodi migliori affinchè il detto pericolo sia scongiurato, è tema così arduo che a trattarlo consacreremo un apposito capitolo del nostro lavoro.

Per ora solo dobbiamo far rilevare che le idee dello Spencer su questo argomento, delle quali abbiamo cercato di porre in luce i lati deboli per quel che riguarda la generalità sistematica, non sono neppure tali da potersi approvare rispetto a quelle applicazioni pratiche, che, più o meno direttamente, l'autore suggerisce. Egli infatti fra gli ordinamenti militari mostra di prediligere quelli nei quali "il soldato, volontariamente arruolato a certe condizioni determinate, partecipa in qualche maniera delle condizioni di un libero operaio" e crede che un tale ordinamento convenga ad una società "in cui il tipo industriale si è già affermato [184]". In altri termini ciò significa che quella frazione della società, che ha più gusto per il mestiere delle armi, dovrebbe assumere volontariamente, mediante compenso, che, per questo come per gli altri mestieri sarebbe determinato dalle condizioni del mercato, l'incarico della difesa militare sì interna che esterna. Ora pare a noi, e molto prima di noi era parso a Machiavelli ed a tanti altri scrittori, che a meno di circostanze speciali ed eccezionali, sia appunto questo il sistema, che, nei popoli di cultura avanzata, dà peggiori risultati; che più facilmente sviluppa nella classe militare la tendenza ad opprimere le altre e toglie a queste la possibilità di ogni rimedio efficace e di ogni riparo.

 


 

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CAPITOLO VII.
Chiese, partiti e sette.

I. Istinto della lotta fra le collettività umane. — II. Altri coefficienti delle gare religiose e politiche. — III. Qualità dei fondatori di nuove religioni e dottrine politiche. — IV. Nuclei dirigenti di ogni nuova religione o dottrina politica. — V. Condizioni transitorie per l'adattabilità delle dottrine religiose e politiche ai vari momenti storici. — VI. Condizioni permanenti per la loro adattabilità alla natura umana. — VII. Transazioni pratiche di certe dottrine. — VIII. Organizzazione stabile dei nuclei dirigenti. — IX. Contemperanza dei sentimenti generosi e degli interessi materiali. — X. Sistemi per attirare e dominare le masse. — Efficacia della forza materiale. — XI. Altre arti adoperate allo stesso scopo. — XII. Conclusione del capitolo.

I. — Narra Buffon che, racchiudendo un certo numero di daini in un parco, avviene immancabilmente che dividonsi in due truppe sempre in guerra fra loro. Pare che un istinto molto simile a questo faccia sentire la sua influenza sugli uomini. Essi hanno infatti la naturale inclinazione alla lotta, ma questa solo sporadicamente assume il carattere individuale, di un solo cioè in guerra contro un solo; perchè, anche lottando, l'uomo resta un animale eminentemente sociale. Vediamo perciò abitualmente gli uomini formarsi in nuclei, fra i quali vi sono capi e gregari; e gl'individui, che ogni nucleo compongono, sono fra di loro specialmente affratellati e concordi e sfogano gli istinti pugnaci contro coloro che fanno parte degli altri nuclei.

Questo istinto di attrupparsi e di combattere contro gli altri attruppamenti è la prima base ed il fondamento più primitivo tanto delle lotte esterne, che accadono fra società diverse, che delle fazioni, delle sette, dei partiti, ed in certo modo anche dello varie chiese e di tutte le divisioni e suddivisioni che sorgono in seno ad una stessa società e vi occasionano lotte morali e qualche volta materiali. Esso, nelle società molto piccole e primitive, nelle quali vi è molta unità morale ed intellettuale ed ogni individuo ha gli stessi costumi, le stesse credenze e le stesse superstizioni, può bastare da solo a mantenere le abitudini discordi e bellicose. Gli Arabi e i Kabili della Barberia, ad esempio, hanno tutti le stesse credenze religiose, lo stesso grado e lo stesso tipo di cultura intellettuale e morale, eppure, quando non combattevano contro l'infedele in Algeria ed a Tunisi, contro i Turchi a Tripoli, e contro il Sultano nel Marocco, erano sempre in lotta fra loro [185]. Ogni confederazione di tribù era in rivalità od in lotta aperta contro la confederazione vicina; nel seno della stessa confederazione vi erano discordie e spesso si faceva parlare la polvere fra le tribù che la componevano; dentro la tribù vi erano inimicizie fra i vari douars, e spesso il douar era diviso dalle contese fra le singole famiglie.

Altre volte, quando gli ambienti sociali sono piccoli, anche tra minuscole frazioni di popoli abbastanza civili le lotte interne possono nascere senza che siano giustificate da differenze morali ed intellettuali delle parti nemiche, o, se pure queste differenze si accampano, non sono che un puro pretesto. Cosi i nomi di Guelfi e Ghibellini fornirono piuttosto la giustificazione e l'occasione anzichè la causa alle lotte intestine dei nostri Comuni medioevali; e lo stesso si può dire generalmente dei nomi di liberale, clericale, radicale e socialista, che assumono oggi le fazioni, che si contendono il potere amministrativo nei piccoli Comuni dell'Italia meridionale. In momenti poi di eccezionale apatia intellettuale, pretesti, anche frivolissimi, possono dare occasione a lotte abbastanza importanti in seno a società molto grandi e progredite. A Bisanzio, ad esempio, durante e dopo l'impero di Giustiniano, i due partiti dei Verdi e dei Turchini o dei Prasini e dei Veneti, che spesso insanguinarono con lotte molto cruenti le vie della città, ebbero origine dal parteggiare che facevano gli spettatori del circo per i cocchieri di differente colore [186]. Un pallido ricordo di queste lotte si ebbe, prima del 1848, in qualche città italiana, dove una parte della gioventù si accalorava per la preminenza di qualche prima donna o prima ballerina.

II. — Prima di procedere oltre apriamo una brevissima parentesi e facciamo osservare che, tanto nelle società piccole che nelle grandi, quando il bisogno di lottare trova il suo sfogo nelle gare e nelle guerre esteriori, esso è in certo modo appagato ed è men facile che si esplichi nelle discordie e nei certami civili od interni. Ciò premesso, diremo come, guardando attentamente alla natura dei partiti, delle sette, delle fazioni politiche, filosofiche e religiose, che si manifestano in generale in seno ai popoli civili, facilmente ci possiamo accorgere che in esse all'istinto pugnace di attrupparsi e combattere, che è il più primitivo e, se ci fosse lecita la parola, diremmo il più animalesco, si mescolano altri coefficienti intellettuali e psicologici più complessi e più umani. Nelle società grandi e civili tenute insieme, oltre che dalla affinità morale ed intellettuale anche da una forte e complicata organizzazione politica, vi è la possibilità di una libertà speculativa ed affettiva molto maggiore che in quelle piccole e rozze. Perciò in un gran popolo le lotte politiche e religiose sono anche determinate dalla moltiplicità delle correnti d'idee, di credenze e di affetti, che riescono ad affermarsi; dalla formazione di crogiuoli intellettuali e morali diversi, entro i quali le convinzioni ed i sentimenti dei singoli individui sono variamente elaborati.

Così noi vediamo il Buddismo svilupparsi in seno alla società bramanica, il Profetismo e posteriormente le varie scuole dei Saducei e degli Esseni e la setta degli Zelanti tenere agitata la vita d'Israele, lo Stoicismo, il Manicheismo, il Cristianesimo ed il culto mitriaco contendersi la supremazia del mondo romano-ellenico, il Mazdeismo [187] propagarsi nella Persia dei Sassanidi, il Maomettismo nascere in Arabia e diffondersi rapidamente in Asia, Africa ed Europa. Fenomeni perfettamente analoghi, sebbene adattati all'indole più razionalista della moderna civiltà europea, sono il liberalismo ed il radicalismo del secolo decimonono, e meglio ancora la democrazia sociale, che, nata quasi contemporaneamente al liberalismo, ha mantenuto più a lungo la sua forza di propaganda e come è stata uno dei fattori storici più importanti della fine del secolo decimonono, continuerà ad esserlo nei primi decenni del ventesimo. Accanto a queste che abbiamo nominato, nella storia dei popoli civili sarebbe facile rintracciare moltissime altre correnti minori, le quali, con più o meno fortunata diffusione, hanno tutte raggiunto una certa importanza, ed hanno tutte contribuito a dar pascolo agli istinti della disputa, della lotta, del sacrificio e della persecuzione, che sono così radicati nei cuori degli uomini.

Il modo come nascono tutte queste dottrine o correnti di idee, di sentimenti, di convinzioni, ha sempre qualche cosa di costante, che dà all'esordio di ognuna di esse alcuni caratteri comuni. L'uomo, essere debole assai davanti le sue passioni ed anche davanti quelle degli altri, egoista spesso più che necessità il comporti, ordinariamente vano, invidioso, meschino, conserva nella quasi totalità degli individui due grandi aspirazioni, due sentimenti che lo nobilitano, lo elevano, lo purificano: cerca la verità, ama la giustizia; e qualche volta è capace di sacrificare a questi due sentimenti anche una parte più o meno grande dell'appagamento delle sue passioni e dei suoi interessi materiali. L'uomo civile, essere assai più complesso e delicato del selvaggio e del barbaro, può, in qualche caso, elevarsi fino ad una concezione assai raffinata dei sentimenti accennati.

In certi momenti storici, in una data società un individuo può sorgere, che acquisti la convinzione che egli ha qualche cosa di nuovo a dire riguardo alla ricerca della verità, una dottrina più elevata da insegnare per la migliore attuazione della giustizia; quest'individuo è il piccolo seme, che può, date alcune doti di carattere, il favore dell'ambiente e molteplici circostanze accidentali, produrre la pianta che stenderà i suoi rami in gran parte del mondo.

III. — La storia non sempre ci ha conservato i particolari biografici di questi fondatori di religioni e di scuole politico-sociali, che in fondo sono pur esse quasi religioni spoglie dell'elemento teologico. Di alcuni però sappiamo abbastanza; e ad esempio Maometto, Lutero, Calvino e sopratutto Rousseau, possono essere con una relativa facilità analizzati.

La qualità fondamentale, che tutti debbono avere, è una profonda convinzione della propria importanza o meglio dell'efficacia dell'opera loro. Se credono in Dio si stimeranno sempre destinati dall'Onnipotente a riformare la religione e la umanità intiera. Indiscutibilmente poi non è in essi che si potrà ricercare il perfetto equilibrio di tutte le facoltà intellettuali e morali, ma neppure possono essere considerati come pazzi; giacchè la follia è un male che presuppone nell'individuo che ne è colpito uno stato anteriore e normale di sanità. Vanno piuttosto classificati fra coloro che ordinariamente sono chiamati originali o esaltati; nel senso che attribuiscono a certi lati della vita o dell'attività umana una importanza esagerata, e che tutto il loro essere, tutto lo sforzo di cui sono capaci, giuocano sopra una carta, cercando di raggiungere l'ideale della loro esistenza per una via inusitata che dai più sarebbe ritenuta assurda. Ma evidentemente chi ha il perfetto equilibrio di tutte le sue facoltà, chi fa il conto esatto dei risultati da raggiungere di fronte agli sforzi ed ai sacrifici che sono necessari per ottenerli, chi giudica modestamente e sensatamente dell'importanza del proprio individuo e dell'efficacia reale e duratura che la sua azione, dato il corso ordinario degli eventi umani, può esercitare nel mondo, chi calcola esattamente e freddamente le probabilità prò e contro la riuscita, non intraprenderà mai un'iniziativa originale e ardita e non farà mai grandi cose. Se tutti gli uomini fossero normali ed equilibrati, la storia del mondo sarebbe molto diversa, e, conviene anche confessarlo, sarebbe molto monotona.

Qualità fondamentale del capo partito, del fondatore d'una setta di una religione ed in generale, si può dire, di qualunque pastore di popoli, che voglia far sentire la propria personalità ed indirizzare una società secondo le sue vedute, è il sapere infondere in altri le proprie convinzioni e sopratutto i propri sentimenti, il riuscire a far sì che molti vivano della sua vita intellettuale e morale e compiano dei sacrifici per gli ideali, che egli ha concepito.

Questa facoltà comunicatrice dei sentimenti e delle passioni proprie non è comune a tutti i riformatori; quelli che ne mancano, anche che abbiano una forte originalità di pensiero e di sentimento, riescono inefficaci nella vita pratica e spesso finiscono coll'entrare nella categoria dei novatori senza seguito, dei geni incompresi, i quali difficilmente possono evitare il ridicolo.

Al contrario coloro che la posseggono non solo sanno inspirare agli apostoli ed alle turbe i loro entusiasmi e persino suscitarne il delirio, ma finiscono anche col far nascere una specie di venerazione per la loro persona e col diventare l'oggetto di un vero culto, per il quale ogni loro minimo atto acquista importanza, ogni loro parola è senza discussione creduta, ogni loro cenno ciecamente obbedito. Attorno ad essi si forma un ambiente di esaltazione, che è sommamente contagioso e che è padre di atti arditi e sacrifici, che certamente non sarebbero possibili se gli uomini che ne sono gli autori fossero nel loro stato normale.

È così che si spiega il successo enorme di certe predicazioni ed insegnamenti e la fortuna straordinaria che, ad esempio, ebbero nel Medio Evo due tipi, così diversi in tante altre cose ma così simili nell'arte di interessare gli uomini, come furono San Francesco d'Assisi ed Abelardo. Così si spiega come Maometto fosse tenuto in tale venerazione dai suoi discepoli ed adepti, che conservavano quali reliquie i peli della sua barba e (bisogna far la parte alla rozzezza dei tempi) raccoglievano con venerazione i suoi sputi, e come bastasse una sua insinuazione perchè i suoi più pericolosi avversari fossero assassinati [188]. E così si spiega pure come, ad un cenno di Mazzini, non siano mancate quasi mai persone disposte ad assumere le imprese più arrischiate e perigliose, e come in tutti i tentativi di comunismo pratico, che si sono fatti nel secolo decimonono da Owen e da Fourier fino a David Lazzaretti, siansi trovate sempre un certo numero di persone disposte a sacrificare la loro sostanza.

Quando qualcheduno di questi fondatori o capi di scuole politiche o religiose è anche uomo di guerra, come fu Giovanni Ziska, riesce ad infondere nei suoi seguaci una sicurezza di vincere e quindi un coraggio poco comuni.

Non si deve poi cercare in tutti i caratteri originali, che si fanno iniziatori di un movimento d'idee e di sentimenti, un senso morale assolutamente squisito che presieda uniformemente a tutti gli atti della loro vita, perchè non sempre lo si troverebbe. Preoccupati quasi esclusivamente di raggiungere il loro ideale, per il conseguimento di questo scopo sono quasi sempre pronti a soffrire essi ed a far soffrire anche gli altri. Generalmente anzi hanno un alto disprezzo o almeno una gran trascuranza per tutto ciò che si riferisce ai bisogni quotidiani ed agli interessi materiali ed immediati della vita, e, anche che non lo dicano espressamente, biasimano sempre in cuor loro la gente dedita a seminare, mietere e conservare il raccolto, perchè pensano che, una volta stabilito quello che essi credono il regno di Dio o della verità e della giustizia, i bisogni degli uomini saranno cosi facili ad essere appagati come quelli degli uccelli dell'aria o dei pesci delle acque. Quando vivono in tempi razionalisti, ed apparentemente più positivi, non tengono conto dell'esaurimento della pubblica ricchezza che il solo tentativo di attuare i loro ideali potrebbe produrre.

Su questo riguardo, del resto, conviene distinguere tre periodi attraverso i quali la vita di ogni grande riformatore può passare.

Il primo è quello durante il quale egli concepisce la sua dottrina e questa si va elaborando nell'intimo della sua coscienza, e, durante questo stadio, egli può conservarsi in perfetta buona fede e potrà essere accusato di fanatismo, ma non già di doppiezza e ciarlataneria; il secondo comincia quando inizia la sua predicazione, ed allora la necessità di impressionare gli altri lo spinge fatalmente a caricare alcune tinte e quindi alla posa; il terzo periodo si ha quando è così fortunato da poter tentare l'attuazione pratica dei suoi insegnamenti.

Arrivato a quest'ultimo stadio e trovandosi necessariamente in contatto diretto con tutte le imperfezioni e le debolezze della natura umana, deve, se vuole riuscire, moralmente decadere.

Allora tutti i riformatori convengono nell'interno della loro coscienza che il fine giustifica i mezzi, che non si possono guidare gli uomini senza alcun poco ingannarli, e, di transazione in transazione, si arriva al punto che riesce malagevole anche al più acuto psicologo il distinguere dove finisca in essi la sincera convinzione e dove cominci la messa in scena e la furfanteria [189]. Certo è che svariatissimi elementi morali possono coesistere nello stesso individuo, come ad esempio in Enfantin, il secondo sommo pontefice del Sansimonismo [190], ed in Maometto, nel quale non si può negare l'aspirazione sincera ed onesta verso una religione meno rozza e materiale di quella che gli Arabi praticavano prima di lui, mentre è pure certo che qualche volta i versetti del Corano, che l'Arcangelo Gabriele mano mano gli comunicava, giungevano opportuni per liberarlo da impegni presi e perfino per esentarlo dall'osservanza di certi freni morali, che in versetti precedenti erano stati stabiliti [191].

IV. — Accanto all'individuo, che primo concepisce una nuova dottrina, vi è sempre un gruppo più o meno numeroso, che riceve direttamente la parola dal maestro e che dei suoi sentimenti è profondamente imbevuto [192]. Ogni Messia deve avere i suoi apostoli, dappoichè l'uomo ha in quasi tutte le manifestazioni della sua attività morale e materiale bisogno della società; non c'è entusiasmo che non si spenga, non ci è fede che non si scuota se restano in un prolungato isolamento. La scuola, la chiesa, l'agape, la loggia, il convegno abituale, comunque si chiami, di un gruppo di persone, che sentono e pensano nello stesso modo, che hanno gli stessi entusiasmi, gli stessi odi, gli stessi amori e comprendono ugualmente la vita, fortifica, esalta e sviluppa i loro sentimenti e produce tale un'assimilazione di questi nel carattere di ogni singolo individuo da renderne la traccia indelebile.

È in questo gruppo dirigente che d'ordinario la inspirazione primitiva del maestro viene sviluppata, raffinata, completata tanto da diventare un vero sistema politico, religioso o filosofico scevro da incongruenze e contraddizioni troppo apparenti. È dentro di esso che si mantiene il fuoco sacro della propaganda anche dopo che il primo autore della dottrina è scomparso; ed è a questo nucleo, che si recluta da sè per coaptazione, che l'avvenire della nuova dottrina è affidato. Giacchè per quanto l'originalità di vedute, la forza dei sentimenti, l'attitudine alla propaganda di un maestro siano grandi, tutte queste qualità riescono inefficaci se, prima di materialmente o moralmente morire, egli non ha fondato la scuola; mentre, al contrario, quando il soffio che anima questa è energico e potente, tutti i difetti e le imperfezioni, che posteriormente si possono scorgere nell'opera del primo autore della dottrina, possono essere mano mano corretti o dimenticati e la propaganda può continuare attiva ed efficace.

Al di fuori del nucleo dirigente resta la folla dei proseliti, ma questa, mentre numericamente forma l'elemento maggiore e dà e fornisce alla Chiesa od al partito la forza materiale ed anche economica, intellettualmente e moralmente è il fattore più trascurabile di qualunque dottrina politica e religiosa. Le masse, difficili ad essere conquistate da una dottrina nuova, non l'abbandonano poi che con difficoltà [193]; e, quando ciò avviene, la colpa è quasi sempre del nucleo dirigente; giacche è quasi sempre in mezzo ad esso che prima s'insinuano l'indifferentismo e lo scetticismo. La miglior maniera di far credere è quella di essere profondamente convinto, l'arte di appassionare consiste nell'essere fortemente appassionato. Quando il sacerdote non sente la sua fede il popolo diventerà indifferente ed abbraccerà un'altra dottrina che avrà ministri più zelanti; se l'ufficiale non è imbevuto di spirito militare, se non sarà pronto a dar la vita per il decoro della propria bandiera, il soldato non si batterà; se il settario non sarà infanatichito non potrà trascinare le turbe alla ribellione.

Se si tratta di dottrine o credenze antiche, da un pezzo formate, che si sono già tradizionalmente imposte, ed il cui campo d'azione è omai fissato e circoscritto, è generalmente la nascita che ascrive un individuo nelle file dei loro seguaci. In Germania o negli Stati Uniti, ad esempio, quasi sempre si è cattolici, protestanti od israeliti a seconda che si nasca in una famiglia che professi una di queste religioni; in Spagna ed in Italia chi ha ancora una religione è quasi sempre cattolico. Se però in un paese vi sono diverse dottrine, ancora nello stadio di formazione e di propaganda attiva, che si fanno vicendevolmente la concorrenza, allora la scelta individuale, nelle persone di media levatura, dipende da un cumulo di circostanze, in parte accidentali, in parte frutto dell'abilità con cui la propaganda di una data dottrina vien fatta. In Francia ed anche in Italia il giovinetto può diventare conservatore o radicale socialista a seconda delle idee del padre, del professore o del compagno, che esercita più influenza sopra di lui nel momento che i suoi principii cominciano a formarsi; un libro che capita nelle sue mani, un giornale che si legge quotidianamente, in un'età in cui i concetti generali non sono ancora precisati e si ha principalmente bisogno di entusiasmarsi, amando ed odiando qualche cosa e qualche uomo, possono determinare l'intiero indirizzo di una vita. Giacchè, siccome le convinzioni politiche, religiose o filosofiche sono in fondo per molti uomini una cosa molto secondaria, specialmente dopo che è trascorsa la prima gioventù ed è venuta l'età delle occupazioni pratiche e degli affari, così un po' per indolenza, un po' per abitudine, un po' per malinteso amor proprio e per la così detta coerenza di carattere, si finisce spessissimo, quando l'interesse fortemente nol contrasta, col conservare per tutta la vita quelle dottrine, che si sono abbracciate in un momento d'impeto fanciullesco, consacrando ad esse quel po' di energia e di attività, che anche gli uomini comunemente detti positivi sogliono riserbare per ciò che si reputa l'ideale.

Dal fatto però che la scelta individuale di una credenza o di un colore politico può essere determinata dal caso non si deve indurre che questo sia la causa principale che contribuisce alla riuscita delle varie scuole o chiese. Vi sono invece dottrine molto adatte al proselitismo, ed altre ve ne sono assai meno adatte. Tre infatti sono i fattori dai quali quasi esclusivamente dipende la larga diffusione di un insegnamento politico o religioso. Il primo consiste nella sua adattabilità ad un dato momento storico. Il secondo corrisponde alla sua attitudine a soddisfare un maggior numero di passioni, di sentimenti e d'inclinazioni umane, di quelle specialmente che sono più diffuse e radicate nelle masse. Il terzo finalmente è costituito dalla buona organizzazione del nucleo dirigente, formato di tutti gl'individui specialmente dediti al mantenimento ed alla diffusione dello spirito, che informa una data dottrina.

V. — Perchè una dottrina sia adatta ad un dato momento storico di una data società, bisogna anzitutto che corrisponda allo stato di maturità che lo spirito umano ha raggiunto in quel momento ed in quella società. Una religione monoteista trionferà facilmente quando gli intelletti saranno abbastanza progrediti per comprendere come tutti i fenomeni naturali si possano attribuire ad unica causa ed unica sia la forza che regge l'universo. Il razionalismo potrà essere il fondamento di altre dottrine, quando il libero esame ed i risultati delle scienze naturali e storiche avranno infirmato il contenuto delle religioni rivelate, e la concezione di un Dio, fatto ad immagine e somiglianza dell'uomo, che interviene arbitrariamente negli eventi umani, apparirà assurda alle classi dirigenti.

Nei secoli durante i quali il Cristianesimo si diffuse nell'impero romano, ancora quasi tutti, pagani e cristiani, credevano nel soprannaturale e nel miracolo; ma il soprannaturale pagano era già divenuto troppo grossolano ed incoerente, mentre quello cristiano, che, oltre a rispondere meglio ai bisogni dell'animo umano, era più sistematico e meno fanciullesco, doveva trionfare. Luciano, perfettamente scettico, che ride di tutti, pagani e cristiani, nel secondo secolo dell'era volgare è un'eccezione. Il pubblico colto di allora nella sua media intelligenza era meglio rappresentato da Celso, che, deista e credente nel soprannaturale e nei miracoli, pure attaccava col ridicolo il Vecchio ed il Nuovo Testamento [194]. Ma, giacchè si era posto in questa via tanto conveniente ad un razionalista, e che, sedici secoli dopo, in circostanze diverse, dovea riuscire cosi bene a Voltaire, avrebbe dovuto facilmente accorgersi come fosse molto più facile provocare il ridicolo ed anche il disgusto sulle turpi azioni e le puerili baruffe di cui davano spettacolo gli Dei dell'Olimpo. Ed in verità riesce evidente che da parecchio tempo il paganesimo classico non potea bastare più nè al sentimento, nè all'intelletto degli uomini e, come bene osserva il Renan [195], il mondo romano ed ellenico se non fosse divenuto cristiano si sarebbe convertito al culto di Mitra, o a qualche altra religione asiatica più mistica del Paganesimo classico e meno incoerente.

Similmente Rousseau apparve ed ebbe fortuna quando, prima l'Umanesimo e la Riforma, poi i progressi delle scienze esatte e naturali, infine Voltaire e l'Enciclopedia aveano sfatato tutto il mondo cristiano e medioevale, sicchè poteva riuscire accetta una nuova spiegazione razionale, se non ragionevole, delle istituzioni politiche. Se noi esaminiamo la vita di Lutero e di Maometto facilmente possiamo vedere che la Germania e l'Arabia erano, quando essi apparvero, preparate ad accogliere le loro dottrine.

Se teniamo presente che l'uomo, quando ha una certa cultura, e soprattutto quando non è sotto la pressione assorbente dei bisogni materiali, ha generalmente la tendenza ad interessarsi a qualche cosa di superiore, che riguardi gl'interessi della società alla quale appartiene e si elevi al di sopra delle cure ordinarie della vita, facilmente ci possiamo accorgere che è assai più facile che una nuova dottrina possa attecchire colà dove questa tendenza non trova il suo pascolo nell'organizzazione politica già esistente; dove perciò gli entusiasmi, le ambizioni, il desiderio di lottare e primeggiare più difficilmente riescono ad avere uno sfogo. Certo, ad esempio, il Cristianesimo non si sarebbe rapidamente diffuso quando Roma repubblicana potea offrire ai suoi cittadini le emozioni delle lotte elettorali o quando essa faceva il suo terribile duello con Cartagine; sicchè fu la pace dell'impero che, attutendo le guerre fra le nazioni, riserbando tutte le pubbliche funzioni ai soli impiegati, preparando un lungo periodo di sicurezza e di ozio politico, rese alla nuova religione il miglior servizio possibile. Similmente la consolidazione dello stato burocratico, che avvenne nel secolo passato, la fine delle guerre religiose, la formazione di una classe colta ed agiata che era esclusa dalle funzioni politiche, fornirono il sostrato che rese possibile prima il movimento liberale e poi quello radicale socialista.

Conviene anche ammettere che una nazione si può trovare, diremo così, psicologicamente esaurita o riposata. E lo stesso concetto che, forse con meno proprietà di parola, si esprime quando si dice che un popolo è vecchio o giovane. Quando una società da parecchi secoli non ha subito rivoluzioni o gravi rivolgimenti politici e si prepara ad uscire da questo suo lungo torpore, riesce più facile di convincerla che il trionfo di una nuova dottrina, l'inizio di una nuova forma di governo debbano segnare il principio di un'era nuova, dell'età dell'oro o del regno della cuccagna, coll'avvento del quale tutti gli uomini debbono diventare buoni e felici [196].

Al contrario è naturale che, dopo una serie di rivolgimenti, l'entusiasmo e la fede che inspirano i novatori e le novità politiche, diminuiscano di molto e che un certo senso di scetticismo e di stanchezza si diffonda nelle masse. Però questo esaurimento della facoltà di credere e di entusiasmarsi si produce assai più difficilmente di quanto a prima vista possa sembrare. Non solo infatti sfuggono in gran parte alla influenza deleteria della disillusione tutte le dottrine religiose, che si fondano sul soprannaturale, sulla soluzione del problema che riguarda la causa prima dell'universo e che rimandano ad un'altra vita l'attuazione di un ideale di felicità e di giustizia; ma anche quelle apparentemente più positive, che dovrebbero dare i loro frutti in questa vita, resistono assai bene alle smentite che dà loro l'esperienza quotidiana dei fatti. In fondo le illusioni durano perchè, per la quasi totalità degli uomini, l'illudersi è un bisogno meno materiale, ma non meno sentito di tanti altri; perciò un sistema di illusioni non si sfata facilmente finchè non lo si sostituisca con un sistema nuovo. Alle volte, quando ciò non è possibile, neppure una serie di sofferenze, delle prove terribili, frutto di più terribili esperienze, bastano a far ricredere un popolo; o meglio l'accasciamento, più che la delusione, dura finchè vive la generazione, che è stata personalmente desolata e decimata; ma poi, appena le energie sociali si rinfrancano alquanto, se l'indirizzo delle idee e l'educazione dei sentimenti non mutano, le stesse illusioni produrranno nuove lotte e nuove sventure [197].

VI. — L'attitudine di una dottrina a soddisfare i bisogni dell'anima umana, oltrechè dalle necessità di tempo e di luogo alle quali abbiamo già accennato, dipende anche da condizioni permanenti, da vere leggi psicologiche, che è necessario siano da essa osservate. Anzi è questo il secondo ed importantissimo fattore del successo delle nuove dottrine politiche e religiose del quale veniamo ora a parlare.

Come regola generale un sistema d'idee, di credenze, di affetti per essere accolto da grandi masse umane, deve rispondere da una parte ai sentimenti più elevati dell'animo, deve perciò promettere il regno della giustizia e dell'uguaglianza in questo mondo o nell'altro, e proclamare che i buoni saranno premiati, i malvagi puniti. Ma nello stesso tempo non sarà male se darà un po' di soddisfazione all'invidia ed a quel rancore, che generalmente si ha contro i forti ed i fortunati, e sarà molto opportuna l'affermazione che, in questa vita o nell'altra, verrà un momento in cui gli ultimi saranno i primi ed i primi saranno gli ultimi. Gioverà molto se qualche lato della dottrina che si vuole propagare potrà offrire un rifugio agli animi dolci e buoni, che dalle lotte e dalle delusioni della vita cercano un conforto nel raccoglimento e nella rassegnazione; sarà pure utile ed anzi indispensabile che essa abbia modo di usufruire e di indirizzare lo spirito di abnegazione e di sacrificio, che in alcuni individui è preponderante, ma la dottrina stessa deve lasciare anche una qualche base all'orgoglio ed alla vanità.

Sicchè i credenti devono essere sempre il popolo o la classe degli eletti o almeno devono rappresentare l'avanguardia del vero progresso. Il Cristiano quindi deve poter pensare con soddisfazione che, al di fuori della propria fede, tutti saranno dannati; il Bramino deve poter rallegrarsi che egli solo discende dalla testa di Brama ed ha l'altissimo onore di leggere i libri sacri; il Buddista deve apprezzare altamente il privilegio di raggiungere più presto il Nirvana, il Maomettano deve con soddisfazione rammentare che egli solo è il vero credente e che tutti gli altri sono cani infedeli in questa vita e dannati nell'altra, il radicale socialista infine deve esser convinto che sono putridi ed egoisti borghesi o pecoroni ignoranti e servili coloro che non pensano come lui. Così si provvede al bisogno di stimare se stesso ed il proprio culto o le proprie convinzioni e nello stesso tempo a quello di disprezzare ed odiare gli altri.

Dall'odio alla lotta non vi è che un passo, e difatti non vi è setta politica o credenza religiosa che non l'ammetta, cruenta od incruenta secondo i casi, contro coloro che non accettano i suoi dogmi. Se la scansa assolutamente e predica in tutti i casi mansuetudine e sottomissione è segno che si sente del tutto debole e che troppo rischierebbe ad intraprenderla. Nella lotta poi trovano pascolo tutti gli appetiti meno nobili ma non meno diffusi del cuore umano: l'amore del lusso, la libidine di sangue e di donne, l'ambizione di comandare e prepotere.

Certo non si può fare una ricetta con i quantitativi che esige la soddisfazione di ogni sentimento umano per la fondazione di una duratura setta politica o dottrina religiosa, ma si può affermare con sicurezza che a raggiungere questo scopo è necessaria l'alleanza di una certa quantità di sentimenti elevati e di passioni basse, di metallo prezioso e di metallo vile; altrimenti la lega non riesce resistente. Ogni dottrina che non tiene abbastanza conto delle qualità diverse e contraddittorie delle masse umane, ha poca forza di propaganda e, se si vuole diffondere, deve essere nella pratica modificata. Anzi la mescolanza del bene e del male è così ingenita nella natura umana, che un po' di metallo fino deve esistere anche nella lega di cui sono impastate le associazioni di malfattori e le sette misteriose ed assassine, ed un po' di metallo basso deve entrare anche in quel complesso di sentimenti, che inspira le comunità degli asceti, che fanno completo sacrificio di se stessi, ed i gruppi degli eroi. La soverchia scarsezza dei due elementi ha sempre però lo stesso risultato di impedire la larga diffusione della dottrina o della disciplina speciale, che un dato instituto impone ai suoi membri.

Infatti è accaduto ed accade che si formi una setta brigantesca, che predichi il furto, l'omicidio e la distruzione; ma, anche in questo caso, noi vediamo che la perpetrazione di questi fatti è colorita con qualche speciosa dottrina politica o religiosa, che serve ad attirare nel sodalizio qualche illuso non del tutto spregevole, il quale col suo briciolo di rispettabilità rende più tollerabile agli altri la loro turpitudine e introduce nel sodalizio quel tanto di senso morale, che è indispensabile perchè le bricconate riescano [198]. Esempio di società di questo genere abbiamo negli Assassini, che nel Medio Evo funestarono la Siria e l'Irak-Arabi, nei Thugs o strangolatori dell'India, negli anarchici militanti d'Europa e d'America e forse anche in qualche società secreta della China [199].

Vediamo pure d'altra parte, che associazioni di uomini si sono costituite nelle quali si è stabilito di rinunciare ad ogni vanità e ad ogni godimento di questo mondo e si è accettato il sacrificio completo della propria personalità in prò del sodalizio o della umanità intera. I conventi dei bonzi e gli ordini religiosi del cattolicesimo sono esempi abbastanza noti di istituti di questa specie. E nondimeno, sebbene essi siano in generale reclutati fra gl'individui i quali, o per circostanze speciali della vita o per naturale vocazione al sacrificio ed alla rassegnazione, sono più adatti al loro speciale ufficio, pure non si può dire che siano del tutto esenti dalle passioni mondane; giacchè il desiderio di riscuotere l'ammirazione dei devoti, la voglia che hanno molti individui di primeggiare nell'ordine e quella, forse ancora più forte, che l'ordine primeggi sopra i sodalizi rivali, sono molle potentissime, che contribuiscono alla durata di simili associazioni ed alla loro prosperità.

Ma nell'uno e nell'altro caso, oltre che un briciolo di bene si è trovato sempre mescolato al male e che un briciolo di male ha sempre intossicato il bene, siamo di fronte costantemente a sodalizi non troppo grandi, e che sopratutto non hanno mai compreso tutti i membri di una grande società umana. Malgrado tutte le speciose giustificazioni del delitto, che si sono escogitate, le sette assassine e ladre non sono state finora che delle vere malattie sociali, che sono riuscite per qualche tempo a terrorizzare ed anche ad influenzare vaste contrade, ma non hanno mai convertito un gran popolo ai loro principii. Anche il convento è stato sempre un'eccezione e, dove la vita monacale si è estesa ed è diventata un mestiere abituale di una parte notevole della popolazione, essa ha rapidamente tralignato. Le Chiese ebionite, che nei primi tempi del Cristianesimo esigevano che ogni fedele mettesse in comune i propri guadagni e volevano estendere il tipo monacale all'intera società cristiana, vissero sempre vita stentata e presto dovettero scomparire. Giacchè se tesori di abnegazione si possono ottenere da un piccolo numero d'individui scelti ed educati con acconcia disciplina, lo stesso non è possibile quando si abbia da fare con un'intiera massa umana, nella quale necessariamente il bene è mescolato al male ed i bisogni e le passioni di ogni genere si fanno sentire. È perciò che qualunque esperimento di palingenesi sociale per provare qualche cosa dovrebbe essere applicato ad un popolo intero; dato che se ne trovi uno che si presti ad un simile studio.

VII. — È per queste ragioni che una religione la cui morale è troppo elevata produce tutto al più quei buoni risultati, certo non disprezzabili, che spesso si ottengono quando gli uomini si sforzano di raggiungere un ideale di bene, che è al di sopra delle loro forze l'attuare, ma nella pratica deve finire sempre coll'essere poco scrupolosamente osservata. L'urto continuo fra la credenza religiosa e le necessità umane, fra ciò che si riconosce santo e conforme alla legge divina e ciò che si fa, costituisce la eterna contradizione, la inevitabile ipocrisia della vita di molti popoli e non soltanto dei popoli cristiani. Poco prima che il Cristianesimo diventasse, mercè Costantino, la religione ufficiale dell'impero romano, il buon Lattanzio esclamava: "Se il vero Dio soltanto fosse onorato (cioè se tutti si fossero convertiti al Cristianesimo), non vi sarebbero più dissensioni nè guerre. Gli uomini sarebbero tutti uniti con i legami di una carità indissolubile, perchè essi si riguarderebbero tutti come fratelli. Nessuno macchinerebbe più agguati per disfarsi del suo vicino, ciascuno si contenterebbe di poco e non vi sarebbero più frodi e latrocinii. Come diventerebbe fortunata la condizione degli uomini, che età dell'oro comincierebbe per il mondo!" [200]. Doveva essere questa infatti l'opinione di un cristiano, convinto che ogni credente dovesse porre interamente in pratica i precetti e lo spirito della sua religione e che reputava possibile che questi fossero osservati da un'intiera società, come lo erano da quelle anime elette che, col sacrificio della loro vita, non rinnegavano la fede davanti le persecuzioni di Diocleziano. Se Lattanzio fosse vissuto solo cinquant'anni più tardi, forse si sarebbe accorto come nessuna religione basti ad elevare sensibilmente e rapidamente il livello morale di tutto un popolo; se fosse rinato nel Medio Evo avrebbe potuto accertarsi come, adattandosi sempre più alle mutevoli condizioni storiche ed alle esigenze perenni dell'animo umano, la stessa religione, che aveva dato il martire e che dava il missionario, era buona a produrre pure il crociato e l'inquisitore.

I Maomettani, in generale, osservano il Corano assai più scrupolosamente di come i Cristiani obbediscono al Vangelo. Ma ciò non proviene soltanto dalla loro fede più cieca, che è un effetto della loro maggiore ignoranza scientifica, ma anche dal fatto che le prescrizioni di Maometto sono moralmente meno elevate, e quindi umanamente più realizzabili di quelle di Cristo. Coloro che praticano l'Islam si astengono, in generale, molto severamente dal vino e dalla carne di maiale, ma un individuo, che non ne abbia mai gustato, non risente un disagio apprezzabile se è privo di questi alimenti [201]. L'adulterio è anche fra i seguaci dell'Islam assai più raro che fra i Cristiani, ma il divorzio è fra i primi molto più facile e Maometto permette di prendere diverse mogli, nè proibisce di praticare le schiave. È raccomandato assai ai credenti nell'Islam di fare l'elemosina ai compagni di fede e di essere con essi larghi di ogni sorta di aiuti, ma è anche loro inculcato di far la guerra agli infedeli, ed è anzi riputata opera meritoria lo sterminarli in guerra ed il sottoporli a tributo in pace. In fondo nel Corano si trovano perciò prescrizioni per tutti i gusti e, restando fedeli alla sua lettera ed al suo spirito, si può andare in paradiso per parecchie strade maestre. Non è da dimenticare che qualche credenza islamitica, la quale urta uno degli istinti più forti e radicati nella natura umana, è quella appunto che meno facilmente riesce ad influenzare la condotta dei Musulmani. Maometto infatti promette il paradiso a tutti coloro che soccombono nella guerra santa. Ora se ogni credente conformasse la sua condotta a quanto assicura il Corano, ogni volta che un esercito maomettano si trova di fronte ai miscredenti dovrebbe vincere o perire fino all'ultimo uomo. Non si può negare che un certo numero di individui si comporti conforme al detto del Profeta, ma la maggioranza preferisce per ordinario la sconfitta alla morte, benchè accompagnata dall'eterna beatitudine.

I Buddisti sono, in generale, osservantissimi dei precetti esteriori della loro religione, però nel metterne in pratica lo spirito e le prescrizioni sanno, come i Cristiani, togliersi di imbarazzo facendo col cielo opportuni accomodamenti. Penultimo re di Birmania fu il saggio ed accorto Meudoume-Men: oltre a governare bene i suoi sudditi, egli era molto appassionato per le discussioni religiose e filosofiche, nè mancava mai di far venire alla sua presenza tutti gli Inglesi e gli altri Europei di distinzione, che passavano per Mandalay capitale dei suoi Stati. Discorrendo con costoro si sforzava sempre di sostenere la superiorità della morale buddista su quella delle altre religioni, e non mancava mai di richiamare l'attenzione dei suoi interlocutori sul fatto che la condotta dei Cristiani non rispondeva ordinariamente ai precetti della loro religione; e certamente non dovea stentare molto a dimostrare che la maniera come gl'Inglesi avevano tolto al suo predecessore una parte dei suoi Stati non era in nulla conforme al Vangelo. Egli dal canto suo, essendo stato educato in un monastero di bonzi, era rigido osservatore delle prescrizioni buddistiche; alla sua corte non era affatto permesso di macellare alcun animale, e gli Europei che lungamente vi soggiornavano, ai quali la dieta esclusivamente vegetale riusciva ostica, erano costretti a cercarvi di nascosto un supplemento nei boschi, dove andavano in traccia d'uova d'uccelli. Non avrebbe poi dato giammai, e per nessuna ragione al mondo, l'ordine di una esecuzione capitale. Infatti, quando la presenza di qualcuno lo incomodava troppo, l'arguto monarca si limitava a domandare replicatamente al suo primo ministro: il tale è ancora in questo mondo? E, quando il primo ministro rispondeva finalmente di no, Meudoume-Men sorrideva placidamente. Egli non aveva offeso i precetti della sua religione, ma non per questo aveva ottenuto meno il suo scopo, cioè, che un'anima umana avesse anticipato il cominciamento di quella serie di trasmigrazioni, che la devono condurre alla fusione nell'anima universale preconizzata dalle credenze buddistiche [202].

Una dottrina essenzialmente virile che ben poco, anzi quasi nulla, concedeva alle passioni, alle debolezze ed anche ai sentimenti umani fu quella stoica [203]. Ma appunto per questo lo stoicismo limitò la sua influenza ad una frazione della classe colta, e le masse restarono completamente estranee alla sua propaganda. La scuola stoica potè quindi in una data epoca contribuire alla formazione del carattere di una parte della classe dirigente dell'impero romano e ad essa senza dubbio si deve una serie di buoni imperatori; ma dal momento che i suoi adepti non sedettero più sui gradini di un trono restò completamente inefficace. Impotente a trasformarsi, perchè la parte intellettuale e strettamente filosofica aveva in essa quasi totalmente assorbito quella dommatica ed affettiva, non potè contendere l'impero del mondo romano al Cristianesimo, come non sarebbe riuscita a contenderlo al Mosaismo, all'Islam ed al Buddismo.

Certo non si può affermare che sia indifferente per un popolo l'abbracciare una qualsiasi religione o dottrina politica. Anzi difficilmente si potrà sostenere che gli effetti pratici del Cristianesimo siano uguali a quelli del Maomettismo o della democrazia sociale. È quindi indiscutibile che una credenza alla lunga può determinare una certa piega nei sentimenti umani le cui conseguenze possono essere grandissime. Ma ciò che ci pare ugualmente indiscutibile è che nessuna credenza riuscirà a render l'uomo sostanzialmente diverso da quello che è; e, per parlare un linguaggio compreso da chiunque, oltre che dagli adepti delle scienze sociali, nessuna lo renderà del tutto buono o del tutto cattivo, completamente altruista od assolutamente egoista. Un adattamento a quella mediocrità morale ed affettiva, che risponde alla media dell'umanità, è in tutte indispensabile. Coloro che questa verità non vogliono riconoscere ci pare che agevolino il compito a quegli altri che, dalla inefficacia relativa dei sentimenti religiosi e delle dottrine politiche, traggono argomento per proclamarne l'inefficacia assoluta [204].

VIII. — Resta a parlare dell'organizzazione del nucleo dirigente e dei mezzi che esso usa per convertire le masse, o mantenerle fedeli ad una data credenza o dottrina. Come il lettore rammenterà, è questo il terzo dei fattori dai quali dipende la riuscita e la durata di qualunque sistema religioso o politico.

Come abbiamo già visto, la prima formazione del nucleo dirigente di una nuova dottrina politica o religiosa avviene per coaptazione spontanea; in seguito la sua organizzazione è basata principalmente su quel fenomeno dello spirito umano, al quale abbiamo pure accennato, che chiameremo mimetismo e consiste nella tendenza che hanno le passioni, i sentimenti e le credenze di un individuo a svilupparsi secondo la corrente, che prevale nell'ambiente in cui egli moralmente si forma e viene educato. È  un fatto perfettamente naturale che, in un popolo arrivato ad un certo grado di cultura, un certo numero di giovani abbia la facoltà di entusiasmarsi per ciò che crede vero e morale, per quelle idee, in apparenza almeno, generose ed elevate, che riguardano il destino della nazione e dell'umanità. Questi sentimenti e lo spirito di abnegazione e di sacrificio, che ne è la conseguenza, possono restare allo stato puramente potenziale ed atrofizzarsi od avere uno splendido sviluppo a seconda che siano o no coltivati; e possono dare frutti diversissimi secondo la maniera diversa come sono coltivati.

Nel figlio di un mercante a minuto, che non ha altro contatto che cogli avventori ed i commessi della bottega paterna, è probabile che non abbiano mai occasione di affermarsi o manifestarsi; a meno che non si tratti di uno di quegli individui superiori e rarissimi, che riescono a formarsi da sè; mentre un giovane allevato fin dai primi anni religiosamente ed educato in seguito in un seminario cattolico potrà diventare un missionario, che tutta la sua vita consacrerà al trionfo della fede. Un altro, nato in una famiglia blasonata, educato in un collegio militare, e che poi entrerà come sottotenente in un reggimento, dove troverà compagni e superiori imbevuti delle stesse convinzioni, crederà suo dovere primo ed esclusivo d'obbedire per tutta la vita agli ordini del Sovrano ed all'occorrenza farsi ammazzare per lui. Un altro infine, venuto su fra antichi congiuratori e rivoluzionari, che da bambino avrà provato entusiasmi e fremiti al racconto di persecuzioni politiche e di episodi delle barricate, la cui cultura intellettuale si sarà formata sugli scritti di Rousseau, di Mazzini o di Marx, crederà santo il lottare sempre contro l'oppressione dei Governi costituiti e per la rivoluzione affronterà il carcere ed il patibolo. Tutto ciò accade perchè, una volta formato l'ambiente cattolico-ecclesiastico, il burocratico-militare, il rivoluzionario, un individuo, un giovane specialmente, che non sia assolutamente d'intelletto superiore o di animo del tutto volgare, presto entro quell'ambiente darà alle sue facoltà affettive quella direzione che da esso gli viene indicata; sicchè, a seconda dei casi, si svilupperanno nell'alunno certi sentimenti anzichè altri, lo spirito di ribellione e di lotta, ad esempio, a preferenza di quello di obbedienza passiva e di sacrificio. L'educazione (i Francesi direbbero il dressage) riesce, l'abbiamo già accennato, sui giovani a preferenza che sugli adulti, sui caratteri entusiasti e passionati, anzichè su quelli freddi, ponderati e calcolatori, sui docili anzichè sui ribelli; tranne nel caso che la dottrina si trovi in un periodo, o sia per la sua essenza tale, che riesca utile di coltivare e sviluppare l'istinto della ribellione.

Una condizione sopra tutte è opportuna e quasi indispensabile perchè si raggiunga lo scopo, che abbiamo accennato, dell'assimilazione cioè degli individui all'ambiente: che quest'ambiente sia chiuso a tutte le influenze esteriori, che nessun sentimento e sopratutto nessuna idea al di fuori di quelle che portano la marca della fabbrica vi penetri. Nel seminario non deve entrare nessun libro posto all'indice, la filosofia si deve riassumere in S. Tommaso d'Aquino, la cultura deve esservi essenzialmente teologica e patristica, i racconti che desteranno l'interesse e serviranno di pascolo alla curiosità dei giovani saranno tolti dalla storia dei martiri e confessori. Nel collegio militare si narreranno le gesta dei grandi capitani, le glorie del proprio esercito e della propria dinastia, l'educazione e l'istruzione saranno quelle strettamente necessarie per far conoscere il mestiere delle armi ed apprezzare altamente l'onore di essere ufficiale, gentiluomo e servire fedelmente il Re e la patria. Nella conventicola rivoluzionaria non si parlerà che delle vittorie e delle glorie del popolo impeccabile, delle nefandezze dei tiranni e dei loro satelliti, della cupidità e viltà dei borghesi e sarà proscritto qualunque libro che non sia redatto secondo lo spirito e le vedute dei maestri. Ogni barlume di equanimità, ogni raggio che porti la luce di altri mondi morali ed intellettuali, il quale penetri in uno di questi ambienti chiusi, vi produce dubbi, titubanze, diserzioni. La storia vera, sincera, obiettiva dei fatti, quella che insegna a conoscere ed a valutare gli uomini indipendentemente dalla loro casta, religione o partito politico, che solo tien conto delle loro debolezze e delle loro virtù, che educa e forma il senso dell'osservazione e del reale, deve esservi assolutamente interdetta.

In fondo non si tratta dunque che di un vero squilibrio dello spirito, che ogni ambiente procaccia alla recluta che entro il suo seno viene attirata, alla quale si offre della vita un'immagine parziale, accuratamente riveduta, circoscritta e corretta, che il neofita prende per quella intiera e reale. Si esagerano certi sentimenti, si comprimono certi altri, si dà del giusto, dell'onesto, del dovere una idea, se non fondamentalmente errata, certo del tutto incompleta [205]. Però bisogna anche riconoscere che le persone perfettamente equilibrate, che conoscono ed apprezzano tutti i doveri e ad ognuno di essi annettono la giusta importanza, è difficile assai che consacrino tutta la loro vita e la loro energia ad uno scopo particolare e determinato. E la forza di una esagerazione e, se così si vuole, di una illusione collettiva quella che produce i grandi fatti storici e fa muovere il mondo. Se un Cristiano ammettesse che anche senza battesimo si può essere ugualmente onesto e che fosse possibile salvarsi l'anima rinnegando la propria fede, si sarebbe spento l'ardore dei missionari e dei martiri ed il Cristianesimo non sarebbe divenuto uno dei grandi fattori della storia umana. Se molti tra i fautori di una rivoluzione fossero ben persuasi che l'indomani della vittoria lo stato della società non potrebbe essere gran fatto migliorato, e se dubitassero che vi è anche il rischio di peggiorarlo, sarebbe difficilissimo trascinarli sulle barricate. Le nazioni infatti in cui lo spirito critico abbonda e che sono (in fondo giustamente) scettiche sugli effetti pratici che possono avere dottrine nuove, non si fanno mai iniziatrici di grandi movimenti sociali e finiscono coll'essere trascinate a rimorchio dalle altre più facilmente entusiasmabili; ed, a guardar bene, lo stesso accade fra gl'individui di uno stesso popolo, entro il quale i più riflessivi finiscono spessissimo coll'esser trascinati dai più impulsivi. Dappoichè non sempre accade che i pazzi siano trattenuti dai savi, spesso anzi i primi costringono gli altri a tener loro compagnia.

IX. — Ma una volta passato il periodo eroico di ogni istituzione, quello della prima propaganda, allora la riflessione e gl'interessi presto reclamano i loro diritti. L'entusiasmo, lo spirito di sacrificio, la unilateralità di vedute, bastano a fondare religioni e partiti politici, ma non sono sufficienti a diffonderli molto ed a durevolmente conservarli. Allora il reclutamento del nucleo dirigente si modifica o meglio si completa; poichè accade sempre che fra gl'individui che lo compongono si entri per considerazioni puramente idealiste, ma l'età nella quale l'idealismo è tutto passa presto nella gran maggioranza degli individui umani, e bisogna trovare anche qualche cosa che soddisfi l'ambizione, la vanità, la sete di godimenti materiali. In una parola, insieme ad un centro d'idee e di sentimenti, bisogna creare un centro d'interessi.

E qui riappare e ritroviamo di nuovo la teoria della lega del metallo puro col metallo vile, che abbiamo precedentemente enunciata. In un nucleo dirigente veramente bene organizzato tutti i caratteri devono trovare il loro posto: chi vuol sacrificarsi agli altri e chi vuole sfruttare il prossimo a favor suo, chi vuol sembrare potente e chi vuole esserlo effettivamente senza curarsi delle apparenze, chi ama soffrire le privazioni e chi vuol godere i piaceri della vita. Tutti questi elementi fusi e disciplinati sotto un regime forte ed autoritario, entro il quale ogni individuo sa che, finchè resterà fedele allo scopo ed all'indirizzo dell'istituzione, le sue tendenze saranno appagate, e, se ad essa si ribella, potrà essere moralmente ed anche materialmente distrutto, formano quegli organismi sociali, che sfidano le più svariate vicende storiche e durano per decine di secoli.

E la mente ricorre spontanea alla Chiesa cattolica, che di tutti questi organismi è stato ed è il più saldo ed il più tipico, e non si può non restare ammirati di fronte alla complessità ed alla sapienza del suo ordinamento. Il seminarista, il novizio, la sorella di carità, il missionario, il predicatore, il frate mendicante, l'opulento abate ed il convento aristocratico, il curato di campagna, il ricco arcivescovo, qualche volta anche principe sovrano, il cardinale che prende il passo sui primi ministri, il Papa, fino a qualche secolo fa uno dei più potenti sovrani temporali, tutti in essa hanno il loro posto e la loro ragione d'essere. Il Macaulay ha fatto rilevare un grande vantaggio, che ha il Cattolicesimo sul Protestantesimo e che sarebbe il seguente: quando in seno al secondo nasce uno spirito entusiasta e squilibrato finisce sempre col trovare una nuova spiegazione della Bibbia e col fondare quindi un'altra delle tante sette in cui si divide la Riforma; mentre lo stesso individuo dal Cattolicesimo sarebbe stato perfettamente utilizzato e sarebbe divenuto un elemento di forza anzichè di disgregazione. Avrebbe infatti vestito un saio di frate, sarebbe divenuto un famoso predicatore e, nel caso che fosse stato un carattere veramente originale, un cuore davvero caldo, e che i tempi avessero aiutato, se ne sarebbe potuto fare anche un San Francesco d'Assisi od un Sant'Ignazio di Loyola. Ora questo esempio, pur così calzante, ci svela solo uno dei tanti modi con cui la gerarchia cattolica sa mettere a profitto tutte le attitudini umane.

Si dice che il celibato degli ecclesiastici sia contro natura, e veramente per un certo numero di uomini è sacrificio grandissimo il restar privi di una famiglia legale; ma d'altra parte bisogna riflettere che a questo prezzo soltanto si può avere una milizia scevra di affetti privati ed isolata dal resto della società; e per i caratteri che ad esso sono proclivi, il celibato stesso non esclude certe soddisfazioni materiali. Credono anche molti che la Chiesa sia tralignata e che abbia perduto forza ed influenza perchè si è allontanata dalle sue origini e non è stata più unicamente l'ancella dei poveri. Ma anche questo è un modo di vedere superficiale e quindi erroneo.

Forse alla fine del secolo decimonono o al principiare del ventesimo, quando tutti parlano e s'interessano, o mostrano d'interessarsi, delle classi diseredate, può convenire anche al Sommo Pontefice di rammentarsi un poco di più che Egli è il servo dei servi di Dio. Ma, tolte certe epoche transitorie, la Chiesa cattolica non sarebbe divenuta quella che è stata, nè sarebbe durata tanto tempo in auge, se si fosse conservata sempre una istituzione a puro beneficio dei miseri e popolare soltanto fra gli straccioni. Essa al contrario accortamente ha trovato il modo di farsi apprezzare tanto dal povero che dal ricco: al primo ha offerto elemosine e consolazioni, il secondo ha conquistato colla magnificenza e colle soddisfazioni, che ha saputo procacciare alla sua vanità ed al suo amor proprio. E tanto quest'indirizzo è stato bene scelto, che tutti i nemici della Chiesa, mentre da una parte le hanno rimproverato il suo lusso e la sua mondanità, d'altra parte, se sono stati accorti, hanno avuto sempre cura di toglierle, per quanto è stato possibile, influenza e ricchezze; ed un'altra istituzione, che ora in parecchi paesi a combatter la Chiesa cattolica si è tutta consacrata, dal canto suo non manca di procacciare, per quanto può, soddisfazioni personali e vantaggi materiali ai suoi aderenti.

X. — Organizzato il nucleo dirigente, i sistemi da esso adoperati per conquistare le masse e mantenerle fedeli alla dottrina possono essere vari. Quando non s'incontrano forti ostacoli esteriori o nella natura stessa di un sistema politico o religioso, possono dare buoni risultati tanto i metodi di propaganda fondati sulla persuasione e l'educazione graduale delle turbe, quanto gli altri che ricorrono alla violenza. La violenza è anzi forse il modo più spiccio di far prevalere convinzioni ed idee, ma naturalmente per usarla è ovvio che bisogna essere i più forti.

Nel secolo decimonono si è molto diffusa la persuasione che la forza e la persecuzione non valgano a combattere le dottrine fondate sulla verità, alle quali è riserbato l'avvenire, e che sono del pari inutili contro quelle sbagliate, delle quali la ragione popolare fa giustizia da sè. Or, ci si conceda di esser sinceri, è difficile trovare un concetto più erroneo, perchè fondato sopra una maggiore superficialità di osservazioni e sopra una maggiore inesperienza dei fatti storici, di questo che abbiamo ora esposto: esso ci pare uno di quelli che faranno più ridere i posteri alle nostre spalle. Che un simile modo di vedere sia predicato da tutti i partiti e da tutte le sette, che non hanno ancora nelle mani il potere, lo si comprende benissimo; perchè l'istinto del proprio interesse le deve indurre a professare questa opinione; ma la stoltezza incomincia quando essa è accettata dagli altri. Quid est veritas? diceva Pilato, e noi cominciamo col domandare che cosa sia una dottrina vera e una dottrina falsa? Scientificamente parlando, tutte le dottrine religiose, anche quelle più diffuse, sono false, e certo non si sosterrà che il Maomettismo, ad esempio, che ha conquistato tanta parte del mondo, sia fondato sulla verità scientifica. È quindi molto più esatto il dire che vi sono dottrine le quali soddisfano i sentimenti più sparsi e radicati nei cuori umani e che quindi hanno una gran forza di diffusione, e dottrine le quali posseggono in minor grado la qualità accennata, e che quindi, benchè dal lato intellettuale possano essere più accettabili, si diffonderanno meno. E, se si vuole, si possono anche distinguere le dottrine la cui diffusione è giovevole agli interessi della civiltà e della giustizia e produce una maggior somma di pace, di moralità, di benessere, dalle dottrine colle quali si può ottenere un effetto contrario; le quali pur troppo non sono quelle che sempre presentano meno i caratteri della diffusibilità. Noi, ad esempio, crediamo che la democrazia sociale minacci l'avvenire della civiltà moderna, eppure bisogna riconoscere che essa si fonda sul sentimento della giustizia, sulla invidia e sulla sete dei godimenti; qualità così diffuse negli uomini, specialmente in quelli presenti, che sarebbe errore grandissimo negare alle dottrine socialiste una gran forza di propaganda.

Si rammenta sempre l'esempio del Cristianesimo che trionfò malgrado le persecuzioni, e del liberalismo moderno che vinse i tiranni che lo comprimevano. Ciò dimostra soltanto che una persecuzione condotta male non può bastare a tutto, e che vi sono forse dei casi in cui la forza stessa non basta ad arrestare una corrente d'idee; ma l'eccezione non può servire di fondamento ad un principio generale. La verità è che quasi sempre se le persecuzioni mal fatte, tardivamente intraprese, condotte con mollezza ed oscitanza, possono anche giovare al trionfo di una dottrina, la persecuzione spietata, energica, che colpisce la dottrina avversaria appena essa si manifesta, è il modo più adatto per combatterla.

Il Cristianesimo non sempre nell'impero romano fu perseguitato energicamente, ebbe lunghi periodi di tolleranza, e le persecuzioni stesse furono di frequente parziali, limitate cioè in qualche provincia; infine non trionfò definitivamente se non quando un imperatore, che aveva in mano la forza costituita, cominciò a favorirlo. Similmente la propaganda liberale non solo non fu ostacolata, ma fu quasi aiutata dai governi dalla metà del secolo decimottavo fino alla Rivoluzione francese. Combattuta in seguito con intermittenza e non mai contemporaneamente in tutto il mondo europeo, trionfò quando i Governi stessi si convertirono o furono colla forza, interna od esterna, abbattuti.

Di fronte a questi due esempi dubbi quanti altri ve ne sono decisamente contrari. Lo stesso Cristianesimo nei suoi inizi difficilmente si diffuse fuori dei confini dell'impero romano; in Persia, ad es., non fu accolto, non solo perchè trovò ostacolo nella religione nazionale, ma anche perchè vi fu energicamente perseguitato. Colla spada e col fuoco Carlo Magno, durante lo spazio di una generazione, lo impiantò fra i Sassoni. L'evangelizzazione dell'impero romano avea richiesto secoli; pochi anni bastarono a quella di molti paesi barbari, perchè una volta convertiti i Re ed i grandi, il popolo in massa chinava la cervice al battesimo. In questo modo molto spiccio la croce fu impiantata nei diversi regni anglo-sassoni, in Polonia, in Russia, nei paesi scandinavi ed in Lituania. Nel secolo decimosettimo la religione cristiana fu quasi spenta nel Giappone mediante una persecuzione spietata e quindi efficace. Colla persecuzione il Buddismo fu sradicato dall'India sua patria, il Mazdeismo dalla Persia dei Sassanidi ed il Babismo dalla Persia moderna, la nuova religione del Taeping dalla China. Mercè la persecuzione sparirono gli Albigesi dalla Francia meridionale ed il Maomettismo ed il Mosaismo furono sbarbicati dalla Spagna e dalla Sicilia. La Riforma religiosa in fondo non trionfò che in quei paesi in cui fu appoggiata dai Governi ed in qualche caso da una rivoluzione vittoriosa. La stessa rapida diffusione del Cristianesimo, che si attribuisce a miracolo, è nulla di fronte a quella ben più rapida del Maomettismo. Il primo in tre secoli si estese per tutto il territorio dell'impero romano; il secondo in soli ottanta anni allargò i suoi confini da Samarcanda ai Pirenei. Ma il primo agiva unicamente colla predicazione e la persuasione, il secondo impiegava a preferenza la scimitarra.

Del resto il fatto che tutti i partiti politici e tutte le credenze religiose tendono ad esercitare un'influenza su chi comanda, e, quando possono, a monopolizzare il comando, è la miglior prova che essi, anche se non lo confessano apertamente, hanno l'intima convinzione che il disporre di tutte le forze più efficaci di un organismo sociale, e specialmente di uno Stato burocratico, sia il modo migliore per diffondere e sostenere le loro dottrine.

XI. — Indipendentemente dall'uso della forza materiale, sugli altri modi che usano le varie religioni ed i partiti politici per attirare le turbe, per conservare sopra di esse il predominio e sfruttarne la credulità, ci sono da fare osservazioni analoghe a quelle che abbiamo già fatte, relativamente alla necessità che hanno i fondatori di dottrine e le dottrine stesse di adattarsi ad una certa mediocrità morale. I seguaci di ogni sistema politico o religioso usano su questo riguardo rilevare accuratamente le pecche degli avversari, avendo la pretensione di esserne mondi, ma in fatti tutti sono, con molte gradazioni è vero, più o meno intinti della stessa pece. In verità, come abbiamo già accennato, si può essere perfettamente morali finchè non si viene in contatto cogli altri uomini e sopratutto finchè non si ha la pretensione di guidarli, ma quando si vuole dirigere la loro condotta, allora è necessario far giuocare tutte le loro molle sensibili, sfruttare tutte le loro debolezze, e chi volesse soltanto fare appello ai loro sentimenti generosi sarebbe assai facilmente vinto da altri meno scrupoloso. Gli Stati non si governano coi paternostri, diceva Cosimo dei Medici (il padre della patria): ed invero è difficile assai il condurre le moltitudini secondo certe vedute, quando non si sa all'occorrenza lusingare le passioni, soddisfare fantasie ed appetiti ed incutere paura [206].

A guardarci bene si vede che le arti usate per adescare le turbe, in tutti i tempi ed in tutti i luoghi, hanno avuto ed hanno una grande analogia, perchè è occorso sempre di mettere a profitto le stesse debolezze umane. Tutte le religioni, anche quelle che rinnegano il soprannaturale, hanno il loro speciale stile declamatorio, con cui si fanno le prediche, i discorsi od i sermoni; tutte hanno per colpire la fantasia il loro rituale a le loro pompe esteriori; le processioni alcune le fanno coi ceri e salmodiando litanie, altre dietro le bandiere rosse al suono della marsigliese o cantando l'inno dei lavoratori.

Religioni e partiti politici mettono ugualmente a profitto i vanitosi e creano per loro gradi, uffici e distinzioni, ed ugualmente sfruttano i semplici e gli ingenui e gli avidi di sacrificio o di notorietà per creare il martire, e, una volta ottenuto il martire, hanno cura di mantenerne vivo il culto, che serve tanto a rafforzare la fede. Altra volta nei conventi si soleva scegliere il più baccellone dei frati e lo si accreditava come santo, attribuendogli anche miracoli, e ciò allo scopo di aumentare la celebrità e quindi la ricchezza e l'influenza del sodalizio, le quali erano sapute ben adoperare da coloro che aveano diretto la commedia. Ai giorni nostri sette e partiti politici sono abilissimi nel creare l'uomo superiore, l'eroe leggendario, il carattere che non si discute, il quale serve anche esso a mantenere il lustro della congrega e procaccia ricchezze e potere ai furbi che ne fanno parte. Quando il conte zio rammentava al padre provinciale dei cappuccini le marachelle che il padre Cristoforo avea commesse in gioventù: è la gloria dell'abito, rispondeva di botto il padre provinciale, che uno, che al secolo ha potuto far dire di sè, con quest'abito indosso diventa tutt'altro [207]. Questa è senza dubbio risposta prettamente fratesca, ma agiscono peggio dei frati partiti e sette politiche, che, purchè i loro adepti siano fedeli alla bandiera, ne coprono e ne scusano le peggiori ribalderie. Per essi chiunque porta l'abito indosso diventa di botto tutt'altro.

Quel complesso di dissimulazioni, artifici e furberie, che va comunemente inteso col nome di gesuitismo, non è proprio soltanto dei seguaci di Loyola; forse questi ebbero l'onore di dargli il nome perchè lo coordinarono, lo perfezionarono e quasi lo costituirono a sistema; ma in fondo lo spirito gesuitico non è che una esagerazione dello spirito settario portato alle ultime conseguenze. Tutte le religioni e tutti i partiti, che, con più o meno sincerità iniziale d'entusiasmo, si sono prefissi di condurre gli uomini secondo un dato scopo, hanno, con maggiore o minor temperanza, usato modi analoghi a quelli dei Gesuiti e qualche volta forse anche peggiori. Il principio che il fine giustifica i mezzi si è adottato per il trionfo di tutte le cause e di tutti i sistemi sociali e politici; per tutti i partiti, come in tutti i culti, vige l'usanza di giudicare uomini grandi solo quelli che militano nelle loro file, gli altri tutti essendo bricconi o cretini; e, quando peggio non si può fare, si mantiene un ostinato silenzio sui meriti degli individui, che stanno fuori della chiesa o della chiesuola. Tutti i settari praticano l'arte di mantenere formalmente e letteralmente la parola data violandola nella sostanza; tutti conoscono il modo di torcere la narrazione dei fatti a loro profitto; tutti sanno trovare i caratteri semplici e timorati e conoscono le vie di cattivarsene la fiducia ed averne aiuti e sussidi per l'idea e per le persone che la rappresentano e ne sono gli apostoli. Pur troppo perciò anche se i Gesuiti sparissero il gesuitismo resterebbe; e basta guardarsi un poco attorno per essere convinti di questa verità [208].

XI. — È difficile assai che venga un giorno in cui le lotte e le gare fra religioni e partiti diversi debbano finire; ciò sarebbe possibile quando tutto il mondo civile appartenesse ad unico tipo sociale, ad unica religione, e non vi fossero più dispareri sul modo di raggiungere un miglioramento sociale. Or, senza accogliere le teorie di qualche autore tedesco che ammette la necessità dei partiti politici, perchè rispondono alle varie tendenze, che si manifestano nelle diverse età dell'uomo, noi possiamo facilmente constatare che qualunque nuova religione, qualunque nuovo indirizzo politico, che arrivano a raggiungere un certo successo, si suddividono ordinariamente in altre sette; nelle quali gli istinti della disputa e della lotta trovano il loro sfogo, e che combattono fra loro collo stesso zelo e lo stesso accanimento, che prima adoperavano contro le religioni ed i partiti avversari. I numerosi scismi e le eresie continuamente ripullulanti del Cristianesimo, del Maomettismo e di tante altre religioni, le divisioni che già nascono in seno alla democrazia sociale, ancor lontana dal suo trionfo, che forse non raggiungerà mai, provano la difficoltà straordinaria di attuare quell'universalità di un solo mondo morale ed intellettuale, alla quale abbiamo accennato.

Del resto, ammesso anche che essa si possa facilmente conseguire, non ci pare desiderabile: finora la libertà di pensare, osservare e giudicare serenamente e spassionatamente uomini e cose è stata possibile, sempre, s'intende, per pochi individui, solo in quelle società il dominio delle quali è stato conteso da diverse correnti religiose e politiche. Questa stessa condizione, abbiamo già visto al capitolo quinto, essere indispensabile quasi per ottenere quella maggior giustizia nei rapporti fra governanti e governati, che è compatibile coll'imperfetta natura umana, il che sarebbe ciò che comunemente viene inteso per libertà politica. Nelle società infatti nelle quali la scelta fra più correnti religiose e politiche non è più possibile, perchè una sola è riuscita ad imporsi esclusivamente, il pensatore isolato ed originale deve tacere, e, al monopolio morale ed intellettuale, si unisce infallibilmente quello politico a prò di una casta o di una sola forza sociale.

Base delle moderne dottrine massoniche è la credenza che l'uomo tende a divenire fisicamente, intellettualmente e moralmente sempre più sano ed elevato, e che solo l'ignoranza e la superstizione, che hanno generato le religioni dommatiche, lo hanno allontanato e lo allontanano dal seguire questa via, che sarebbe per lui la più naturale, e lo hanno spinto alle persecuzioni, alle stragi, alle lotte fratricide [209]. Un simile modo di vedere non ci pare accettabile. Quelle che ora molti chiamano superstizioni, tutte le religioni rivelate, non sono state certo insegnate all'uomo da un Ente extra-umano, ma furono create dagli uomini stessi e nella natura umana hanno trovato il loro alimento e la loro ragion d'essere. Esse non sono che solo in parte, e qualche volta minima, responsabili delle lotte, delle stragi e delle persecuzioni, dovute spesso più alle passioni degli uomini che ai dommi che le religioni insegnano. Anzi crediamo che la scusa dei tempi e dei fanatismi religiosi e politici non valga a togliere, innanzi la storia imparziale, che una piccola frazione della responsabilità individuale per gli eccessi di ogni genere; perchè in ogni tempo, in ogni religione, in ogni dottrina, ciascuno può e sa trovare quella tendenza, che alla sua indole è più confacente. E tanto ciò è vero che il Maomettismo non impedì a Saladino di essere umano e generoso anche cogli infedeli, come il Cristianesimo non mitigò la ferocia di Riccardo cuor di leone [210]; che la stessa religione, che diede Simone di Monfort e Torquemada, diede pure S. Francesco d'Assisi e Santa Teresa, che nello stesso anno 1793, in cui vissero ed operarono Marat, Robespierre e quel convenzionale Carrier, che a Nantes faceva annegare a migliaia i bambini dei Vandeisti, il capo vandeista Bonchamps, ferito, al letto di morte implorava ed otteneva la vita e la libertà di quattromila prigionieri repubblicani, che i suoi commilitoni volevano moschettare. Del resto lotte vivissime si sono avute, e persecuzioni e stragi, nell'ultimo secolo, si sono perpetrate in nome di altre dottrine, che non hanno alcun fondamento nel soprannaturale e proclamano la libertà, l'uguaglianza e la fratellanza di tutti gli uomini.

In verità il sentimento, che nasce spontaneo da una rapida e spregiudicata sintesi della storia dei popoli, è la compassione per le qualità contradittorie della povera razza umana: così ricca di abnegazione, così pronta alle volte al sacrificio individuale e nella quale, nello stesso tempo, ogni tentativo più o meno indovinato, e qualche volta non indovinato affatto, per raggiungere un miglioramento morale e quindi materiale, va unito allo sfrenarsi di odii, di rancori, delle passioni peggiori. Tragico destino quello degli uomini: i quali, pur aspirando sempre a conseguire ed attuare il bene, trovarono nello stesso tempo il modo di scannarsi e perseguitarsi a vicenda, fino a ieri, per l'interpretazione di un dogma o di un passo della Bibbia; hanno continuato a scannarsi ed a perseguitarsi oggi per inaugurare il regno della libertà, dell'uguaglianza e della fratellanza; e forse si scanneranno, si perseguiteranno, si martirizzeranno atrocemente domani, quando, in nome della democrazia sociale, si vorrà fare sparire dal mondo ogni traccia di violenza e d'ingiustizia.

 


 

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CAPITOLO VIII.
Le rivoluzioni.

I. Carattere delle rivoluzioni nelle città elleniche e nei Comuni medioevali. — II. Guerre civili e rivoluzioni in Roma antica, nell'Europa feudale e nei paesi maomettani. — III. Rivoluzioni in China. — IV. Insurrezioni di carattere nazionale. — V. Insurrezioni rurali in Europa. — VI. Rivoluzioni tipiche della Francia moderna. — VII. Condizioni per la riuscita di queste rivoluzioni.

I. — Abbiamo esaminato i modi come si formano e si affermano le correnti d'idee, di sentimenti e di passioni, che ordinariamente influiscono a mutare l'indirizzo delle società umane. Resta a vedere in qual maniera queste correnti riescano talora materialmente ad imporsi mediante l'uso della forza, cambiando anche gli individui che stanno al potere e facendo sì che essi rappresentino i loro principii. Simili mutamenti, nelle società che hanno raggiunto un certo sviluppo nella loro organizzazione, possono avvenire o per iniziativa o almeno col consenso di quella frazione della società, alla quale suole essere affidata la tutela di tutto il corpo politico e che, nei casi ordinari, ha il monopolio delle armi, oppure per opera di altri elementi e forze sociali, che quella frazione riescono a vincere. Allora ha luogo quel fenomeno, abbastanza frequente nella storia contemporanea, che comunemente chiamasi rivoluzione e che sarà ora nostro compito di brevemente analizzare.

I rivolgimenti dei piccoli Stati, nei quali l'organizzazione burocratica non esiste o è assolutamente embrionale, non hanno che un'analogia del tutto apparente con quelli dei grandi e sopratutto colle rivoluzioni moderne. Nell'antichità classica, ad esempio, quando un tiranno diveniva padrone di una città, oppure un'oligarchia si sostituiva alla democrazia, e spesso anche quando il tiranno o l'oligarchia venivano rovesciati, in fondo si trattava sempre di una cricca, più o meno numerosa, che, nella direzione della cosa pubblica, ne sostituiva un'altra. Quando lo Stato greco funzionava regolarmente, tutta la classe governante, cioè tutti coloro che non erano nè schiavi, nè stranieri domiciliati, nè operai manovali partecipavano alle funzioni politiche. Quando si stabiliva il regime tirannico, ovvero oligarchico, o anche quella degenerazione della democrazia che dicevasi oclocrazia, allora una frazione di questa classe usurpava per sè tutto il potere a detrimento dell'altra, che veniva in parte uccisa, in parte spogliata dei beni ed esiliata. Alla loro volta i vincitori dovevano temere le rappresaglie dei vinti, i quali se riuscivano a superarli li trattavano alla stessa maniera.

La lotta era quindi condotta a base di forza e di furberia, cogli assassinii e le sorprese, e le parti in lizza spesso ricorrevano all'appoggio degli stranieri o di qualche pugno di mercenari e, una volta vittoriose, usavano occupare la rocca e togliere le armi a tutti coloro che non erano fra i loro accoliti, e queste, essendo allora abbastanza costose, non si potevano facilmente rimpiazzare. Raro avveniva, come nel caso delle imprese condotte da Pelopida ed Epaminonda a Tebe e da Timoleone a Siracusa, che si profittasse della vittoria per stabilire un regime meno sanguinario e violento, ed in questo caso la benefica innovazione durava solo quanto l'influenza personale o la vita di colui, che ne era stato autore. Qualche altra volta invece la fazione usurpatrice riusciva a mantenersi al potere per più di una generazione, come avvenne per i Pisistraditi e per i due Dionigi. Agatocle, uno dei peggiori tiranni del mondo greco, morì vecchio ed era arrivato al potere da giovane, e pare che solo il veleno sia riuscito ad abbreviare la sua vita ed il suo governo.

Nei Comuni italiani, la cui organizzazione politica somigliava a quella della classica Grecia, rivissero le abitudini dell'antico Stato ellenico: una fazione con a capo un signore sbandiva gli avversari o li assassinava, e in tutti e due i casi s'impadroniva dei loro beni; spesso bisognava sopraffare per non essere sopraffatti. Ordinariamente le due famiglie più ricche e potenti del Comune se ne contendevano armata mano la supremazia; anche esse, come gli antichi capi-parte greci, appoggiandosi, quando potevano, agli aiuti stranieri ed ai mercenari. Così Torriani e Visconti si disputarono il possesso di Milano e la scena, con poche varianti, si ripetè nei Comuni minori. Paci, tregue, intenerimenti religiosi, provocati da frati e da cittadini dabbene, come quello che racconta il buon Dino Compagni [211], non ottenevano che un effetto momentaneo e, peggio ancora, spesso non erano che arti colle quali i più ribaldi sopraffacevano i meno malvagi assalendoli quando erano impreparati e indifesi.

Col Rinascimento i costumi si fecero meno armigeri, la lotta in campo aperto più rara, ma la perfidia ed il tradimento diventarono ancor più sottili e con il lungo uso furono quasi innalzati all'altezza di scienza. In qualche città prevalsero i così detti modi civili: in Firenze i potenti, ad esempio, si strinsero fra loro con parentadi, mantennero un certo equilibrio e conservarono la preponderanza riempiendo le borse (ora sarebbero le liste elettorali) con i loro clienti. Questa fu la politica che seguì l'oligarchia mercantile con a capo gli Albizzi finchè fu vivo Niccolò d'Uzzano e quella che seguì Cosimo dei Medici coi suoi consorti, sebbene, all'occorrenza, sapesse usare altri mezzi [212]. Altrove, nelle Romagne e nell'Umbria, le lotte si prolungarono fin dopo il 1500, come tra veri masnadieri. A Perugia gli Oddi, cacciati dai Baglioni, li sorpresero di notte; ma i Baglioni combatterono perfino in camicia e non si fecero sopraffare; vittoriosi poi si sterminarono fra di loro. Oliverotto da Fermo ottenne la signoria della sua città trucidando, a capo della sua compagnia di ventura, suo zio ed i maggiorenti del luogo, che l'avevano invitato ad amichevole banchetto.

Tanto nelle lotte civili delle città greche, quanto in quelle dei Comuni italiani, la temperanza e l'umanità poco potevano giovare, la prevalenza dovea ordinariamente restare ai più pronti ed ai più furbi, a coloro che meglio sapevano fingere e meno pativano di scrupoli. Anche il caso fortuito avea una gran parte nella buona riuscita di un'impresa e si raccontano in proposito molti episodi romanzeschi. Un cane che latrava, un'ubbriacatura presa qualche ora prima o dopo, una lettera letta a tempo o rimandata chiusa per l'indomani, decidevano del successo di un colpo di mano; come avvenne quando Epaminonda e Pelopida s'impadronirono di Tebe ed Arato di Sicione. È da notare poi che, tanto le lotte civili che tormentarono gli Stati greci, quanto quelle che dilaniarono i Comuni italiani non contribuirono sensibilmente a maturare alcun vero cambiamento sociale. Mutavano i governanti, ma la società, chiunque trionfasse, rimaneva quasi sempre organizzata alla stessa maniera. I grandi fattori storici, la scienza e l'arte ellenica, l'emancipazione dei servi della gleba, il rinascimento artistico e letterario, si svolsero indipendentemente dalle gare sanguinose, che turbarono la Grecia e l'Italia. Tutto al più le guerre civili non poterono influire che a ritardarne lo sviluppo, simili in ciò alle guerre esteriori, alle fami, alle pestilenze, che impoverendo od abbattendo un paese ne ostacolano sempre i progressi economici ed intellettuali.

Qualunque scienza politica, basata poi esclusivamente sull'osservazione dei periodi storici ai quali abbiamo accennato, non potea riuscire che incompleta e superficiale. E tale è appunto quella che si rivela nella famosa opera di Machiavelli intitolata il Principe, troppo vituperata, troppo lodata, ed alla quale in ogni caso si è attribuita soverchia importanza. Al giorno d'oggi un osservatore, che tenesse mente al modo come nelle Borse, nelle Società anonime, e nelle Banche si fanno e si disfanno le fortune private, potrebbe facilmente scrivere un libro sull'arte di arricchirsi, nel quale dovrebbe probabilmente dare consigli tali sui modi di parere onesto e di non esserlo e di rubare scansando la Corte d'assise, da far diventare facezie innocenti i precetti che si trovano nel libro del segretario fiorentino. Ma, l'abbiamo già accennato [213], un simile lavoro non farebbe parte della scienza economica, come l'arte di arrivare al potere e restarci, in date condizioni sociali, non è la scienza politica. E che non si tratti di scienza, cioè di grandi leggi psicologiche che si ritrovano in tutte le grandi società umane, è provato dal fatto che i suggerimenti del Machiavelli potevano giovare forse a Ludovico il Moro od a Cesare Borgia, come probabilmente avrebbero servito a Dionigi, ad Agatocle ed a Giasone di Fere, ai dey di Algeri, ad Alì Tebelen ed anche a Mehemet Alì, quando questi esclamava che l'Egitto era all'asta e sarebbe rimasto a colui che avrebbe speso l'ultima somma e dato l'ultimo colpo di sciabola; ma agli uomini politici dell'Europa moderna od a quelli della Repubblica romana avrebbero apportato un sussidio molto scarso. Sebbene, a scanso di equivoci, convenga confessare che la rettitudine, l'abnegazione e la buona fede forse in nessun luogo ed in nessun tempo siano state e siano le qualità più adatte per conseguire il potere e conservarlo [214].

Dopo quanto abbiamo già esposto non occorre neppure di far rilevare che negli Stati moderni, di organizzazione molto complicata, assai più vasti degli antichi e poggiati sulla burocrazia e gli eserciti stanziali, è impossibile compire le rivoluzioni mediante uno o più colpi di pugnale od organizzando bene una sorpresa od un'imboscata: perciò i rivoluzionari moderni inspirandosi a quelli classici commettono un grossolano anacronismo. Ciò non vuol dire però che le reminiscenze classiche siano affatto inutili, perchè esse sono sempre molto adatte a riscaldare i cervelli dei giovani ed a mantenere l'ambiente rivoluzionario, e, fin dall'epoca del Rinascimento, furono in questo senso abilmente sfruttate [215]. Se il regicidio infatti ora non basta a rovesciare un Governo, l'assassinio politico può sempre servire a spargere la titubanza ed il terrore nei capi della classe governante ed a renderne meno energica l'azione; inoltre, siccome quasi tutti gli assassini politici soccombono nell'esecuzione delle loro imprese, così diventano martiri di un'idea, ed il culto che loro si viene a tributare è uno dei mezzi meno onesti, ma non meno efficaci, per mantenere una propaganda rivoluzionaria.

II. — Roma repubblicana fu in complesso lo Stato antico in cui la difesa giuridica fu meglio assicurata e le lotte civili perciò meno sanguinose e più rare. Durante i lunghi contrasti fra patrizi e plebei, nel foro non mancarono i tumulti e qualche volta si trascorse anche fino alle pugnalate, qualche altra volta accadde che una mano di facinorosi occupasse di sorpresa il Campidoglio, ma, per secoli interi, non ci furono fazioni che usurpassero violentemente il potere trucidando ed esiliando gli avversari. Quando furono uccisi i Gracchi per ben due volte lo svolgersi legale delle votazioni fu impedito col sangue, e quando poi fu violentemente rivocata la deliberazione dei comizi, che affidava il comando della guerra d'Asia a Silla, avvenne che questi, con esempio nuovo, entrasse in città a capo di un esercito. Giacchè le legioni, militando lungamente fuori d'Italia, aveano acquistato il carattere di eserciti stanziali ed erano divenuti tali da potere essere strumenti ciechi in mano dei loro capi. Sicchè fra eserciti regolari si combatterono poi le guerre civili, ed il capo dell'ultimo esercito che in queste guerre fu vittorioso, Ottaviano Augusto, mutò stabilmente la forma di governo e diè principio alla monarchia burocratica e militare. D'allora in poi le soldatesche regolari si arrogarono il diritto di mutare non già la forma, ma il Capo del Governo.

Nell'Europa feudale, ed in generale in tutti i popoli feudalmente organizzati, le lotte civili e le rivoluzioni assunsero ed assumono sempre il carattere di guerre fra le fazioni in cui si dividevano o si dividono i baroni o capi locali. Cosi avveniva che in Germania all'elezione di un nuovo imperatore spesso si formassero fra i baroni e le città libere due partiti, che si combattevano a vicenda, ognuno seguendo il sovrano di sua scelta che proclamava legittimo. Altrove, come in Sicilia all'epoca delle lotte fra la nobiltà latina e la catalana, le parti contendenti si disputavano il possesso della persona del Re o del principe o principessa ereditaria, giacchè questo possesso dava il modo ad una fazione di mettersi sotto lo scudo della legittimità e di proclamare ribelli e felloni gli avversari. Per analoghe ragioni in Francia Borgognoni ed Armagnacchi si contendevano il possesso della persona del Re o del Delfino. Altre volte i baroni si schieravano sotto gli stendardi di due dinastie rivali, come avvenne in Inghilterra durante la guerra delle due Rose. Quando poi tutta o quasi tutta la nobiltà si sollevava unanime contro un sovrano, allora la rivoluzione era presto compiuta ed il Re veniva agevolmente sbalzato e ridotto all'impotenza; quest'ultimo caso, non raro in tutti i regimi feudali, accadde con una certa frequenza nella Scozia.

Come nelle lotte civili degli Stati greci e dei Comuni italiani, così pure in quelle intestine fra i baroni dello stesso regno, la parte vincitrice soleva, quando ciò era possibile, spossessare i vinti dei loro feudi, che distribuiva fra i suoi accoliti. Se gli assassinii e sopratutto gli avvelenamenti erano più rari, ai vinti, quando non perivano sul campo di battaglia, sovrastava spesso la scure del carnefice. Tutta la nobile famiglia Chiaramonti perì a Palermo sul palco fatale; sul palco e sui campi di battaglia fu sterminata quasi tutta la vecchia nobiltà inglese durante le successive vittorie e sconfitte delle due case di Yorck e di Lancaster. In Francia parecchi capi Armagnacchi furono assassinati, altri uccisi a furor di popolo dalla plebe di Parigi, ed assassinato alla sua volta moriva Giovanni senza paura duca di Borgogna.

Nei paesi maomettani, non tenendo conto degli intrighi di serraglio, che producono la deposizione e la morte di un sultano e ne elevano un altro, le rivoluzioni propriamente dette, mentre da un lato hanno molta analogia con le lotte che si combattevano nell'Europa feudale, dall'altro racchiudono spesso i germi di un movimento, che ora chiameremmo socialista, nascosto e dissimulato da una riforma religiosa. Difatti, malgrado che gli sforzi di molti sovrani orientali ed africani per circondarsi di truppe regolarmente assoldate siano alle volte abbastanza riusciti, pure, nella maggioranza delle popolazioni musulmane, specialmente in quelle che abitano la campagna e che menano una vita più pastorale che agricola, l'antichissima organizzazione delle tribù si è conservata, e l'insurrezione dei capi di esse, come quella dei baroni europei, per sostenere un pretendente al trono od i diritti di una nuova dinastia è rimasta sempre un fatto possibile. Fra le tribù stesse poi può sempre sorgere un novatore, il quale pretenda di ricondurre l'Islam alla primitiva purezza e predichi una riforma religiosa, ed allora, se la sua propaganda è seguita dal successo, si ha la rivoluzione religiosa e sociale.

Giacchè nei paesi orientali ed anche nel nord dell'Africa, se non vi è la lotta di classe fra capitalisti e proletari, che si vorrebbe inaugurare nell'Europa moderna, si è mantenuto per diecine di secoli e dura sempre il sordo antagonismo fra le tribù povere e brigantesche del deserto e della montagna e quelle più ricche, che abitano i fertili piani, e più ancora fra le prime e le imbelli e doviziose popolazioni delle città. Nè si può dire che l'Islam non offra appiglio al risorgere del vecchio spirito egalitario dispregiatore delle ricchezze e dei godimenti, che già troviamo in alcuni profeti ebraici, in Isaia ed in Amos il mandriano di Tecoa. Se Maometto non disse che era più facile che un camello passasse attraverso la cruna di un ago anzichè un ricco andasse in Paradiso, era però assai amante della semplicità dei costumi, e delle gioie di questo mondo non pregiava che le donne ed i profumi. Una volta che si presentarono a lui come ambasciadori ottanta cavalieri dei Beni-Kende, tribù recentemente convertita all'Islamismo, in magnifico arnese con abiti di seta, egli fece subito loro osservare che la nuova religione non permetteva il lusso, e quelli stracciarono subito le ricche vestimenta [216]. Il secondo califfo Omar, che conquistò tante terre e tanti tesori, desinava frugalmente per terra, e, quando morì, lasciò per eredità personale un solo abito e tre dramme.

Così si spiega facilmente come nella Barberia, durante l'undecimo e dodicesimo secolo, le vecchie dinastie arabe venissero vinte e spossessate dalla riforma religiosa degli Almoravidi, che alla loro volta furono rovesciati da una nuova riforma religiosa, detta degli Almohaidi. In tutti e due i casi le tribù del deserto o della montagna caldeggiarono le dottrine riformatrici e si sovrapposero alle popolazioni più colte e più ricche del Tell o zona marittima. Elementi consimili si possono facilmente trovare nella setta dei Wahabiti dell'Arabia e nelle più recenti fortune del Mahadismo dell'alto Nilo. Va da sè che come i prischi Saraceni, una volta padroni delle ricche contrade della Siria, della Persia e dell'Egitto, dimenticarono la frugalità dei Sarabehoni, ossia degli uomini che avevano conosciuto il Profeta, qualcuno dei quali nella sua vecchiaia ebbe campo di scandalizzarsi per il fasto spiegato dai califfi Ommiadi di Damasco, che fu poi superato dai califfi Abbassidi di Bagdad; così anche nel caso degli Almoravidi ed Almohaidi, la natura umana presto trionfò dell'ardore settario. Anche questi infatti, una volta in possesso delle reggie di Fez e di Cordova, obliarono la vita semplice che avevano praticato e predicato negli altipiani al di là dell'Atlante, ed adottarono tutte le raffinatezze del lusso orientale. Se risultati perfettamente identici non hanno dato i Wahabiti, i Mahdisti ed altre sette maomettane, ciò è avvenuto per la minor fortuna che finora esse hanno avuto.

III. – In China le rivoluzioni ed i rivolgimenti violenti non sono stati rari, ci riesce però ancora difficile di apprezzare le cause sociali di quelli molto antichi. Sappiamo che l'Impero Celeste è passato attraverso regimi economici e politici diversi, che da Stato feudale, che era prima, è diventato uno Stato burocratico; a seconda di questi cambiamenti hanno dovuto, certo cambiare i motivi e le forme delle ribellioni.

Ci è noto questo: che, quando l'educazione di una dinastia era molto decaduta, quando principi fiacchi facevano governare le donne e gli eunuchi o perdevano il tempo a cercare la bevanda dell'immortalità, e gli abusi dei funzionari oltrepassavano certi limiti, allora qualche governatore ribelle o qualche ardito avventuriero, posti a capo di bande d'insorti, battevano qualche volta le truppe del Governo, aiutati dall'universale malcontento, spossessavano la vecchia e fondavano una nuova dinastia. La quale conservava una maggiore energia per qualche generazione, finchè anch'essa s'infiacchiva e di nuovo si accentuavano gli antichi abusi.

Le invasioni dei barbari del settentrione e dei Tibetani occasionarono ed agevolarono spesso questi cambiamenti. Quando poi il paese intiero cadde sotto la dominazione dei Mongoli, col tempo maturò una di quelle potentissime reazioni dello spirito nazionale, che spesso si accentuano fra i popoli di antica civiltà, come avvenne nell'antico Egitto colla cacciata degli Hiqsos, e come in questo secolo è accaduto in Grecia ed in Italia. Alla fine del secolo decimoquarto un gruppo di uomini entusiasti ed energici, con a capo il bonzo Rong-ou [217], sollevò lo stendardo della rivolta contro i Mongoli ed, aiutati dall'esplosione del sentimento nazionale, che avvenne in tutta la China, riuscirono a ricacciare i barbari al di là della grande muraglia. Rong-ou fu il fondatore della dinastia dei Ming, che governò il paese fino allo scorcio del secolo decimosettimo.

Durante il secolo decimonono la China, diventata uno Stato quasi completamente burocratizzato, ebbe un'altra rivoluzione che, sebbene non sia riuscita, pure merita di essere ricordata, ed è importante sopratutto per l'analogia che offre con quella che aveva messo sul trono il bonzo Rong-ou. In seguito al disordine che la guerra cogli Inglesi, terminata cogli svantaggiosi trattati del 1842 e 1844, produsse in tutto l'impero, una rivolta contro la dinastia straniera dei Tartari Manschù scoppiò nelle vicinanze di Nankin, l'antica capitale dei Ming, il cuore del nazionalismo chinese. La cacciata dello straniero e la fondazione di una nuova religione, nella quale i dommi del Cristianesimo erano curiosamente mescolati ed adattati alle idee filosofiche ed alle superstizioni popolari dei Chinesi, fornirono la base morale della rivoluzione. Un maestro di scuola, letterato d'infima classe, una specie di spostato, che rispondeva al nome di Rong-Sieou-Tsien, ne fu il capo supremo: attorno a lui un gruppo di uomini energici, intelligenti, ambiziosi ne secondarono i primi movimenti e lo aiutarono tanto nell'escogitare il sistema religioso e filosofico accennato, quanto nel dirigere le prime imprese dell'insurrezione.

La macchina burocratica chinese era allora profondamente scossa per le sconfitte toccate e la inferiorità manifestata di fronte agli Europei, i popoli erano malcontenti, sicchè i primi successi dei ribelli furono rapidissimi. Entrati in Nankin nel 1853, essi vi proclamarono il Taè-ping, cioè l'êra della pace universale [218], e nello stesso tempo Rong-Sieou-Tsien, che certo non era un uomo volgare, fu assunto al grado di Imperatore Celeste e capo-stipite della nuova dinastia nazionale. Siccome però, anche in China, la forza bruta necessaria alla riuscita delle rivoluzioni si trova a preferenza nella feccia della società, i gregari dell'esercito che dovea inaugurare la pace universale si reclutarono a preferenza fra i soldati disertori, i delinquenti sfuggiti alla giustizia, e, in generale, fra tutti i vagabondi e gli spostati, che abbondano nelle grandi città tanto chinesi che europee. Ben tosto i capi furono impotenti a frenare gli eccessi dei loro seguaci, e le bande del Taè-ping portarono dappertutto il saccheggio, la desolazione, la strage. Le mosse stesse della insurrezione non furono più dirette da un pensiero politico, ma dalla libidine del furto e del sangue, ed i paesi che essa dominava subirono tutti gli orrori di una vera anarchia.

La nuova guerra coll'Inghilterra e colla Francia scoppiata il 1860 e la insurrezione dei Maomettani del nord-ovest prolungarono per parecchi anni questo stato di cose, ma appena il Governo chinese, liberatosi in parte dai suoi imbarazzi, potè spedire forze considerevoli contro i ribelli, questi, che omai aveano perduto interamente la simpatia delle popolazioni, si trovarono ridotti a mal partito. Nankin fu accerchiata, quasi tutti i primi compagni di Rong-Sieou-Tsien, i soli capaci di vedute politiche e larghi concetti, erano periti, e questi, attorniato da una massa raunaticcia pronta a saccheggiare come a tradirlo, disperando di resistere ancora, si avvelenò nel suo palazzo il 30 giugno 1864. Venti giorni dopo le truppe imperiali, padrone di Nankin, decapitavano il giovane figlio del defunto capo dei ribelli, e soffocavano atrocemente nel sangue una rivolta che tra il sangue si era mantenuta [219].

Adunque, anche nel Celeste Impero, come nei paesi maomettani e come in gran parte è accaduto in Europa, l'idealità della concezione politica, in nome della quale nacque la rivoluzione, si turbò e si perdette quasi interamente appena si entrò nel periodo della sua attuazione.

Ed un altro punto di contatto possiamo trovare fra la insurrezione del Taè-ping e quelle europee nel fatto che anche in China il movimento rivoluzionario fu preceduto e preparato dalle società secrete. Infatti, fin dal secolo decimottavo, si è avvertita colà l'opera di associazioni occulte, che mantengono vivo il malcontento del popolo l'odio contro la dinastia straniera [220]. Esse del resto sono sopravvissute alla rivolta, che avevano contribuito a suscitare. Pare anzi che all'opera loro si debbano gli assassinii di parecchi europei, diretti a suscitare al Governo di Pechino imbarazzi colle Potenze occidentali, e che a queste società siano affiliati, proprio come accade in paesi molto più noti della China, patrioti ardenti e disinteressati, malfattori che del legame settario si valgono per procacciarsi l'impunità, e perfino funzionari che ne approfittano alle volte per far carriera.

IV. — Fra le rivoluzioni europee hanno un carattere speciale quelle che rappresentano la reazione di un popolo sottomesso verso il popolo oppressore. Tali furono l'insurrezione della Svezia contro la Danimarca sotto Gustavo Wasa, quella dell'Olanda contro la Spagna, della Spagna stessa contro la Francia nel 1808, della Grecia contro la Turchia, dell'Italia contro l'Austria, della Polonia contro la Russia. Queste insurrezioni somigliano più alle guerre esteriori fra due popoli anzichè alle lotte civili, e sono quelle che più facilmente riescono. Oggi però coi grossi eserciti stanziali che abbiamo, il popolo che insorge, per avere forti probabilità di vittoria, deve già godere di una semi-indipendenza, in maniera che una parte di esso sia militarmente bene organizzata.

Nella Spagna nel 1808, oltre alle famose guerrillas, anche gli eserciti regolari presero parte attivissima a favore dell'insurrezione; in Italia al 1848 l'esercito piemontese ebbe la parte principale nella lotta contro lo straniero, e le truppe regolari del Piemonte insieme agli alleati francesi diedero nel 1859 i colpi che decisero della sorte della penisola. Anche la Polonia, nel 1830 e 31, potè lottare quasi un anno contro il colosso russo, perchè esisteva fino allora un esercito polacco, che sposò la causa nazionale. L'insurrezione del 1863 e 1864 condotta da sole bande irregolari ebbe infatti risultati assai meno importanti e fu repressa mercè sforzi assai minori.

Nella stessa classe di rivoluzioni va messa quella degli Stati Uniti contro l'Inghilterra. Si sa che le colonie anglo-americane godevano, anche prima del 1776, una larghissima autonomia; sicchè quando si strinsero in confederazione e proclamarono l'indipendenza, poterono facilmente, un po' colle antiche milizie dei vari Stati, un po' coi volontari, organizzare una forza armata colla quale tennero in bilico le truppe mandate dalla madre patria a soggiogarli, finchè, soccorsi dalla Francia, riuscirono ad emanciparsi interamente.

Quando scoppiò la rivoluzione inglese del 1643 l'Inghilterra non era ancora uno Stato burocratico, ed il Re Carlo I non poteva disporre che di uno scarsissimo esercito stanziale. Sicchè dalla parte del Parlamento combatterono in principio le milizie dei Comuni, dalla parte del Re sostennero principalmente il peso della lotta i nobili di campagna, ossia i Cavalieri.

Questi erano assai più esercitati nelle armi e furono sulle prime facilmente vittoriosi, ma quando Cromwell seppe formare pria un reggimento e poi un esercito di truppe stanziali e disciplinate, allora la lotta non fu più possibile; ed alla testa di quell'esercito il lord protettore non solo vinse i Cavalieri, ma sottomise la Scozia e l'Irlanda, tenne a posto i Livellatori, mandò a casa poco garbatamente il lungo Parlamento e divenne il padrone assoluto delle isole britanniche. Certo la memoria di questi fatti per lungo tempo rese diffidenti gl'Inglesi, amanti delle costituzionali franchigie, verso le truppe stanziali; essa fece sì che si lasciassero mancare a Carlo II e Giacomo II i mezzi per mantenere un grosso esercito stanziale, che si cercassero tutti i modi di tenere esercitate le milizie delle contee, e che si costringesse lo stesso Guglielmo d'Orange a rinviare nel continente, con suo grande rammarico, quei vecchi reggimenti olandesi alla testa dei quali aveva rovesciato l'ultimo degli Stuardi.

V. — Altro fenomeno sociale importante troviamo nelle insurrezioni contadinesche piuttosto frequenti in diverse contrade di Europa nella seconda metà del secolo decimottavo e nella prima metà di quello decimonono. Tali furono, a tacere di quelle che scoppiarono in Russia al principio dell'impero di Caterina II, sotto colore di rimettere sul trono diverse persone che si spacciavano per lo Czar Pietro III morto assassinato, e di quella spagnuola del 1808 alla quale prese parte tutta la nazione, la grande insurrezione della Vandea nel 1793, quella del Napoletano nel 1799 contro la repubblica partenopea, l'altra dei calabresi contro Giuseppe Bonaparte del 1808, quella del Tirolo nel 1809 e le diverse insurrezioni carliste della Biscaglia e della Navarra.

Il Macaulay, parlando della insurrezione rurale che fu capitanata da Moumouth all'epoca di Giacomo II, osserva che essa fu possibile, perchè allora in Inghilterra i contadini erano tutti un po' militari. E veramente una seria insurrezione delle plebi agricole è solo possibile dove esse hanno una certa abitudine alle armi; o almeno dove la caccia, o il brigantaggio, o le lotte di famiglia e di campanile mantengono la famigliarità coi colpi di fucile.

Nella Russia i moti che abbiamo già accennati, dei quali il più importante venne capitanato da Pugatcheff, furono una conseguenza dell'odio che i contadini, i cosacchi, e tutti gli scorridori abituati alla libertà della steppa, nutrivano per l'accentramento burocratico, che allora si andava accentuando e contro gli impiegati tedeschi, che di questo accentramento erano ritenuti principali autori. Però gl'insorti mantennero sempre un carattere, che ora si direbbe lealista, perchè sostenevano che il vero Czar si trovava nel loro campo, e che la Czarina, che risiedeva a Pietroburgo ed a Mosca, era una usurpatrice. Sentimenti, da un lato conservatori e dall'altro lato avversi alla soverchia ingerenza dello Stato, troviamo anche in tutte le insurrezioni contadinesche, generalmente avvenute quando i partiti novatori trionfanti, in nome della civiltà e del progresso, hanno voluto imporre sacrifici nuovi. I Vandeisti, infatti, per quanto malcontenti della Repubblica che perseguitava i loro curati, benchè irritatissimi per il supplizio di Luigi XVI, si sollevarono in massa soltanto nel marzo 1793 quando la Convenzione decretò una leva generale. I contadini del Napoletano nel 1799, oltrechè lesi dai novatori nelle loro abitudini e nelle loro credenze, furono dalle truppe francesi taglieggiati e saccheggiati in malo modo. Nella Spagna nel 1808, oltre al sentimento cattolico e nazionale altamente offeso, dicevasi e credevasi che gl'invasori francesi venissero provveduti di gran numero di manette, che dovevano servire a condurre fuori del paese tutta la gioventù destinata ad essere arruolata negli eserciti napoleonici [221]. Nella Biscaglia e nella Navarra spagnuola le diverse insurrezioni carliste sono state in gran parte causate dalla gelosia colla quale queste provincie hanno tutelato il mantenimento degli antichi fueros, che loro assicuravano molte immunità rispetto ai pubblici pesi ed un'amministrazione locale quasi indipendente.

I primi capi delle insurrezioni rurali sogliono essere per cultura e condizione sociale di poco superiori ai contadini. Il famoso cabecilla spagnuolo Mina era un mulattiere; nel Napoletano al 1799 il solo Rodio era un leguleio di provincia, ma Pronio, Mammone e Nunziante facevano prima i mugnai o i sotto-ufficiali. Andrea Hoffer, il capo della insurrezione tirolese del 1809, era un agiato oste: i moti iniziali dell'insurrezione vandeista furono diretti dal barbiere Gaston, dal vetturale Cathelinau e dal guardacaccia Stofflet. Se però le classi superiori aderiscono all'insurrezione, dando ad essa forza e consistenza, presto sorgono altri capitani di una condizione sociale superiore. Fu così che in Vandea i contadini andarono ai castelli dei signori, naturalmente esitanti perchè capivano meglio le difficoltà dell'impresa, e li persuasero o li costrinsero quasi a mettersi alla loro testa. Così furono trascinati nell'azione i gentiluomini Lescure, Bonchamps, Larochejacquelin e Charette. Quest'ultimo, freddo, astuto, di un'attività e di un'energia indomabili, spiegò subito tutte le doti di un perfetto capoparte; sicchè, invece di frenare gli eccessi dei suoi seguaci, fece loro commettere tutte le vendette che vollero, al fine di comprometterli e legarli irrevocabilmente alla causa della ribellione. Fra i capi delle rivolte rurali e conservatrici il solo che possa essere paragonato a lui è il biscaglino Zumalacarreguy, capo supremo della prima insurrezione carlista, che anch'egli era un piccolo gentiluomo campagnuolo.

Un carattere comune alle insurrezioni conservatrici dei contadini, come a quelle che in nome della libertà e del progresso si fanno nelle grandi città, è il seguente: per poco che esse durino presto si forma una classe di persone che vi prende gusto ed ha interesse a continuarle. Il primo movimento può avere un carattere di universalità, ma ben tosto nella massa si distinguono coloro che, una volta lasciate le abituali occupazioni, non vogliono tornarvi, perchè sentono svilupparsi l'istinto della lotta e delle avventure. Vi sono infatti uomini, che non hanno attitudine per farsi molto avanti nei momenti ordinari della vita sociale, ma al contrario sanno farsi valere nei momenti eccezionali, come sono le guerre civili; costoro hanno naturalmente la tendenza a che l'eccezione diventi regola generale.

Cosi vediamo che, dopo la prima fase, la più grandiosa dell'insurrezione vandeista, che si chiuse colla terribile rotta di Savenay, la guerra si prolungò ancora per anni, perchè, attorno ai capi, si erano formati nuclei di uomini risoluti, che altro mestiere non volevano esercitare che quello del partigiano. Più si accentua questa tendenza quando la rivoluzione è un mezzo di far rapida fortuna, come avvenne a Rodio ed a Pronio, che diventarono di botto generali, ed a Nunziante e Mammone, che furono riconosciuti colonnelli. Nella Spagna il lievito rivoluzionario lasciato dai sei anni della guerra d'indipendenza fermentò nelle successive guerre civili, nelle quali il nocciolo delle insurrezioni fu sempre formato da avventurieri che speravano fortune ed avanzamenti; poichè molti gradi furono colà guadagnati servendo ed abbandonando in tempo le diverse parti combattenti [222].

VI. — Le rivoluzioni che rappresentano fatti sociali apparentemente più strani, perchè dovuti a condizioni politiche più speciali, sono senza dubbio quelle scoppiate in Francia durante il secolo decimonono. Esse sono state infatti rese possibili solo da una eccessiva burocratizzazione e da altre circostanze peculiari alle quali brevemente accenneremo.

Non mettiamo nel novero la grande rivoluzione del 1789, che fu una vera dissoluzione delle classi e delle forze politiche che fin allora avevano diretto la Francia. Si sa che allora l'amministrazione e l'esercito, disorganizzati completamente dall'inesperienza dell'Assemblea nazionale, dall'emigrazione e dalla propaganda dei clubs, non furono per parecchio tempo più al caso di far rispettare le decisioni di qualunque governo [223]. Sicchè il potere caduto dalle mani del Re non fu raccolto da un ministero che aveva la fiducia dell'Assemblea costituente, ed appartenne volta per volta alla setta od all'uomo che, in un dato giorno, sapea farsi seguire a Parigi da un nucleo di forza armata; fosse questi La Fayette a capo della guardia nazionale o Danton colla plebe dei sobborghi armata di picche.

Però fin d'allora comincia a manifestarsi una tendenza che si andrà vieppiù accentuando nella prima metà del secolo decimonono. Coloro che dirigevano le insurrezioni cercavano sempre di impadronirsi della persona o delle persone, che rappresentavano il simbolo o l'istituzione alla quale la Francia, o per antica tradizione o per fede nei principii nuovi, obbediva; ed, una volta riusciti nel loro intento, erano realmente padroni del Paese.

Così fecero gli insorti al 6 ottobre 1789, quando, obbedendo evidentemente ad una parola d'ordine, andarono a Versailles e s'impadronirono del Re. Abolita la monarchia, fu contro la Convenzione nazionale che si diressero i colpi di mano, come quello del 31 maggio 1793 che fece l'Assemblea la quale rappresentava la Francia, schiava di un pugno di marmaglia parigina. La provincia tentò allora di reagire, ma invano, perchè l'esercito restò obbediente ai comandi che venivano dalla capitale in nome della Convenzione, per quanto fosse notorio che questa era coartata.

La stessa generale acquiescenza per tutto ciò che avveniva nella sede del Governo contribuì molto al felice risultato dei diversi colpi di stato, che avvennero sotto il Direttorio e fino allo stabilirsi dell'impero napoleonico.

Ma forse ancora più caratteristico è quello che avvenne nel 1830, nel 1848 e nel 1870. Dopo un combattimento più o meno lungo, qualche volta relativamente insignificante [224], con quella frazione di truppe, che difendeva nella capitale i fabbricati dove stavano i rappresentanti del supremo potere fin allora riconosciuto legittimo, la folla armata e disarmata fece fuggire sovrani e ministri, sciolse le assemblee e tumultuariamente formò un Governo, composto di uomini più o meno noti al paese, i quali s'insediarono nei luoghi dove gli antichi capi del Governo erano soliti a governare, e di là, coadiuvati quasi sempre dai soliti funzionari, telegrafarono alla Francia che, grazie al popolo vittorioso, essi erano diventati i padroni del Paese; e Paese, amministrazione ed esercito prontamente li obbedirono. Pare la storia della lanterna maravigliosa di Aladino, la quale quando, per caso od astuzia, capitava in mano ad uno, fosse egli anche un semplice ed ignorante fanciullo, subito i genii lo servivano ciecamente e rendevano il possessore più ricco e potente dei sultani dell'Oriente, senza che nessuno gli domandasse come e perchè il prezioso talismano fosse pervenuto nelle sue mani.

Si può obiettare che nel 1830 il Governo era diventato cieco strumento del partito legittimista, che era uscito dalla legalità, che una gran parte della Francia era decisamente contraria all'indirizzo politico che esso seguiva e che una parte stessa delle truppe agì mollemente o non agì del tutto nel momento decisivo. La catastrofe del 1870 contribuisce pure a spiegarci il cambiamento di Governo, che allora in Francia ebbe luogo. Ma nessun elemento di questo genere abbiamo per renderci ragione della subitanea rivoluzione del 1848: nè le Camere, ne la burocrazia, nè l'esercito avevano allora simpatie per il Governo repubblicano, la maggior parte dei dipartimenti vi era contraria [225]; a Parigi stessa la guardia nazionale, in febbraio oscillante, perchè desiderava la caduta del Ministero Guizot, nel marzo e nell'aprile successivi fece manifestazioni reazionarie. Eppure bastarono poche ore di titubanza perchè Luigi Filippo, la sua famiglia ed i suoi ministri dovessero fuggire non da Parigi, ma dalla Francia, le Camere fossero annullate ed un Governo provvisorio, i cui membri furono, in mezzo ad una folla tumultuante, proclamati al Palazzo Borbone, assumesse, di punto in bianco, la direzione politica della Francia.

Il cittadino Caussidière, fino al giorno avanti perseguitato dalla polizia, alla testa di un gruppo d'insorti e con le mani ancora sporche di polvere, andò nel pomeriggio del 24 febbraio 1848 alla Prefettura di polizia e, fin dalla stessa sera, ne divenne il capo ed il direttore. L'indomani tutti i capi servizio gli promisero la loro fedele cooperazione e, volenti o nolenti, mantennero la promessa [226].

Il Blanc, nella prefazione dell'opera testè citata, dice che Luigi Filippo cadde principalmente perchè i suoi fautori lo sostenevano per interesse non già per devozione personale. Secondo quest'autore, aveva il Re borghese pochi nemici, molti cointeressati, ma al momento del pericolo non si trovò un amico. Questa ragione crediamo che abbia un valore molto limitato; giacchè non ci pare che tutti coloro che sostengono una forma di governo debbano avere affezione personale od amicizia disinteressata per l'individuo, che di questa forma sta a capo. Anzi questi sentimenti non possono essere sinceramente sentiti che dalle poche persone o poche famiglie, che stanno nella sua intimità. La devozione politica per un sovrano o anche per il capo di una repubblica è tutt'altra cosa. Piuttosto, come abbiamo già accennato, ci pare invece che la causa principale dei subitanei rivolgimenti della Francia sia il soverchio accentramento burocratico, peggiorato dal regime parlamentare, il quale fa sì che gli impiegati siano già abituati ai cambiamenti di padrone e d'indirizzo e sappiano per esperienza che a contentare chi sta in alto ci si guadagna molto e che a scontentarlo ci si perde assai.

Con un simile regime ciò che abbisogna alla gran maggioranza dell'esercito, della burocrazia ed anche a quella parte della popolazione che per interesse od istinto ama l'ordine, è un governo, non un dato governo; sicchè coloro che di fatto stanno a capo della macchina dello Stato trovano sempre le forze conservatrici pronte a sostenerli e l'intiero organismo politico si muove quasi ugualmente, qualunque sia la mano che lo faccia agire.

Certo con questo sistema si può ottenere piuttosto un cambiamento nelle persone che hanno in mano il supremo potere, anzichè nel vero indirizzo politico di una società; e ciò appunto è accaduto in Francia dopo il 1830, il 1848 ed il 1870: giacchè, se si vuole tentare un mutamento più radicale, gli stessi governanti usciti dalla Rivoluzione sono trascinati ad impedirlo, come avvenne nel giugno 1848 e nel 1871, dagli elementi conservatori che sono i loro strumenti e nello stesso tempo i loro padroni.

È pure indiscutibile che un forte sentimento della legalità e della legittimità del Governo preesistente ostacolerebbe l'obbedienza passiva ad un nuovo regime sorto dalle barricate, ma un sentimento di questo genere per nascere ed affermarsi ha bisogno del tempo e della tradizione, ed in Francia troppo rapidi furono i cambiamenti avvenuti fino al 1870 perchè la tradizione vi potesse attecchire. Bisogna finalmente tener presente che, durante il secolo decimonono, in Francia ed in gran parte d'Europa le minoranze rivoluzionarie hanno potuto fare assegnamento non solo sulla simpatia delle masse povere ed incolte, ma anche, e principalmente forse, su quelle delle classi, che pure hanno una certa cultura. A torto od a ragione, si è, per tre quarti di secolo, insegnato alla gioventù che molte fra le più importanti conquiste della vita moderna si sono ottenute in seguito alla grande rivoluzione o colle rivoluzioni. Data una simile educazione, non è da maravigliare se i tentativi e le vittorie dei rivoluzionari non siano vedute con ripugnanza dalla generalità, fino a tanto almeno che non ne minacciano o danneggiano seriamente gli interessi materiali [227]. Naturalmente i sentimenti ai quali abbiamo accennato devono essere per un pezzo più forti e diffusi in quei paesi nei quali gli stessi Governi di fatto o legali sono usciti da una rivoluzione; in modo che, pur condannando le ribellioni in genere, devono pur celebrare quella buona, quella santa insurrezione dalla quale ripetono la loro origine.

VII. — Uno dei modi principali mercè i quali la tradizione e le passioni rivoluzionarie si sono mantenute in molti paesi d'Europa sono le società politiche, specialmente quelle segrete. E nel loro seno infatti che si educano i gruppi dirigenti, che sanno poi fomentare le passioni delle masse e condurle verso un dato fine. Quando si potrà scrivere imparzialmente la storia del secolo decimonono essa si dovrà molto occupare dell'efficacia colla quale qualche società segreta molto diffusa ha saputo spargere le idee liberali e democratiche, modificando profondamente e rapidamente l'indirizzo intellettuale di una gran parte della società europea. Giacchè, se non si tenesse conto di una propaganda attiva, organizzata e ben diretta, difficilmente si potrebbe spiegare come certi modi di vedere, che sulla fine del secolo decimottavo erano patrimonio dei salotti eleganti e di una società ristrettissima, ora si sentono ripetere in fondo ai più remoti villaggi da persone ed in ambienti, che certo non si sono modificati in forza di una cultura propria.

Se però nella preparazione intellettuale e morale delle rivoluzioni le associazioni, sia palesi che segrete, ordinariamente eccellono, lo stesso non si può dire quando si tratta di spingere le masse all'azione immediata, di suscitare un movimento a mano armata in un dato punto ed in un giorno stabilito; perchè allora società e congiure, per una volta che riescono, dieci volte almeno falliscono. La ragione è evidente: per lanciare una rivoluzione non bastano gli spostati pronti ad ogni rischio, che si trovano in tutte le grandi città europee, ma bisogna anche la cooperazione di una parte notevole delle masse. Or queste non si commuovono senza che vi sia un gran fermento negli spiriti causato da avvenimenti, che i Governi spesso non sanno o non possono evitare, ma che nello stesso tempo le società rivoluzionarie non possono creare, e dei quali perciò possono soltanto trarre abilmente profitto. Una grande speranza delusa, un rapido peggioramento delle condizioni economiche, una sconfitta toccata all'esercito nazionale o una rivolta vittoriosa di un paese vicino sono tutti fatti molto adatti a sovracccitare una moltitudine già preparata dall'educazione rivoluzionaria. Allora il nucleo dei ribelli stabilmente organizzato, se sa profittare del momento, può sperare un successo; ma se al contrario si lancia solo nell'azione, senza alcun sussidio di circostanze eccezionali, viene infallibilmente e con facilità sopraffatto, come accadde in Francia in occasione dei moti del 1832, 1834, e 1840. Perciò le Polizie, che d'ordinario si preoccupano poco della propaganda dei principii e stanno solo attente a prevenire e sventare i colpi di mano dei gruppi rivoluzionari, dei quali riescono abbastanza facilmente a conoscere i progetti e le intenzioni immediate mercè qualche spia che insinuano nel loro seno [228], danno prova di quella meschinità di vedute, che pare una qualità comune e quasi fatale in tutte le presenti istituzioni conservatrici.

In Francia, in Spagna ed anche in Italia si trova qualche città, nella quale è più facile trascinare le masse sulle barricate. È questo uno dei tanti effetti dell'abitudine e della tradizione, per le quali una popolazione, che una volta ha fatto alle fucilate ed ha rovesciato il Governo costituito, crederà, per una generazione almeno, possibile di rinnovare con buon esito il tentativo, a meno che ripetuti e sanguinosi insuccessi non la disingannino. Aggiungiamo che gl'individui, che hanno parecchie volte affrontato il fuoco, acquistano una specie d'educazione guerresca e diventano capaci di battersi meglio [229]. Malgrado però tutti i vantaggi di tempo, di luogo, di circostanze, dei quali un movimento rivoluzionario può fruire, certo ai giorni nostri, coi grossi eserciti stanziali che abbiamo e mercè i mezzi pecuniari e gli strumenti bellici, che solo i poteri costituiti sono al caso di procurarsi, nessun Governo può essere colla forza rovesciato se gli uomini stessi che lo dirigono non sono per i primi scossi ed esitanti, o se almeno non sono trattenuti da una forte paura di assumere la responsabilità di una repressione sanguinosa. Le concessioni all'ultima ora, gli ordini e contrordini, le titubanze di coloro che hanno in mano la forza legale e che la debbono adoperare, sono i veri e più efficaci fattori della riuscita di una rivoluzione e la storia delle giornate di febbraio 1848 è su questo riguardo molto istruttiva [230]. Ed è dannosa illusione il credere che, mentre nei posti più elevati si tentenna e si ha paura di compromettersi, si possano trovare ufficiali subalterni che assumano la responsabilità di una energica iniziativa o anche di una energica esecuzione di ordini perplessi e contradittori.

Resta ora ad esaminare in che modo si siano costituiti gli eserciti stanziali e quali siano le condizioni perchè non degenerino questi organismi complessi e delicati, che, senza turbare ordinariamente l'equilibrio giuridico delle altre forze sociali, sono, se saputi ben adoperare, strumenti così efficaci in mano dei Governi legali. Di ciò tratteremo nel seguente capitolo.

 


 

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CAPITOLO IX.
Gli eserciti stanziali.

I. La funzione militare nelle civiltà primitive. — II. Lo Stato burocratico e gli eserciti mercenari e stanziali. — III. Preponderanza politica abituale dell'elemento militare. — IV. Ragioni per le quali questa preponderanza è stata limitata e distrutta nei paesi di civiltà europea. — V. Importanza pratica delle moderne milizie cittadine. — VI. Diversità di classe fra la bassa forza e gli ufficiali in molti eserciti stanziali. — VII. Giudizi e pregiudizi intorno alle speciali attitudini militari dei vari popoli. — VIII. Gli eserciti stanziali, la guerra e l'avvenire della civiltà di tipo europeo.

I. — Nei paesi selvaggi o molto barbari, nei quali la produzione economica è rudimentale, nel caso abbastanza frequente che si venga alla guerra, tutti gl'individui maschi ed adulti sono soldati. Giacchè nelle società primitive, dato che esista la pastorizia nomade o che vi sia anche un embrione di agricoltura e d'industria, queste non sono mai così sviluppate da assorbire interamente l'attività umana; sicchè restano sempre tempo ed energia sufficienti per darsi alle scorrerie avventurose, le quali forniscono un'occupazione non solo piacevole ma quasi sempre lucrosa. Nelle popolazioni dunque alle quali accenniamo, le arti pacifiche sono lasciate volentieri alle donne o tutto al più agli schiavi e gli uomini si danno a preferenza alla caccia ed alla guerra.

Così è accaduto ed accade fra tutte le razze ed in tutti i climi, quando si trovino le condizioni che abbiamo rilevate: cosi vivevano gli antichi Germani e fino a pochi anni fa gli avanzi delle odierne Pelli Rosse, gli Sciti dell'antichità classica ed i Turcomanni dell'êra moderna, e così vivono fino ad oggi una parte dei Negri dell'interno dell'Africa e le tribù ariane, semitiche o mongole, che, nelle regioni più inaccessibili dell'Asia, hanno potuto conservare un'indipendenza di fatto.

Un coefficiente favorevole alla durata di questo stato di cose è la esistenza di organismi politici minimi, l'autonomia di fatto di ogni piccola tribù o minuscolo villaggio, che può rendere diuturna la guerra e continui il ladroneggio e le rappresaglie fra vicini. Difatti anche le tribù barbare sottomesse ad un Governo regolare che impedisce le guerre intestine, alla lunga diventano pacifiche; come, ad esempio, è accaduto in gran parte alle popolazioni nomadi dell'Asia da lungo tempo sottoposte al Governo chinese ed  a quelle fra il Volga e gli Urali, che pure da un pezzo subiscono il giogo della Russia. Al contrario, nel Medio Evo, vediamo in Germania ed anche in Italia popolazioni relativamente colte mantenere costumi molto guerreschi, perchè divise in feudi e Comuni fra i quali di fatto durava il diritto del pugno.

Appena però grandi organismi politici, anche rudimentali ed imperfetti, si vanno costituendo, e sopratutto appena lo sviluppo economico è più avanzato e la guerra non fornisce più l'occupazione maggiormente lucrosa, allora vediamo consacrarsi al mestiere delle armi una classe speciale, la quale ritrae il proprio sostentamento non tanto dalle prede, che fa sugli avversari, quanto dai tributi, che, sotto diverse forme, preleva sui lavoratori pacifici del paese che essa tutela e difende. Generalmente, siccome in un periodo di mediocre civiltà e cultura la produzione è quasi esclusivamente agricola, i guerrieri o sono proprietari delle terre, che fanno da altri coltivare, o dai lavoratori della terra ritraggono pesanti ed onerose contribuzioni. Così accadde durante quel periodo primitivo della classica antichità nel quale la parte dominatrice e militare della città era costituita unicamente dai proprietari di terre [231], e lo stesso fenomeno si ha più spiccatamente in tutti i paesi feudalmente organizzati. Lo troviamo perciò tra i Latini ed i Germani del Medio Evo come anche fra gli Slavi, presso i quali si determinò più tardi, perchè più tardi abbandonarono la vita nomade ed entrarono nel periodo stabilmente agricolo; e lo troviamo pure, in certe epoche, in China, nel Giappone e nell'India, nella quale era rientrato in pieno vigore durante quell'epoca di decadenza e di anarchia, che seguì la dissoluzione dell'impero del Gran Mogol. Organizzazioni analoghe si possono rintracciare in Turchia, nell'Abissinia, in Afganistan e nei periodi di decadenza, che si frappongono fra le diverse fasi dell'antichissima civiltà egiziana; in tutte quelle società, insomma, che non hanno ancora abbandonato quel primo e più rozzo periodo di cultura, che possiamo in una grande nazione trovare, ovvero che, dopo avere raggiunto una civiltà molto più avanzata, per ragioni interne ed esterne decadono, si decompongono, e, come tipo sociale, si trasformano e periscono, come fu il caso dell'Impero romano [232].

II. — Quando però la civiltà degli Stati feudali va aumentando, non tarda a manifestarsi in essi la tendenza verso la centralizzazione e perciò verso l'ordinamento burocratico. Dappoichè il potere centrale cerca costantemente di emanciparsi dalla necessità di ricorrere alla buona volontà dei piccoli organismi politici, che formano lo Stato; buona volontà che non è sempre pronta e disinteressata. Quindi, anche per tenerli ubbidienti e disciplinati, cerca di fornirsi direttamente dei mezzi coi quali efficacemente si impone la propria volontà agli altri uomini: il denaro, cioè, ed i soldati. È così che si vanno creando i corpi mercenari, che sono a servizio diretto del capo dello Stato, e questo fatto è cosi naturale e costante, che, in embrione almeno, lo troviamo in tutti i paesi feudalmente organizzati.

Al giorno d'oggi infatti il Negus d'Abissinia, oltre il contingente che gli forniscono i vari Ras, ha un primo nucleo di armati formato dalle guardie addette alla sua persona, che egli mantiene direttamente colle requisizioni che affluiscono a Corte, ed anche dai servitori della sua casa, beccai, palafrenieri e panattieri, che seguono l'Imperatore dappertutto ed all'occorrenza diventano soldati [233].

Anche nella Bibbia troviamo che il primo nucleo dell'esercito di David e dei suoi successori era composto dai guerrieri che mangiavano alla mensa del Re e dai mercenari Cretesi e Filistei; tutta gente molto provetta nelle armi, la quale represse la rivolta capitanata da Assalonne sebbene fosse secondata dalla maggioranza del popolo [234]. Il Renan crede anzi che questo fatto di un nucleo di sbirri stranieri presi al servizio del Governo centrale sia proprio soltanto dei popoli semitici, presso i quali lo spirito di tribù e di famiglia è così forte, che gli elementi indigeni non riescono adatti a far rispettare i diritti dello Stato, che vengono sempre posposti agli interessi della propria fazione. Ma in verità pare a noi che ciò accada dappertutto dove l'aggregato sociale si componga di piccoli nuclei provvisti di tutti gli organi necessari ad una vita indipendente e che quindi possono facilmente ribellarsi al potere centrale. Sicchè il Re d'Inghilterra, che nel Medio Evo procurava di assoldare Fiamminghi e Brabanzoni, il Re di Francia che si circondava di Svizzeri, il signore italiano che stipendiava i Tedeschi, in fondo obbedivano alle stesse necessità politiche che spingevano i Re di Giuda ad assoldare Filistei e Cretesi, e spinsero più tardi i Califfi di Bagdad ad assoldare la guardia turca.

A nostra conoscenza solo il genio organizzatore di Roma portò a tale perfezione l'ordinamento degli eserciti cittadini reclutati nella classe dominatrice ed agiata e composti d'individui che pigliavano le armi solo in caso di bisogno, da renderne possibile, senza scosse e quasi insensibilmente, la trasformazione in un vero e proprio esercito stanziale formato di soldati di mestiere [235]. Generalmente però l'inizio degli eserciti stanziali si deve trovare nei nuclei di mercenari indigeni o stranieri che il potere centrale assolda per avere un punto di appoggio di fronte alle altre forze militari feudalmente organizzate. La nazionalità dei mercenari stessi può qualche volta essere stata determinata da ragioni politiche e forse anche da abitudini ed attitudini tradizionali, ma il criterio che più comunemente ha prevalso è senza dubbio quello economico del minimo mezzo col massimo risultato: cioè di avere il maggior numero possibile di soldati colla minima spesa.

Perciò sono stati sempre i paesi relativamente poveri di capitali e ricchi di popolazione, nei quali il tempo e la vita degli uomini si possono avere a più buon patto, quelli che hanno fornito, come regola generale, i contingenti più importanti alle truppe assoldate [236].

III. — Stranieri o indigeni i mercenari stabilmente organizzati, una volta diventati la forza preponderante di un paese, hanno sempre cercato d'imporsi al resto della società. Come la classe feudale, essi, una volta conseguito il monopolio delle armi, ne hanno profittato per ottenere privilegi, per vivere quanto più grassamente è stato possibile alle spalle dei lavoratori, e sopratutto per ridurre alla loro dipendenza il supremo potere politico; e la loro influenza è stata tanto più esclusiva quanto più perfetta era la loro organizzazione e quanto più completa la disorganizzazione militare del resto della nazione.

Alcuni esempi in proposito sono a tutti familiari e, senza rammentare i pretoriani e le legioni che disponevano dell'Impero romano, diremo che quasi ogni volta che i Governi, per reagire contro l'anarchia feudale o per altre ragioni, hanno creato corpi di truppe stanziali, si sono poi trovati quasi sempre in balia di questi. Ivano IV di Russia, per non dipendere interamente dai contingenti forniti dai boiardi e poter governare più assoluto, formò il corpo degli strelitzi stabilmente assoldato, e che dipendeva direttamente dal Sovrano; e ben tosto gli strelitzi fecero e disfecero gli czar, diventarono quasi i padroni della Russia, e Pietro il Grande non se ne potè liberare altrimenti che mitragliandoli e decapitandoli a migliaia. A Costantinopoli i Sultani vollero anch'essi avere una milizia completamente fida, che all'occorrenza marciasse senza scrupoli, non solo contro gl'infedeli, ma anche contro gli scheiks degli Arabi e dei Kurdi, i begs albanesi e bosniaci ed i kan dei Turcomanni e dei Tartari, perchè formata da gente senza patria e senza famiglia, educata esclusivamente nella devozione all'Islam ed al Padischiàh; e crearono i giannizzeri reclutati con fanciulli circassi, greci e di altre nazioni cristiane, comprati o rapiti giovanissimi alle loro famiglie. E ben tosto i giannizzeri crearono e deposero i Sultani, furono i veri padroni dell'Impero degli Osmanli, strangolarono l'infelice Selim III, che primo volle frenare la loro onnipotenza, ed il sultano Mahmud dovette sterminarli per vincerli.

Ed i sultani di Costantinopoli avrebbero potuto far tesoro dell'esperienza degli Abbassidi di Bagdad, loro predecessori nel califfato. Costoro fin dagli inizi del nono secolo, e forse anche prima, per avere una milizia fida, che non avesse la tentazione d'innalzare lo stendardo dei Fatimiti o dogli Ommeiadi, come non di rado facevano le truppe arabe, avevano formato la guardia turca. A partire dal califfo Motasem (833-842), questa guardia divenne onnipotente ed i mercenari turchi commisero in Bagdad ogni sorta di eccessi. Il successore di Motasem, di nome Vatek, fu dai Turchi deposto e surrogato col fratello Al-Motavakel e poi in quattro anni (806-870) essi fecero e disfecero tre altri califfi; finchè il califfo Motamed, dopo la morte di Musa loro capo, potè alquanto imbrigliarli e, sparpagliatili sulle frontiere del Khorasan e della Dsungaria, riguardava come proprie vittorie le sconfitte che essi toccavano.

In conclusione la storia c'insegna che ordinariamente la classe che ha portato la lancia od il fucile si è imposta all'altra, che ha maneggiato la vanga o la spola. Appena una società è tanto progredita che la produzione economica debba assorbire un gran numero di braccia e d'intelligenze, fra popoli civili dati abitualmente alle occupazioni pacifiche, il dichiarare in principio che tutti sono soldati, quando non vi è una salda organizzazione militare ed un nucleo di capi e di ufficiali particolarmente consacrati al mestiere delle armi, equivale in pratica a non avere nel momento del pericolo alcun soldato e ad esporre un paese popolatissimo a restare in balia di un piccolo esercito, nazionale o straniero, purchè sia ben esercitato ed organizzato. Dall'altro lato l'affidare il mestiere delle armi esclusivamente a quella frazione della società, che spontaneamente vi è più adatta e volontariamente lo assume, sistema che pare il più naturale ed ovvio, e che molti popoli nel passato hanno adottato, presenta pure gravissimi e vari inconvenienti. In una società disorganizzata, in ogni villaggio si formerà una banda di uomini composta da coloro, che avranno più ripugnanza al lavoro metodico e più inclinazione alle avventure ed alla violenza, e questa banda ed il suo capo tiranneggeranno i pacifici lavoratori senza regola nè legge. In una società semi-organizzata, l'insieme di queste bande costituirà la classe dominatrice, che sarà signora e padrona di tutta la ricchezza e l'influenza politica, come fu il caso della feudalità medioevale nell'occidente di Europa e della nobiltà polacca fino a poco più di un secolo fa. In uno stato burocratico, che rappresenta il tipo di organizzazione sociale più complicato, l'esercito stanziale, che comprenderà tutti gli elementi più belligeri e saprà facilmente e prontamente obbedire ad unico impulso, facilmente s'imporrà al resto della società.

Il gran fatto moderno, quasi generale nelle nazioni di civiltà europea, di grossi eserciti stanziali rigidi custodi della legge, ossequenti agli ordini dell'autorità civile, e la cui importanza politica è scarsa ed indirettamente esercitata, se non è assolutamente senza esempio nella storia umana, rappresenta quindi una fortunata eccezione. Solo l'abitudine di poche generazioni e la dimenticanza del passato fanno sì che esso sembri normale a noi, che abbiamo vissuto sulla fine del secolo decimonono e sul principio del ventesimo e che troviamo strano quando questo stato di cose subisce qualche eccezione [237]. Ma in verità un simile risultato si è potuto ottenere solo in grazia ad un grande e sapiente sviluppo di quei sentimenti sui quali è basata la difesa giuridica, e sopratutto mercè una serie di circostanze storiche eccezionalmente favorevoli, che sarà nostra cura di brevemente rammentare. Accenniamo fin da ora che non è impossibile che altre circostanze storiche, che si vanno elaborando, riescano ad indebolire ed a sfasciare il complicato, delicato e sapiente meccanismo degli eserciti moderni; ciò che ci ricondurrebbe ad un tipo di organizzazione militare, forse più naturale e più semplice, ma certo anche più barbaro e meno adatto ad una difesa giuridica perfezionata.

IV. — La lenta elaborazione storica per la quale si è arrivati alla costituzione dei moderni eserciti stanziali rimonta alla fine del Medio Evo. Fu durante il secolo decimoquinto che, in Francia dapprima, e poi nelle altre regioni d'Europa la monarchia accentratrice, madre dello Stato burocratico moderno, andò sostituendo le truppe stanziali alle milizie feudali. Se fin d'allora l'Europa ebbe relativamente poco a soffrire dalle insurrezioni e dalle sovrapposizioni militari, ciò si deve al fatto che la sostituzione avvenne lentamente, gradatamente e che, anche sulla fine del Medio Evo, la costituzione degli eserciti europei fu complicata in guisa che diversi e disparati elementi sociali vi erano rappresentati e si bilanciavano a vicenda. La cavalleria infatti, al principiare del periodo storico al quale abbiamo accennato, era in generale formata dagli uomini d'arme, gentiluomini di nascita, profondamente imbevuti di spirito aristocratico e feudale, che stavano però al soldo del Re; mentre la fanteria era una raccolta di avventurieri di vari paesi. Poco a poco prevalse il sistema di affidare anche il comando dei reggimenti e poi delle compagnie di fanteria a gentiluomini, per nascita ed indole diversi dai loro soldati. Inoltre, fino a Luigi XIV ed anche dopo, si prolungò l'antico uso che un signore raccoglieva per conto suo uno squadrone, un reggimento, una compagnia fra gli uomini delle sue terre, e con il corpo già formato si metteva al soldo di un sovrano. In caso di bisogno poi si supponeva sempre che il Re potesse convocare sotto le armi tutta la nobiltà del Reame [238].

Malgrado però che la mescolanza dei vari elementi sociali e delle varie nazionalità avesse impedito agli eserciti del cinquecento e della prima metà del seicento di diventare padroni degli Stati che servivano, pure non era cosa facile il mantenere una tollerabile disciplina fra truppe formate dagli avventurieri di ogni paese ed in gran parte dalla zavorra della società. Se restarono proverbiali gli eccessi dei lanzichinecchi tedeschi e dei micheletti spagnuoli, non è a credere che i reggimenti francesi, svizzeri od italiani, croati o walloni, si diportassero molto meglio. Bisogna leggere la corrispondenza di don Giovanni d'Austria per vedere con quanti stenti, con quanta destrezza ed energia del capitano e degli ufficiali fosse mantenuta una disciplina molto relativa fra le truppe che repressero la rivolta dei Mori negli Alpuxarres, che s'imbarcarono nelle galee che vinsero a Lepanto e che servirono nella guerra di Fiandra. Già nei primi anni del secolo decimosesto il cardinale Ximenes all'udire che un esercito spagnuolo, sbarcato per conquistare Algeri, era stato sconfitto e quasi distrutto, dicesi che abbia esclamato: "Dio sia lodato; ecco finalmente liberata la Spagna da tanti mali arnesi!". Ed alla fine dello stesso secolo, fra le cose impossibili che Cervantes faceva desiderare al curato ed al farmacista del villaggio dove nacque il cavaliere della Mancia, ci era anche questa: che i soldati, che dall'interno del paese si avviavano ai porti per imbarcarsi per l'estero, non saccheggiassero per la via i contadini loro connazionali. Sono note poi le gesta delle milizie di tutti i paesi, che combatterono nella famosa guerra dei trent'anni. In Inghilterra una delle cause principalissime per le quali si mantenne a lungo l'avversione agli eserciti stanziali fu la paura della vita licenziosa che menavano i soldati di mestiere. Sotto Giacomo II fu famoso per stupri e rapine un reggimento inglese tornato in patria dopo avere servito alcuni anni in Tangeri sotto il colonnello Kirke. Siccome questo reggimento portava nella bandiera per insegna un agnello, i soldati che di esso facevano parte furono, con umorismo britannico, soprannominati gli agnelli di Kirke [239].

Una disciplina migliore non si ebbe che nella fine del secolo decimosettimo e sopratutto nel secolo decimottavo, durante il quale vediamo sparire quasi generalmente le milizie feudali e cittadine e cominciare l'êra dei veri e propri eserciti stanziali alla moderna.

Allora la necessità di tenere molti uomini in arme e la difficoltà di pagarli tanto quanto bastava per averli volontarii, fecero sì che si cominciasse ad introdurre la coscrizione nella maggior parte dei paesi del continente europeo. Inoltre poi i soldati non vennero più raccolti fra gli avventurieri e la feccia della società, ma furono piuttosto scelti fra i contadini ed operai, che, anzichè dedicarsi per tutta la vita al mestiere delle armi, tornarono dopo pochi anni alle loro ordinarie occupazioni e gli ufficiali continuarono ad appartenere ad una classe totalmente distinta. Essi infatti divennero sempre più dei gentiluomini burocratizzati, che, all'ordine ed alla puntualità dell'impiegato, accoppiarono lo spirito cavalleresco ed il sentimento dell'onore tradizionale nella nobiltà [240].

Solo nell'Inghilterra e negli Stati Uniti d'America durò e dura l'antico sistema di reclutare i soldati volontariamente ed a preferenze tra gli spostati delle classi più povere della società [241]. In questi due paesi, e specialmente negli Stati Uniti, le truppe stanziali si sono mantenute relativamente scarse; perchè, per la loro posizione geografica, la loro difesa esteriore può in gran parte essere affidata alla marina da guerra, mentre l'ordine interno è in parte mantenuto da milizie cittadine e sopratutto dalla numerosa e bene organizzata polizia. Inoltre vi si conserva negli eserciti regolari più rigorosamente che negli eserciti del continente europeo la distinzione di classe fra gli ufficiali e la bassa forza; distinzione la quale fa sì che i primi per attinenze di famiglia e per educazione siano strettamente legati a quella minoranza, che, per nascita, cultura e ricchezza, sta al vertice della piramide sociale [242].

V. — Il valore pratico della milizia cittadina americana finora si è dimostrato molto mediocre. Già lo stesso Washington diceva che, se fosse stato invitato a rispondere con giuramento a questa domanda: se le milizie erano utili od inutili, non avrebbe esitato a rispondere che erano inutili [243]. Le guerre esterne infatti ed anche quelle di secessione si sono combattute quasi esclusivamente dall'esercito federale aumentato da arruolamenti volontari e, nei disordini interni, è dubbio almeno se la milizia sia più efficace a sedarli che ad accrescerli. Essa non ha saputo impedire i frequenti linciaggi, e davanti gli scioperanti si è dispersa o è venuta a patti, come accadde nel 1887 ed in altri scioperi più recenti, nei quali l'ordine è stato ristabilito dall'esercito federale [244]. Ad ogni modo la milizia americana diede il modello e fu in certo modo la madre della guardia nazionale europea, alla quale fino a quaranta o cinquant'anni addietro si attribuiva una grande importanza, principalmente per lo scopo politico che credevasi dovesse disimpegnare: si voleva infatti costituire con essa un corpo armato, il quale, emancipato dalla cieca disciplina militare, custodisse le istituzioni parlamentari contro gli attentati del potere esecutivo sostenuto dalle truppe stanziali.

Già fin dalla grande rivoluzione francese Mirabeau avea rivelato molto bene gl'inconvenienti della formazione di un simile corpo, il quale favoriva o reprimeva la rivolta secondo gli umori del momento e si costituiva in certo modo arbitro armato fra le autorità costituite ed i rivoluzionari [245]. Malgrado ciò nel 1830, quando si fece la revisione della Carta, non si trascurò di sancire con un articolo speciale che "la Carta e tutti i diritti che essa consacrava restavano affidati al patriottismo ed al coraggio delle guardie nazionali", e, quando Garibaldi entrò in Napoli, per salvare dalla distruzione il Castel S. Elmo, da dove fino allora le truppe regie avevano tenuto la città sotto il loro cannone, dovette promettere che esso sarebbe stato sempre custodito dalla guardia nazionale napoletana. In Francia, a dir vero, non sempre l'opera delle guardie nazionali riusci inefficace: nel 1832 e 1834 e nelle giornate di giugno 1848 la paura del socialismo produsse scatti di coraggio nei pacifici borghesi parigini, e la guardia nazionale coadiuvò l'esercito nella repressione delle rivolte; ma nel febbraio 1848, scontenta del Ministero Guizot, e non comprendendo che si faceva una rivoluzione, fu dapprincipio ostile alle truppe, poi dubbiosa ed inerte, e la sua condotta fu causa principalissima della caduta della monarchia di luglio [246]. Non seppe poi ostacolare il colpo di Stato del 2 dicembre 1851, e nel 1870-71, essendo stati ammessi a servire nelle sue file anche gli operai socialisti, gli elementi di disordine ebbero, com'è naturale, il disopra sopra quelli d'ordine, e la milizia cittadina di Parigi fornì i pretoriani alla Comune. Ai giorni nostri, in parte perchè la poca efficacia e solidità dell'istituzione sono diventate coll'esperienza troppo evidenti, in parte perchè ogni professionista o bottegaio, avendo servito qualche tempo nell'esercito permanente, ha perduto l'entusiasmo per le parate e per l'uniforme, la guardia nazionale è stata abolita in tutti i grandi paesi d'Europa [247].

VI. — Prima di concludere sull'argomento dell'organizzazione militare della moderna Europa e sui suoi rapporti colla difesa giuridica dobbiamo ancora fare due osservazioni.

La prima riguarda la divisione della forza armata in due classi, delle quali l'una comprende gli ufficiali, reclutati quasi sempre nella classe politicamente dirigente e che hanno una educazione ed istruzione speciale e cominciano il loro servizio con un grado abbastanza elevato, mentre l'altra viene composta dai gregari e dai graduati inferiori i quali difficilmente hanno aperto l'adito ai gradi maggiori. Or questa distinzione, che parrebbe a prima vista oltremodo convenzionale ed arbitraria, si ritrova più o meno precisa in tutti quei grossi eserciti stanziali, di epoche e paesi differentissimi, che sono stati meglio organizzati. Essa era già applicata in certe epoche dell'antico Egitto, giacchè i papiri che rimontano a quelle dinastie, durante le quali le armi egiziane più si distinsero, ci parlano di ufficiali dei carri di guerra e di ufficiali di fanteria educati in speciali collegi militari, dove erano iniziati a tutte le durezze della vita delle armi, e per entrare nei quali si doveva pagare abbastanza, non già in danaro, che allora non esisteva, ma in schiavi ed in cavalli [248]. È stata applicata in certo modo nella China moderna, dove il mandarinato militare ha avuto qualche analogia colla nostra ufficialità; giacchè il mandarino militare doveva superare un esame davanti alle autorità militari della provincia ed entrava poi con un grado abbastanza elevato nelle milizie di una delle diciotto provincie chinesi [249]. Ma era sopratutto in vigore nelle legioni romane degli ultimi secoli della repubblica e dei primi secoli dell'impero, nelle quali si mantenne lungamente la distinzione fra la milizia comune e quella detta equestris, che si iniziava servendo come contubernalis (oggi si direbbe aiutante di campo) del console o del comandante la legione, il quale poi apriva l'adito al grado di tribuno militare ed agli altri gradi superiori; mentre, chi iniziava la sua carriera da semplice soldato nella milizia comune, potè per lunghissimi secoli solo arrivare a centurione primipilare, ufficio che costituiva quasi il bastone di maresciallo della bassa forza. Organizzazione questa che assicurava il possesso dei gradi elevati nell'esercito alla stessa classe sociale che occupava le alte magistrature civili e che, avendo la ricchezza ed il potere politico, formava l'aristocrazia dell'antica Roma [250].

VII. — L'altra osservazione riguarda uno dei giudizi e pregiudizi più sparsi nel mondo : che le qualità militari siano cioè assai inegualmente distribuite fra i popoli, dei quali alcuni sarebbero naturalmente timidi e poltroni ed altri arditi e valorosi. Certo non si potrà mai dimostrare che qualche cosa di vero non vi sia in questi pregiudizi. Ma d'altra parte ci pare indiscutibile che sono principalmente le abitudini più o meno guerresche di un popolo, la solidità ed il tipo dell'ordinamento militare che ha adottato, gli elementi che più contribuiscono ad accrescere la sua fama bellicosa.

La verità è che la guerra, come tutti i mestieri pericolosi, richiede una certa abitudine per essere affrontata con calma e sangue freddo; quando quest'abitudine manca, non può essere supplita che o da quei momenti d'orgasmo, che si producono in rarissimi periodi della vita dei popoli, o da quel sentimento del dovere e dell'onore che, in una classe molto ristretta ed eletta, può essere suscitato e mantenuto vivo da una educazione speciale. Or nelle nazioni civili, nelle quali la gran maggioranza non può stabilmente dedicarsi alle lotte cruente, l'organizzazione militare deve tendere allo scopo di distribuire fra le masse una piccola minoranza che a queste lotte è abituata o che è preparata dall'educazione speciale, che abbiamo accennato, in modo che possa padroneggiare i gregari, esercitare sopra di essi un'influenza decisiva ed indurli ad affrontare un pericolo, che altrimenti avrebbero evitato [251].

Siccome l'organizzazione, alla quale abbiamo accennato, può essere più o meno perfetta e può anche completamente mancare, siccome la classe dirigente può essere familiare col mestiere delle armi e può anche esserne, per circostanze diverse, completamente schiva, noi vediamo, percorrendo la storia dei popoli civili, che quasi tutti hanno avuto i loro momenti di gloria militare, e quasi tutti hanno avuto i loro periodi di debolezza materiale. Gl'Indiani, tante volte saccheggiati e conquistati da Turchi, Mongoli, Afgani e Persiani e che nel secolo decimottavo si fecero sottomettere da poche migliaia d'Inglesi, furono il popolo asiatico che resistette più valorosamente ai Macedoni. Gli indigeni dell'Egitto per lunghi secoli hanno avuto fama di soldati poco valorosi, eppure si reclutavano fra gli abitatori della bassa valle del Nilo le truppe degli Ahmes e dei Touthmes, che ai loro tempi erano i primi eserciti del mondo. Da Leonida ad Alessandro Magno i Greci furono considerati soldati valorosissimi, ed all'epoca di Senofonte parlavano col massimo disprezzo dei Siri e degli abitanti della Mesopotamia, ma quando sorse l'Islam, le popolazioni semitiche dell'Asia ripresero il sopravvento e fecero scempio delle pacifiche popolazioni che ubbidivano all'impero di Bisanzio [252]. Gl'Italiani del Rinascimento erano cattivi soldati, perchè disabituati della vera guerra, ma fra i loro padri si erano reclutati i legionari di Roma, valore sufficiente aveano mostrato all'epoca dei Comuni e, solo qualche secolo dopo Machiavelli, i reggimenti italiani emularono per la solidità quelli spagnuoli nella famosa giornata di Rocroy. I Napoletani, nel passato specialmente imputati di codardia, dovettero questa loro fama piuttosto alla mancanza di coesione ed unità morale, che hanno mostrato in diverse occasioni, che a deficienza di valore personale, ed in Spagna ed in Russia sotto Napoleone I ed in altre occasioni le truppe napolitane si sono assai bene comportate [253].

VIII. — Ai giorni nostri ci è una reazione contro i grossi eserciti stanziali e si adducono a carico di essi le braccia, che tolgono agli opifici ed all'agricoltura, i vizi che inspirano alla gioventù e sopratutto l'intollerabile spesa di cui sono cagione. Vero è che questi lagni sono a preferenza mossi da quegli elementi sociali che in ogni tempo hanno avuto più la tendenza a farsi valere ed imporsi colla forza al resto della società, da quelli che avrebbero naturalmente e spontaneamente più gusto per il mestiere delle armi e che trovano ostacolo all'esplicazione dei loro istinti, forse incoscienti, nella presente organizzazione militare delle masse pacifiche e lavoratrici [254]; ma è pur vero che le necessità, che hanno condotte le diverse nazioni europee alla organizzazione degli eserciti moderni, hanno ora l'effetto di allargare sempre più l'applicazione di quei principii sui quali essi sono fondati in maniera da snaturarne la compagine.

Le guerre napoleoniche prima e poi sopratutto quella del 1870 avendo dato la vittoria a quelle nazioni, che hanno armato e mobilizzato eserciti più numerosi, hanno condotto a tale esagerazione, in quasi tutti i paesi del continente europeo, il sistema del servizio militare obbligatorio, che ora si è arrivati al punto da aver la pretesa di raccogliere, in caso di bisogno, nei quadri dell'esercito tutta la popolazione valida di uno Stato di trenta, quaranta o più milioni di abitanti. Ma per rendere possibile l'attuazione di una simile pretesa si è dovuto da una parte accorciare tanto la durata del servizio da rendere dubbio che i coscritti abbiano il tempo di acquistare quelle abitudini, quello speciale spirito di corpo, che devono distinguere il soldato dal resto della società, e che, per ragioni tecniche e sopratutto politiche, è necessario che non siano soverchiamente indebolite. E, d'altra parte, si è dovuto aumentare tanto la spesa per gli uomini, per i quadri e per gli armamenti, che sono in continuo rinnovamento, da renderne sempre più difficile la continuazione e da produrre quel mostruoso accumulo del debito pubblico, che è una delle principalissime piaghe di molti paesi moderni e sotto il quale qualcuno di quelli economicamente meno forti rischia di soccombere.

Nè ciò è tutto: la macchina militare, a forza di essere ingrandita, è diventata sempre più complicata e delicata ed il dirigerne il funzionamento in tempo di mobilitazione e di guerra è divenuta opera irta di sempre maggiori difficoltà [255]. Ed è lecito anche domandarsi se la guerra stessa sarà un fatto possibile, quando ogni giorno di ostilità, fra i danni economici del paese e le spese dell'erario, costerà ad ogni nazione parecchie decine di milioni; quando, il giorno in cui sarà dichiarata, saranno turbati gl'interessi e gli affetti di tutte le famiglie di un popolo civile. — Or, se gli interessi economici e le ripugnanze morali, che si oppongono ad uno scoppio bellicoso fra nazioni civili, riescono ad evitarlo solo per sessanta o settanta anni di seguito, è dubbio se fra le nuove generazioni potrà durare ancora quello spirito militare e patriottico sul quale sono fondati gli eserciti moderni e che solo rende possibili gli enormi sacrifici materiali, che essi costano.

Quando il decadere dei sentimenti accennati e la lunghissima pace avranno di fatto abolito o reso parvenza vana e senza subbietto gli eserciti stanziali, rinascerà il pericolo che la prevalenza militare ritorni ad altre razze, ad altre civiltà, che hanno avuto ed avranno svolgimento diverso da quella europea e se ne saranno appropriati i mezzi ed i metodi di distruzione. — E se anche questo pericolo parrà ad alcuni troppo lontano e chimerico, nessuno potrà negare che, nel seno stesso delle popolazioni europee, vi saranno sempre i caratteri violenti e quelli timidi, le discrepanze d'interessi e la voglia d'imporsi con la forza materiale. — Sicchè, sciolta una volta od indebolita la grande organizzazione per la quale il monopolio della funzione militare è stato tolto a quella categoria di persone che naturalmente vi ha più gusto ed attitudine [256], chi impedirà alle piccole organizzazioni dei forti, degli arditi e dei violenti di ricostituirsi per opprimere i deboli ed i pacifici? E la guerra, morta all'ingrande, non rinascerà a minuto nelle contese tra le famiglie, le classi ed i villaggi?

In verità dai dubbi, che abbiamo espresso, si può trarre una conclusione, che noi non osiamo quasi nettamente formulare: che la guerra stessa cioè, nella sua forma presente causa ancora di tanti mali e madre di tante barbarie, sia un fatto che di tanto in tanto si rende necessario, affinchè non decada ciò che ci ha di meglio nel funzionamento delle odierne società europee ed esse non ritornino ad un tipo di difesa giuridica meno elevato. Grave e terribile conclusione, che non sarebbe del resto che un'altra di quelle conseguenze della natura umana, così complicata e contradittoria, alle quali abbiamo già accennato alla fine del capitolo settimo; di quella natura umana per la quale il bene, nello svolgimento della storia dei popoli, è sempre fatalmente connesso col male, ed il miglioramento giuridico e morale di una società va unito con lo sfogo delle passioni più basse ed egoistiche e degli istinti più brutali [257].

 


 

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CAPITOLO X.
Conclusione.

I. Scopo della conclusione. — II. I tre problemi della vita moderna — Il problema religioso. — III. L'avvenire del Cristianesimo. — IV. Il Cristianesimo e la scienza positiva. — V. Il problema politico. — VI. Esame critico del Parlamentarismo. — VII. Le riforme del Parlamentarismo. — VIII. Quale sarebbe la riforma fondamentale — Ostacoli che incontra. — IX. Il problema sociale — Origine della democrazia sociale. — X. Estensione ed importanza della democrazia sociale — Varie scuole nelle quali si divide. — XI. Esame critico del collettivismo. — XII. La giustizia nell'organizzazione sociale. — XIII. Esame critico dell'anarchia. — XIV. La lotta di classe. — XV. Effetti pratici della democrazia sociale. — XVI. Cause della stessa. — XVII. Probabilità di trionfo della democrazia sociale. — XVIII. Rimedi atti a combatterla. — XIX. Missione della scienza politica.

I. — Il chiudere questo nostro lavoro sarebbe cosa assai breve e facile se ci potessimo limitare ad una semplice e sommaria enumerazione degli argomenti che abbiamo finora trattati. Basterebbe infatti rammentare che nel primo capitolo abbiamo esposto le ragioni per le quali crediamo che solamente mercè lo studio dei fatti storici si possano scoprire le tendenze costanti, ossia le leggi, che regolano l'ordinamento delle società umane, e che nei seguenti capitoli ci siamo appunto occupati di determinare la natura e l'azione di alcune delle dette leggi. Abbiamo voluto infatti dimostrare che, in qualunque aggregato umano che abbia raggiunto un certo grado di cultura, esiste una minoranza dirigente, la quale si recluta in modi diversi, ma sempre fondati sul possesso delle molteplici e variabili forze sociali; cioè di quelle qualità, che, secondo i tempi ed i luoghi, danno agli individui che le posseggono prestigio morale e preminenza intellettuale ed economica, e forniscono i modi di dirigere le volontà altrui. Abbiamo anche cercato di porre in chiaro che ogni società si fonda sopra un complesso di credenze e principii religiosi e filosofici, che ad essa sono speciali, e in base ai quali spiega e giustifica il suo ordinamento. Ciò ci ha dato occasione di occuparci della diversità dei tipi sociali, dovuta principalmente alla fondamentale diversità di alcuni di questi sistemi filosofici e religiosi o formole politiche, che si dividono l'impero di quella parte massima dell'umanità, che ha raggiunto un certo grado di cultura.

Due poi sono i punti di questa parte del nostro lavoro, che ci sembrano più specialmente suscettibili di applicazioni scientifiche e pratiche di qualche importanza. Quello nel quale ci siamo sforzati di provare che la migliore difesa giuridica, il maggior rispetto del senso morale da parte dei governanti si può ottenere solo mediante la partecipazione al Governo ed il controllo reciproco di molteplici forze politiche. E l'altro che consiste nella dimostrazione, che ci sembra di aver sufficientemente dato, della incapacità che ha qualunque dottrina filosofica o religiosa a cambiare radicalmente e durevolmente la natura umana; specialmente quando, invece di limitare la propria propaganda ad un piccolo numero di individui scelti, di anime elette, la estende a tutta intera una grande società e pretende governarla informandola ai suoi principii; senza con ciò negare la notevole efficacia pratica che può avere la prevalenza di un dato indirizzo dottrinario o religioso.

Infine i capitoli ottavo e nono riguardano l'applicazione delle teorie precedentemente esposte ad un fenomeno così comune nei tempi moderni come è stata la rivoluzione violenta e ad un altro fenomeno in contraddizione col primo, che è l'ordinamento dei moderni eserciti stanziali, il quale impedisce a quella frazione della società, che potrebbe naturalmente assumere il monopolio militare, di imporsi colla violenza alle altre forze sociali.

Però noi crediamo che in quest'ultimo capitolo un compito un po' più delicato e difficile ci resti ancora da esaurire. Crediamo che sia nostro dovere l'esaminare al lume dei principii, che abbiamo già esposto, i problemi più importanti che agitano ora le nazioni di civiltà europea. Forse con ciò da un lato determineremo meglio la natura di questi problemi e potremo anche indagare più agevolmente quali siano le soluzioni più probabili, che essi avranno; e dall'altro lato potremo meglio scientificamente precisare i nostri concetti e porre in luce ancora più le conseguenze pratiche, che se ne possono trarre. Aggiungiamo che all'indagine predetta siamo pure spinti da quello stimolo, tanto naturale ed umano, che certamente agisce tanto sul lettore che sullo scrittore, e che fa sì che siamo indotti ad interessarci sommamente a quei fatti ed a quelle quistioni, che si svolgono intorno a noi, nel paese e fra la generazione fra i quali viviamo.

II. — Diciamo subito che i problemi di cui ci occuperemo sono tre. In primo luogo esamineremo se le presenti religioni a base dommatica o, per precisare meglio il nostro concetto, se le diverse forme del Cristianesimo riusciranno a sopravvivere alla presente corrente rivoluzionaria ed a resistere al movimento razionalista, che tende a distruggerle. In secondo luogo vedremo se la prevalenza delle autorità politiche elettive, e sopratutto quel sistema di governo che è comunemente chiamato Parlamentarismo, siano suscettibili di una lunga durata, e, nel caso che si debbano necessariamente modificare, esamineremo in che senso le modificazioni potranno o dovranno avvenire. In terzo luogo finalmente getteremo lo sguardo sull'avvenire della nostra civiltà di fronte alla democrazia sociale, di questa grandiosa corrente di sentimenti e d'idee, che invade tanti paesi d'Europa e d'America, e che, mentre da un lato è una vera conseguenza della loro storia più recente, dall'altro è un fattore attissimo a modificare il loro avvenire.

Il primo di questi problemi può a prima vista sembrare il più facile dei tre, ma certo non lo è: infatti contiene forse una parte maggiore d'imprevedibile e d'imponderabile che il secondo ed il terzo, che sembrano, giustamente, così complicati e coi quali del resto è intimamente connesso. Diciamo perciò fin da ora che, specialmente su questo primo problema, una risposta precisa, netta e sicura non la daremo, e che ci limiteremo piuttosto ad ipotesi ed a previsioni cautamente generiche e pensatamente incerte.

Molti con sicurezza affermano che la scienza ammazzerà il dogma. Questa opinione, superficialmente considerata, è senza dubbio per diversi lati accettabile. Non si può negare infatti che le scienze fisiche e chimiche, la geologia, la preistoria, la critica degli stessi documenti storici, battano in breccia tutto il soprannaturale del Vecchio e del nuovo Testamento e l'inspirazione dei santi Padri. Diciamo anzi di più; che, anche se la scienza non intaccasse direttamente le credenze religiose, una mente educata alle sue severe indagini ed ai suoi metodi rigorosi dove sentire, se è spassionata, una invincibile ripugnanza ad accettare dottrine ed asserzioni dommatiche, che deve considerare come gratuitamente affermate [258].

Però d'altra parte è da tener presente che le credenze religiose non hanno mai risposto ad un bisogno del nostro raziocinio, ma piuttosto ad altre necessità della psicologia e sopratutto del sentimento umano. Se da un certo punto di vista possono essere considerate come illusioni, bisogna pure riconoscere che esse son mantenute non tanto dalla loro apparenza di verità, quanto dal bisogno che hanno gli uomini d'illudersi. E questo bisogno è così generale, così forte, specialmente in certi momenti della vita, che noi vediamo spesso individui d'intelletto robusto, abituato al senso della realtà, corredato di studi positivi, e talvolta anche di carattere calmo ed equilibrato, pagare ad esso un largo tributo.

Nè in proposito dobbiamo attribuire troppa importanza ad un fenomeno al quale ora assistiamo, segnatamente nei paesi cattolici, e che può condurre ad apprezzamenti erronei. Le pratiche del Cristianesimo nelle grandi città della Francia, in parecchie della Spagna e dell'alta Italia, forse anche in taluna della Germania e dell'America settentrionale, vanno scomparendo, e scompaiono ivi a preferenza nelle plebi anzichè nelle classi che hanno una certa agiatezza e cultura. Or non deve da ciò dedursi che l'educazione razionalista e positiva abbia fatto fra quelle plebi grandi progressi. Si può non solo dubitare della verità delle dottrine religiose, ma esser convinti che esse sono tutte fenomeni storici prodotti però da bisogni innati e profondi dello spirito umano, perchè una educazione positiva della mente, nutrita di larghi studi, l'ha a poco a poco abituato a non ritenere per vero se non ciò che sia scientificamente provato. In questo caso l'individuo, perdendo un sistema di illusioni, resta cosi bene equilibrato che non è certo disposto ad abbracciarne un altro, e sopratutto il primo che capita. Ma la totalità dei miscredenti plebei ed anche, bisogna dirlo, la gran maggioranza dei miscredenti di qualche cultura, che abbiamo ora nelle nazioni di civiltà europea, non arriva al razionalismo per questa strada: non crede, e schernisce, semplicemente perchè è cresciuta in un ambiente nel quale le hanno insegnato a non credere ed a schernire. Ed, in queste condizioni, la mente, che respinge il Cristianesimo perchè è una credenza basata sul soprannaturale, è sempre disposta ad accoglierne altre certo più grossolane e volgari.

L'operaio di Parigi, di Barcellona o di Milano, il bracciante delle Romagne o il piccolo commerciante di Berlino in fondo non sono emancipati dall'ipse dixit, più di quanto lo sarebbero se andassero a messa o frequentassero la predica del pastore protestante o la Sinagoga. Invece di credere ciecamente al prete credono con uguale cecità all'agitatore rivoluzionario. Si stimano all'avanguardia della civiltà ed hanno lo spirito accessibile a tutte le ubbie ed a tutti i sofismi. Lo stadio morale ed intellettuale che hanno raggiunto, lungi dall'essere un illuminato positivismo, non è che un volgare, sensuale e degradante materialismo, o indifferentismo religioso che voglia dirsi. Prima di ridere del lazzarone, che ha fede nella liquefazione del sangue di San Gennaro, dovrebbero rendersi capaci di non ammettere per vere cose ugualmente assurde e certo più dannose.

III. — Ora, così stando le cose, prevalendo in parte delle masse non già un positivismo od agnosticismo per dir così, organico, ma un volgare ateismo d'imitazione, il terreno che le credenze religiose hanno con rapidità perduto, può essere, almeno per un certo spazio di tempo, prima cioè che l'indifferenza religiosa diventi tradizionale, con una relativa rapidità riguadagnato. Può darsi benissimo che le dottrine socialiste e gli istinti rivoluzionari abbiano fra qualche generazione manifestamente dichiarato la loro bancarotta, può anche darsi che a questo risultato si arrivi dopo lotte civili, dopo sofferenze morali ed economiche grandissime; paragonabili, non già a quelle che si ebbero a patire dopo le piccole rivoluzioni passeggiere del secolo decimonono, ma alle altre, che provarono così duramente la generazione che assistè alla grande rivoluzione francese. È risaputo intanto che il Cristianesimo è a preferenza la religione dei tempi difficili anzichè di quelli prosperi; di Esso si può fare facilmente a meno quando la vita è facile ed agiata, quando l'avvenire si presenta ridente, quando i godimenti materiali non fanno difetto; ma si sente al contrario urgente il bisogno delle sue speranze e dei suoi conforti quando si è colpiti da disillusioni amare e da catastrofi, quando le privazioni ed i dolori rendono amaro l'oggi e più amara la prospettiva dell'indomani. Bisogna rammentare che già una volta trionfò definitivamente quando le classi alte e medie del mondo antico subirono quella tremenda catastrofe, quelle inenarrabili sofferenze, che furono la conseguenza delle vittorie definitive dei barbari e della caduta dell'impero romano d'occidente [259]. Se, sulla fine del secolo decimono od all'alba di quello venturo, molte vite fossero sacrificate, ed una buona parte del capitale europeo fosse sciupato in lotte ed in vani tentativi di riforme sociali, non è improbabile che al fasto ed allo sperpero, che sono stati una delle caratteristiche degli ultimi decenni del secolo decimonono [260], non debba succedere un'era di abbattimento e di relativa miseria, durante la quale le dottrine cristiane troverebbero propizio il terreno per riguadagnare il cuore delle masse [261].

Finora, nei paesi cattolici, essendo appunto la Chiesa cattolica quella che gode di una maggiore autonomia e che pretende una più grande ingerenza nelle cose dello Stato, la propaganda anti-religiosa è stata direttamente od indirettamente favorita dalle autorità laiche con le quali il Papato si è trovato in violenti conflitti d'interessi. Ciò è avvenuto specialmente in Francia, nei primi anni della monarchia di luglio e durante un certo periodo della terza repubblica, ed in Italia, durante e dopo la caduta del potere temporale dei Papi. Ma è erroneo scambiare queste lotte, che sono episodii che di quando in quando si sono rinnovati nella vita dei popoli cattolici, con l'essenza stessa della loro storia, dando ad esse il carattere di guerre a morte non interrotte nè da paci nè da tregue. Come è accaduto spessissimo nei secoli scorsi, dopo essersi accanitamente disputata una posizione, bisogna che quella delle due parti in contesa che l'ha perduta si abitui alla nuova condizione delle cose e si rassegni, almeno tacitamente, ad accettarla. Di queste ore di tacita rassegnazione la Chiesa cattolica ne conta parecchie nella sua lunga storia.

Non è possibile poi che tanto la Chiesa che lo Stato non finiscano coll'accorgersi che nelle loro lotte presenti, il vero tertius gaudens, come ebbe a scrivere lo Schäffle [262] e come vede da sè chiunque sia spassionato ed. abbia appena appena un zinzino di senno politico, è la democrazia sociale. Non è possibile che questi due Enti non vedano alla lunga il gran bene, che, camminando con un certo accordo, si possono scambievolmente fare. Ormai in Francia pare che un movimento nel senso da noi indicato si vada sempre più eccentuando [263]. Ed anche in Italia il tempo è e sarà il miglior maestro, e molta gente va vedendo, e vedrà sempre più chiaramente, che, se da un lato il Cattolicesimo dura e facilmente non si distrugge, dall'altro neppure è possibile distruggere la storia; annullare cioè quei fatti ai quali un lungo volgere di anni ha apposto il suo incancellabile suggello ed ha dato l'autorità di cosa giudicata. Corre ormai il ventiseiesimo anno dal dì nel quale le ultime traccie del potere temporale dei papi furono distrutte, ed era già un pezzo che gli ultimi suoi avanzi non si potevano  più reggere per forza propria [264]. Chiunque vive nel mondo europeo, e specialmente in quello italiano, e non vuole affettare vani timori nè pascersi d'inconsulte speranze, deve scorgere chiaramente l'impossibilità materiale della sua restaurazione; e tutto fa prevedere che la quistione, che ad essa si riferisce, va posta tra quelle che il secolo ventesimo dimenticherà, incalzato, come sarà, da tante altre questioni più nuove, più calde, più urgenti [265].

IV. — Meno conciliabile è, a dir vero, il dissidio fra il metodo scientifico positivo e quella base soprannaturale e dogmatica che si trova in tutte le religioni, quella cristiana compresa, e che il Cattolicesimo segnatamente ha di recente esagerato. Ma bisogna tener presente che la fede è cosa vecchia e la scienza relativamente nuova. Essa avea già mostrato qualche barlume di sè nell'antico Egitto, in Babilonia, nell'India braminica, in China; barlumi però non coordinati, avvolti quasi sempre nel mistero ed interrotti da lunghi secoli di oscurità. Più forte fu la luce che sviluppò la civiltà greco-romana; ma anch'essa si spense quasi al declinare del mondo antico; altri sprazzi ne vediamo apparire durante l'epoca più splendida della civiltà araba, che fecondò germi preparati dalla Grecia e dalla Persia dei Sassanidi; ma anch'essi furono soffocati dall'imbarbarimento progressivo del mondo maomettano [266]. Come base integrante di una civiltà, come vero portato di un periodo storico, la scienza positiva comincia nel secolo decimosesto e non si affermò che nel decimottavo in questa Europa, che ereditò e fecondò dottrine e nozioni elaborate da tanti popoli e da tante civiltà. Ora, la guerra fra questa nuova forza sociale, che si volea affermare, e la religione che si voleva difendere, e che per prima cosa cercò di soffocare nelle fasce il nuovo concorrente, fu naturale e spiegabile. E la religione prima cercò di negare, e poi colpì d'anatema i risultati della scienza, e d'altra parte la scienza assunse con particolare impegno la missione di sbugiardare agli occhi delle masse i dogmi della religione.

Tante istituzioni però e tante persone sembrano incompatibili, le quali, dalla impossibilità di eliminarsi a vicenda e dalla necessità, che ne viene in conseguenza, di far vita insieme, sono costrette a compatirsi. Se la scienza poi attacca direttamente od indirettamente il dogma, almeno essa si svolge in un campo differente da quello delle religioni; il pensiero scientifico infatti spiega la sua azione sul raziocinio umano, mentre la fede ha la sua base nel sentimento. Il primo necessariamente è accessibile solo a quel piccolo numero di individui, che hanno la capacità e la possibilità di menare una vita fortemente intellettiva, mentre l'altra estende la sua azione sulle masse. Certo più incompatibili assai che la scienza ed una religione sono due religioni diverse, che necessariamente si devono sbugiardare a vicenda e si fanno la concorrenza sullo stesso terreno. Eppure noi vediamo che, parecchie volte, dopo lunghe ed atroci lotte, due religioni, una volta convinte della impossibilità di distruggersi, finiscono col tollerarsi a vicenda. Così è avvenuto ed avviene dovunque cattolici e protestanti, cristiani e maomettani, maomettani ed idolatri hanno convissuto e convivono pacificamente nello stesso paese.

Ma forse la China ci offre su questo argomento un esempio, che fa più al caso nostro. Colà le classi colte e governanti seguono un vago Deismo, che in fondo è un vero e proprio positivismo razionale [267], mentre il popolo è buddista, seguace della religione di Lao-Tze, o maomettano. Il Buddismo è anche in certo modo legalmente riconosciuto e l'autorità partecipa ufficialmente alle sue feste. Or potrebbe avvenire qualche cosa di molto analogo in Europa. Quivi ci pare assai improbabile che in un prossimo avvenire religioni nuove possano, non diciamo nascere, ma diffondersi; sicchè le varie forme del Cristianesimo manterranno la loro preponderanza in quei paesi dove attualmente la hanno [268]. Alla lunga una reciproca tolleranza potrebbe stabilirsi fra il positivismo o meglio l'agnosticismo scientifico degli individui più colti e le credenze seguite, non solo dalle masse povere ed incolte, ma anche da tutta quella gran parte della classe agiata, che per sesso, per abitudine, per l'educazione ricevuta o per temperamento, è più ossequente agli impulsi del sentimento.

I primi dovrebbero comprendere che non si ottiene alcun vantaggio sociale facendo la propaganda della miscredenza fra coloro che sentono il bisogno delle credenze religiose, o che son troppo ignoranti per arrivare a formarsi una concezione originale e propria intorno a certi problemi naturali e sociali. E d'altra parte, coloro che dirigono il movimento cristiano, e specialmente quello cattolico, dovrebbero pure persuadersi, e questa persuasione a dir vero è alquanto difficile che acquistino, che ormai la scienza è diventata tanta parte della vita dei popoli civili, che non può riuscire facile, e diremmo quasi che non può riuscire possibile, di soffocarla e distruggerla.

Però le soluzioni, alle quali abbiamo ora accennato, dei problemi moderni riguardanti i rapporti tra lo Stato e la Chiesa e fra la scienza e le religioni dommatiche, sono soltanto da ritenersi come possibili; il che non vuol dire che siano facili e sopratutto che sian le più probabili.

Perchè fossero adottate, dovrebbero avere molto senno politico le parti che attualmente sono in conflitto, e purtroppo, a preferenza del senno, le passioni, i rancori ed i fanatismi dirigono gli avvenimenti umani. Non bisogna poi dimenticare che attualmente la corrente democratica socialista rappresenta quasi un'altra religione, che fa una terribile concorrenza a quella cristiana, ed è con essa quasi assolutamente incompatibile.

Or, è pure possibile che, nell'urto fra queste due correnti, non resti più la libertà, la tolleranza sufficiente perchè continui a prosperare ed a vivere quel piccolissimo strato sociale capace di conservare l'indipendenza del pensiero davanti i grandi problemi sociali e politici. Pur troppo le epoche nelle quali è stato permesso di liberamente esprimere il proprio pensiero, di non esser servo di alcun fanatismo, di alcuna superstizione, sono epoche privilegiate e piuttosto eccezionali nella storia dei popoli, ed esse non hanno durato ordinariamente molto a lungo. Spesso le società umane si sono adagiate per secoli in un sistema di credenze, e ad esso hanno sacrificato la libertà di discutere e di pensare, oppure si sono dilaniate aspramente perchè due diverse correnti di dottrine e di credenze hanno conteso in tutti i modi per la preponderanza sociale. I momenti di pace, di tolleranza relativa, nei quali le passioni sono state alquanto imbrigliate e l'intelletto ha potuto con calma osservare e ragionare, sono stati in fondo fortunate parentesi, divise fra loro da lunghi periodi di cieco ed esclusivo fanatismo o di selvaggie lotte e persecuzioni.

E, che ognuna di queste parentesi possa essere chiusa, è provato dai tipi di civiltà che troviamo ora decaduti od immobilizzati, e che dovettero avere anch'essi dei momenti in cui il pensiero umano fu relativamente libero, altrimenti non si potrebbe spiegare il grado di progresso intellettuale, che pure un giorno raggiunsero. E, anche restando nell'Europa, si può rammentare che da Aristotile si andò indietro fino al bizantinismo, dalla civiltà splendida e positiva dei primi secoli dell'impero romano, che solo nei secoli decimottavo e decimonono le più colte nazioni hanno sorpassato, si andò, con una decadenza ora lenta ora rapida, alla barbarie, che troviamo descritta da Gregorio di Tours e Paolo Diacono ed a quella, forse ancora più supina e degradante, che troviamo documentata nella cronaca di Raul Glaber [269]. E ripensando a queste grandi eclissi dell'intelletto umano che, senza fare pronostici la cui difficoltà è evidente, sorge nell'animo il triste sospetto che all'epoca presente potrà succederne un'altra in cui non sarà libero per ogni individuo il professare o il non professare pubblicamente la religione cristiana, ed in cui la spontanea e sincera espressione del pensiero umano, la piena indipendenza dell'indagine scientifica potrà essere limitata dalla necessità di conservare intatto quel tipo sociale, che, dopo lunghe ed accanite lotte, sarà riuscito vittorioso.

V. — Legato al problema religioso e sopratutto al terzo problema, cioè all'avvenire della nostra civiltà di fronte allo svolgimento della democrazia sociale, è il secondo problema che ora imprendiamo a trattare, che riguarda la crisi che traversano i Governi rappresentativi e sopratutto quelli parlamentari; crisi che, ristretta oggi nel campo delle idee e delle opinioni, può allargarsi domani in quello dei fatti e determinare mutamenti graduali o repentini nelle istituzioni che reggono tanta parte d'Europa.

Cominciamo coll'osservare infatti che, non tenendo conto delle nuove forze sociali, che si affermarono durante il secolo decimottavo, forze basate sopra la produzione di nuove ricchezze e sulla diversa distribuzione delle ricchezze stesse e sul sorgere di una classe media colta ed agiata, due furono le correnti intellettuali che produssero i movimenti politici, i quali hanno condotto alla loro volta quasi tutti i popoli di civiltà europea ai governi rappresentativi e spesso anche ai governi parlamentari. La prima è quella basata sulle dottrine del Montesquieu, e che chiameremo la corrente liberale, la quale, mercè la divisione dei poteri, ha voluto fare un argine all'assolutismo burocratico, ed abbiamo già visto come, benchè incompleto, il sistema d'idee al quale ora accenniamo non si possa dire fondamentalmente errato. La seconda è la corrente democratica, il cui padre intellettuale è indiscutibilmente il Rousseau, la quale pone come base legale di ogni potere politico la sovranità popolare, il mandato che i governanti ricevono dalla maggioranza dei cittadini, e fa dipendere dalla sincera attuazione di questo presupposto non solo la legittimità dei governi, ma anche la loro bontà, ossia la loro attitudine a soddisfare gli interessi e gli ideali delle masse ed a condurle verso il miglioramento economico, intellettuale e morale [270]. Or, come più avanti cercheremo di dimostrare, questa seconda corrente d'idee, venendo alle sue ultime esplicazioni e conseguenze, ha prodotto anche la moderna democrazia sociale.

Le numerose obiezioni che ora si muovono ai governi rappresentativi, e sopratutto a quelli nei quali, per la larga base data al suffragio popolare, e più ancora per la preponderanza che ha politicamente l'organo elettivo detto comunemente camera bassa, l'ideale democratico si potrebbe dire a preferenza attuato, sono di tre ordini: Una prima categoria di attacchi e di critiche infatti si riferisce ai pettegolezzi, alle lungaggini, alle futilità di cui spesso si occupano le assemblee parlamentari. Un'altra, che fin d'ora crediamo di potere affermare che è meglio fondata, viene a preferenza formulata dai socialisti avanzati e dagli anarchici, e si può riassumere nell'accusa che, dato il presente sistema d'ineguale distribuzione della ricchezza, i parlamenti non rappresentano gli interessi e le aspirazioni della maggioranza, ma piuttosto quelle delle classi ricche e dirigenti. La terza finalmente, certo più fondata di tutte, riguarda la soverchia ingerenza, non tanto della Camera come corpo politico, quanto dei singoli deputati, nella giustizia, nell'amministrazione, nella distribuzione di tutta quella parte grandissima di ricchezza sociale, che è, sotto forma di imposte e di tasse, assorbita dallo Stato e da esso impiegata nei diversi servizi pubblici e di quell'altra parte, pure grande, concentrata nelle banche e nelle grandi speculazioni industriali, nelle Opere Pie, la quale non sfugge ordinariamente alla influenza e sorveglianza dei governi moderni.

Non ci è infatti chi non veda a prima vista quanto sia dannosa la continua ingerenza, la faccenderia dei deputati in un regime fortemente burocratizzato quale è il nostro; ad essa si è dato un nome speciale, recente e pure già odioso: si chiama infatti comunemente il Parlamentarismo.

VI. — Or gl'inconvenienti insiti a qualunque regime di discussione, la lungaggine delle assemblee, la vacuità di molti discorsi nei quali è facile scorgere che lo sfogo di piccole ambizioni e del piccolo amor proprio individuale ha una parte maggiore che la devozione al pubblico interesse, la leggerezza con cui spesso si compilano nuove leggi, l'ostruzionismo che qualche volta ritarda provvedimenti necessari, le stesse violenze di linguaggio non sempre giustificate, sono tutti senza dubbio difetti gravi; ma possono sembrare gravissimi e di capitale importanza solo a chi ha la persuasione che il regime politico di un popolo possa andare esente dalle debolezze inerenti alla natura umana. La capacità che ha l'uomo di concepire il bene, la giustizia assoluta, il modo migliore di adempiere al proprio dovere, e la difficoltà grandissima che poi prova nel regolare le proprie azioni conformandosi scrupolosamente a questi suoi concepimenti, producono la conseguenza inevitabile che non vi è uomo di Stato e forma di Governo che non possano essere oggetto di censure numerose ed, astrattamente considerate, anche giuste. L'unico criterio pratico per giudicare tanto gli uomini che i regimi politici è dunque quello di paragonarli con gli altri, e sopratutto con quelli che li hanno preceduti e, quando si può, con quelli che li hanno seguito. Or, valutati a questa stregua, i vizi delle Assemblee, le cattive conseguenze che il loro controllo e la loro partecipazione al potere può produrre in tutti i regimi rappresentativi, compresi quelli costituzionali [271], sono ben poca cosa di fronte ai danni innegabili che si avrebbero dal loro annullamento o dalla loro completa esautorazione.

Infatti, nelle presenti condizioni della società, alla soppressione della assemblee rappresentative seguirebbe immancabilmente quel regime, che si chiama comunemente assoluto, e che noi crediamo che si potrebbe meglio battezzare come esclusivamente burocratico, perchè ha come caratteristica principale l'allontanamento dalla vita pubblica di tutte le forze politiche, di tutti i valori sociali, che non fanno parte della burocrazia e, se non altro, la loro subordinazione assoluta all'elemento burocratico. Certo non escludiamo interamente che il disgusto sempre crescente del parlamentarismo e sopratutto la paura della democrazia sociale, là dove essa assume un carattere minacciosamente rivoluzionario, possano spingere parecchi popoli della moderna Europa verso un tale regime; ma non possiamo ammettere che ciò sarà un bene; e non occorre una lunga dimostrazione per questa nostra tesi, dopo quanto abbiamo esposto, nel capitolo quinto, sui pericoli e gli inconvenienti della preponderanza assoluta, non soggetta a limitazione ed a discussione alcuna, di una sola forza politica. E che non si tratti di un'obiezione puramente teorica e dottrinale, ma di un valore pratico grandissimo, è facilmente provato dall'esempio di qualche paese di civiltà europea, dove il regime rappresentativo ancora molto imperfettamente funziona, come ad esempio sarebbe la Russia, e forse meglio ancora dalle ricordanze dell'antico regime francese e da quelle più recenti che gl'Italiani, specialmente quelli del Mezzogiorno, possono facilmente rievocare [272]. Solo l'abitudine ai vantaggi di un regime di discussione pubblica di tutti gli atti dei Governi può non fare scorgere a prima vista agli osservatori superficiali della giovane generazione quale sarebbe la rovina morale che verrebbe dalla sua caduta; rovina che si esplicherebbe in una serie di attentati alla difesa giuridica, alla giustizia, a tutto ciò che comunemente dicesi la libertà, assai più perniciosi di tutti quelli che possono essere addebitati, non diciamo ai governi rappresentativi in genere, ma anche ai meno corretti fra i Governi parlamentari [273].

Le obiezioni che i socialisti molto avanzati e gli anarchici fanno comunemente al sistema rappresentativo hanno fondamento in una osservazione già da noi esposta nel capitolo VI del presente lavoro ed altrove, che molti altri scrittori hanno pure formulato e che è da maravigliare soltanto che non sia più diffusa ed accreditata. Alludiamo al fatto evidente che i membri di una Camera elettiva non sono quasi mai scelti liberamente e spontaneamente dalla maggioranza dei loro elettori, perchè questi non hanno che una limitatissima libertà di opzione tra i pochissimi candidati, la riuscita dei quali presenta una certa probabilità. Certo questa contraddizione flagrante tra il fatto ed il diritto, fra la base giuridica del mandato politico e la sua pratica esplicazione, è una debolezza grandissima di qualunque sistema rappresentativo. Però essa può fornire un argomento di capitale importanza contro al detto sistema solo a coloro, e sono ancora moltissimi, che accettano la teoria della sovranità popolare secondo la interpretazione ristretta e precisamente circoscritta, che ne hanno dato Rousseau ed i suoi seguaci della scuola democratica, pei quali significa che il Governo di ogni società debba emanare dalla maggioranza numerica dei cittadini. Ma se, come noi crediamo, la sola cosa importante e possibile in un regime politico è che vi prendano parte tutti i valori sociali, che in esso trovino un posto tutti coloro che hanno qualcuna delle qualità, che, in un dato tempo e in un dato popolo, determinano il prestigio e l'influenza delle classi e degli individui, allora si può ammettere che, come non va combattuta una religione per la scarsa veridicità dei suoi dogmi quando moralmente produce buoni risultati, così le applicazioni di una dottrina politica si possono accettare finchè hanno per conseguenza un miglioramento della difesa giuridica, benchè la dottrina stessa offra facilmente il fianco ad una critica inspirata a criteri positivi. Or è innegabile che il sistema rappresentativo dà a molteplici forze sociali il modo di partecipare al regime politico, controllando e limitando l'azione di altre forze sociali, cioè, della burocrazia. E certamente, se queste sole fossero le conseguenze e le applicazioni possibili della dottrina della sovranità popolare, converrebbe accettarle, pur riconoscendo la scarsa base scientifica della corrente d'idee e di sentimenti che le ha prodotte.

Nè si dica che il fatto che le maggioranze vere e reali hanno un'influenza molto limitata nella scelta dei rappresentanti dipenda esclusivamente dalle presenti disuguaglianze sociali. Indiscutibilmente, quando queste esistono, è naturale che la scelta degli elettori cada a preferenza su coloro che nella disuguaglianza rappresentano i punti più elevati della scala sociale; ma, anche se per un'ipotesi, che crediamo impossibile, la scala fosse livellata in modo da diventare un piano, resterebbe sempre la prevalenza inevitabile delle minoranze organizzate e facili ad organizzare, di fronte alle maggioranze disorganizzate. La moltitudine degli elettori sarebbe perciò sempre costretta a scegliere i suoi rappresentanti fra i candidati sostenuti dai gruppi di persone per gusto ed interesse più attivamente dedite alla vita politica.

Adunque, ciò che vi è di più fondato nelle critiche, che ormai da più di un ventennio si fanno contro i Governi rappresentativi, sta tutto nella soverchia ed esclusiva prevalenza degli elementi elettivi, che si verifica in molti di essi e specialmente quando degenerano nel Parlamentarismo. Il fatto che, dove questo è in vigore, esce dal seno della Camera elettiva il Ministero, che dirige tutta la vasta ed assorbente macchina burocratica, e quello più grave ancora che Presidenti del Consiglio e Ministri restano in carica finchè piaccia alla maggioranza della detta Camera il conservarli, sono le prime e vere radici dei mali così comunemente lamentati. E per essi che nelle Camere la discussione degli atti del Governo ed il controllo, che sopra l'azione governativa i deputati dovrebbero esercitare, sono quasi sempre traviati da ambizioni personali ed interessi di parte. È per essi che il desiderio naturale nei governanti di fare il bene viene efficacemente e costantemente combattuto dal desiderio, non meno naturale, di fare il proprio interesse, che il sentimento del dovere professionale è nei ministri e nei deputati sempre bilanciato da tutte le ambizioni e da tutti gli amor propri giustificati ed ingiustificati. È per essi che la macchina amministrativa e giudiziaria viene mutata in grande agenzia elettorale col relativo sperpero di pubblico danaro e di senso morale, che le pretese di qualunque grande elettore, attraverso il deputato che ha bisogno di lui, e del ministro che ha bisogno del deputato, bastano talvolta a far rinnegare qualunque rispetto all'equità ed alla legge. È infine per questa costante, procurata, flagrante contraddizione fra il dovere e l'interesse di chi governa e di chi deve limitare e giudicare l'azione del Governo, che la burocrazia e l'elemento elettivo, che dovrebbero controllarsi a vicenda, finiscono col corrompersi e con lo snaturarsi a vicenda [274].

VII. — Prima di studiare i rimedi proposti e da proporre ad un simile stato di cose conviene fermarsi un momento per esaminare cosa accadrebbe se esso durasse immutato per un certo spazio di tempo, se, ad esempio, per mezzo secolo ancora nulla di sostanziale fosse mutato nelle istituzioni che reggono tanta parte della società europea e non avvenissero in essa nuovi rivolgimenti talmente violenti da spostare le influenze e le fortune personali. Or, dato che questa ipotesi, cosa che ci pare difficile, possa avverarsi, respingiamo formalmente quell'opinione, un tempo abbracciata da molti ed ora seguita da pochi, secondo la quale le istituzioni parlamentari avrebbero in sè stesse una virtù riparatrice dei mali che producono negli inizi della loro applicazione [275]. Possiamo però ammettere che questi mali cambierebbero un po' di natura per quel fenomeno della stabilità o cristallizzazione delle influenze politiche, che avviene in tutti i paesi il cui regime politico non è per un lungo tempo cambiato da infiltrazioni straniere o da un lavorìo interiore d'idee e di passioni. I figli delle notorietà presenti del Parlamento, della Banca e della burocrazia arriverebbero infatti sempre più facilmente ai posti già occupati dai padri, e si formerebbe un piccolo mondo, una consorteria di famiglie influenti, entro la quale sarebbe difficile agli uomini nuovi di penetrare. Accadrebbe ciò che è accaduto in Roma repubblicana, dove le diverse generazioni delle famiglie più cospicue si succedevano nelle cariche più elevate e nell'Inghilterra del secolo decimottavo e dei primi decenni del decimonono fino alla riforma del 1832, quando le antiche famiglie parlamentari erano alternativamente alla testa dell'Opposizione o del Gabinetto, e si accentuerebbe ciò che già accade in Francia ed in Italia, paesi dove il sistema rappresentativo è ancora recente, nei quali spesso vediamo i figli, i fratelli ed i generi degli uomini politici ereditare i collegi dei loro parenti. Mercè questa maggiore stabilità della classe che avrebbe l'alta direzione politica si renderebbe più difficile il farsi avanti agli uomini di merito e di nascita oscura, ma crescerebbe la difficoltà anche per coloro che escono dalla folla e salgono i primi gradini della notorietà e dell'influenza politica lusingando ed acuendo le più basse o le più insensate aspirazioni della folla. Il tempo farebbe pure dimenticare la prima origine impura di molte fortune e molte influenze, ai figli nati in elevata fortuna sarebbero risparmiate le bassezze e le contraddizioni che, per arrivarvi, furono necessarie ai padri, ma diventerebbe sempre più flagrante la contraddizione fra lo spirito delle istituzioni e coloro, che sarebbero chiamati a rappresentarle, e l'oligarchia, che governerebbe a nome del popolo, e che non potrebbe mai ripudiare interamente le arti e le ipocrisie necessarie in qualunque regime parlamentare, starebbe sempre più lontana ed appartata dai sentimenti e dalle passioni del popolo. E per popolo non intendiamo solo le masse dei contadini e degli operai, ma anche quelle numerose classi medie, fra le quali si svolge tanta parte dell'attività economica ed intellettuale del paese.

Prescindendo quindi dagli effetti naturali, che eserciterebbe l'azione del tempo, la quale, come abbiamo visto, sarebbe di dubbia utilità, non è difficile escogitare quelle modificazioni degli istituti presenti, che attenuerebbero i danni del Parlamentarismo.

Non ci è infatti chi non veda quanto riuscirebbe utile l'aumentare le guarentigie d'indipendenza della magistratura, assicurando ai magistrati in tutti i paesi quella vera e reale inamovibilità di grado e di luogo, che ora è praticata soltanto in alcuni, ed elevando, a fatti non a parole, la loro posizione sociale ed il loro prestigio. Non ci è chi non veda quanto gioverebbe in Francia ed in Italia ed altrove l'introdurre il sistema della responsabilità di tutti gli impiegati dello Stato al modo tedesco, in guisa che tutti i pubblici funzionari di grado elevato rispondessero dell'opera loro davanti tribunali amministrativi realmente indipendenti, e sottraendo nello stesso tempo i detti funzionari agli arbitrii dei Ministri e quindi dei deputati.

Si potrebbe anche organizzare meglio il controllo finanziario, aumentando l'indipendenza della Corte dei Conti. Disgraziatamente tutti questi rimedi, che attenuerebbero la gravità di alcuni sintomi del male senza toglierne la radice, sono pure di difficile attuazione per la resistenza che gli elementi dominatori che hanno il battesimo del suffragio popolare, e che vengono comunemente appellati democratici, oppongono tacitamente od apertamente, in nome degli intangibili principii della sovranità nazionale, ogni qual volta si tratta di aumentare il prestigio e le attribuzioni di quegli istituti, che limitano la loro onnipotenza [276].

Più radicale ed efficace rimedio sarebbe senza alcun dubbio quello, che è stato vagheggiato da molti, e che consiste in un ritorno al sistema costituzionale del quale il Governo parlamentare non è che una trasformazione e, secondo alcuni, una degenerazione. Non bisogna nascondere che un movimento politico che cercasse di arrivare a questo resultato, avrebbe una certa facilità di pratica attuazione, perchè realmente, stando alla lettera degli Statuti e delle Carte fondamentali sulle quali posa l'edificio giuridico dei Governi moderni, non si può scorgere alcuna differenza fra il regime parlamentare e quello costituzionale, anzi tutti i testi ammettono esclusivamente l'esistenza di un regime costituzionale non già di quello parlamentare [277]. Questa forma di Governo non si è perciò stabilita se non in base ad una serie di concessioni tacitamente richieste dalla pubblica opinione e tacitamente consentite dai Capi degli Stati; sicchè basterebbe un cambiamento nell'opinione pubblica per tornare ad una interpretazione più autentica dei principii codificati nelle Costituzioni. Aggiungiamo non essere esatto ciò che alcuni credono, che il Governo parlamentare cioè abbia avuto in Inghilterra la sanzione di una durata parecchie volte secolare; perchè realmente esso cominciò colà a delinearsi soltanto poco prima della metà del secolo decimottavo e non ha funzionato secondo le norme, che i trattatisti credono corrette, se non durante il secolo decimonono e specialmente durante il lungo regno della regina Vittoria e durante quelli dei suoi successori [278].

Malgrado ciò confessiamo che una evoluzione politica nel senso indicato ci parrebbe ora di una opportunità molto dubbia. In Francia, in Italia e negli altri paesi parlamentari del continente europeo il funzionamento di tutti gli istituti politici è ormai legato al presupposto che debba vigere in fatto il regime parlamentare. È discutibile se sia stato giovevole il passaggio diretto dal regime burocratico assoluto a quello parlamentare, senza fermarsi prima, almeno per un certo tempo, nel periodo semplicemente costituzionale; ma, poichè gli eventi hanno cosi proceduto, bisogna subirne le conseguenze. Or principalissima conseguenza delle teorie e delle consuetudini politiche, che hanno finora prevalso in tanta parte d'Europa, è stata questa: che la Camera elettiva, sicura che il Gabinetto potea essere sempre rovesciato da un suo voto contrario, non ha curato abbastanza la necessità di limitarne i poteri e le attribuzioni. Sicchè essa è stata larghissima nell'aumentare le risorse, le funzioni, le inframmettenze dello Stato, ed è stata forse poco gelosa della intangibilità di alcuni dei suoi poteri [279]; perchè ha pensato che coloro che dello Stato sono a capo sarebbero sempre gli strumenti della sua maggioranza.

Così stando le cose, è evidente che il passaggio rapido dal regime parlamentare al costituzionale, nei paesi che sono al primo abituati, condurrebbe ad un sistema di Governo molto più autoritario e ristretto di quello che vediamo in vigore in quelle nazioni nelle quali il costituzionalismo puro non si è mai trasformato e le funzioni di tutti i poteri sono rimaste sempre conformi alla lettera degli Statuti fondamentali. Senza farsi illusioni, si può con quasi sicurezza affermare che una simile evoluzione, decapitando la Camera dei rappresentanti, togliendole cioè la principale delle sue attribuzioni e nello stesso tempo conservando intatta tutta quell'assorbente organizzazione burocratica, tutti quei mezzi e quelle abitudini di corruzione coi quali ora i Governi parlamentari sanno modificare i responsi delle urne, toglierebbe almeno per molto tempo ogni spontaneità di azione, ogni importanza politica ai Parlamenti e ci condurrebbe ad un regime molto simile a quell'assolutismo burocratico, del quale abbiamo poco sopra accennato i vizi e gl'inconvenienti. Ed è anche da tener presente che questi sarebbero più sentiti, più amari, più gravi se il Gabinetto, che inaugurerebbe il nuovo sistema, fosse uscito, come è molto probabile, dal Parlamentarismo e fosse quindi inquinato da tutte le corruttele e le ipocrisie inerenti alla sua origine.

VIII. — Il rimedio più efficace e più sicuro ai mali del Parlamentarismo starebbe in un discentramento largo ed organico, il quale non dovrebbe solo consistere in un passaggio di attribuzioni dalla burocrazia centrale a quella provinciale, e dalle Camere del Parlamento nazionale ai corpi elettivi locali, ma nell'affidare gran parte delle mansioni, che ora sono esercitate dalla burocrazia e dai corpi elettivi, a quella classe di persone, che per cultura ed agiatezza ha capacità, indipendenza, prestigio sociale assai superiore a quello delle masse; la quale non si dà ai pubblici impieghi e che ora, quando non riesce o non vuole farsi eleggere alla deputazione, non entra a far parte dei Consigli provinciali o di quelli dei grandi Comuni, resta completamente lontana dalla vita pubblica. È in questo modo soltanto che si possono lenire i mali del Parlamentarismo o rendere meno pericoloso per le pubbliche libertà il passaggio da esso al regime costituzionale.

Se non fosse noto altrimenti, si potrebbe rilevare da quanto noi abbiamo già scritto che le magagne dei Governi parlamentari hanno quasi tutte origine dall'indebita ingerenza che la burocrazia, per mezzo principalmente dei Prefetti, esercita nella formazione degli elementi elettivi centrali e locali e da quella, ugualmente indebita, che gli elementi elettivi centrali, ossia i deputati, esercitano alla loro volta sulla burocrazia.

Da ciò proviene un indecente ed ipocrita mercimonio di tolleranze reciproche e di scambievoli favori, che è la vera cancrena di parecchie nazioni europee. Or questo cerchio non si rompe aumentando i poteri della burocrazia o allargando le attribuzioni dei corpi elettivi, ma si spezzerà soltanto chiamando nuovi elementi politici, nuove forze sociali al servizio della cosa pubblica, perfezionando la difesa giuridica mediante la partecipazione ai pubblici uffici di tutte le persone, che hanno attitudine a ciò e che non sono impiegati salariati promovibili e traslocabili a beneplacito di un Ministro, nè devono attendere la riconferma della loro carica dalla sollecitazione dei voti, dal beneplacito di un comitato o di un faccendiere elettorale.

In Francia, in Italia ed altrove, in ogni provincia o dipartimento si potrebbe applicare il concetto testè esposto, facendo la lista di tutti coloro che hanno una laurea universitaria [280] e pagano un dato censo, e formandone una categoria speciale di funzionari gratuiti, la quale, sebbene aperta a tutti coloro che arrivassero a conquistare i titoli enunciati, pure per l'omogeneità della condizione sociale e per la naturale tendenza che ha l'uomo per le distinzioni sociali, acquisterebbe presto solidità e spirito di corpo, e dedicherebbe volentieri una parte del suo tempo ai pubblici negozi.

Fra gl'individui appartenenti a questa categoria si dovrebbero scegliere a sorte o nominare a vita, secondo i casi, i giudici conciliatori, gli ufficiali incaricati di redigere le liste degli elettori politici e comunali e alcuni nuovi funzionari, che dovrebbero essere incaricati di certe mansioni di polizia giudiziaria. Nella stessa classe dovrebbero essere scelti i componenti dei tribunali amministrativi di primo grado, che dovrebbero surrogare, là dove esistono, le presenti Giunte amministrative e che potrebbero essere anche presieduti da un magistrato di carriera. Lo stesso elemento potrebbe, anzi dovrebbe, essere rappresentato nei Consigli di prefettura.

Certo non possiamo qui esporre minutamente tutto un sistema di riforme delle istituzioni politiche ed amministrative della società europea e diamo quindi soltanto l'idea fondamentale, che del resto non è esclusivamente nostra [281], alla quale le riforme dovrebbero essere inspirate, tracciamo la via che ci pare opportuno e necessario di seguire. Non ci dissimuliamo neppure le obiezioni, che alla immediata applicazione dei nostri concetti si potrebbero opporre. Anzi, sebbene non abbiano tutte la stessa gravità, è nostro dovere farne un sommario esame.

Si può dire infatti che la presente istituzione della giuria è organizzata secondo il metodo da noi propugnato e che pure essa fa cattiva prova e si va di giorno in giorno sempre più discreditando. Ma, in primo luogo, osserviamo che le accuse contro la giuria sono forse esagerate nel senso che gl'inconvenienti, che ad essa esclusivamente si attribuiscono, sono forse a preferenza il frutto di una tendenza generale del secolo verso una soverchia mitezza nella repressione dei reati comuni; tendenza contro la quale, presto o tardi, dovrà affermarsi una forte reazione. In secondo luogo poi gli elementi che entrano nella giurìa non sono esclusivamente quelli da noi indicati, perchè, essendosi allargata molto, anzi troppo, la base di questo istituto, ne fa parte una maggioranza di persone, che non ha la preparazione intellettuale e morale sufficiente al delicato ufficio che deve esercitare.

Or gli organismi sociali spesso funzionano male, non già perchè il principio al quale devono la loro origine sia sostanzialmente falso, ma perchè è male applicato. Certo, ad esempio, è giusto il principio propugnato dal Machiavelli, che la forza armata a tutela dell'ordine e dell'indipendenza di uno Stato debba essere composta di cittadini, che a turno prestino il loro servizio, anzichè di stranieri e di mercenari, che della milizia fanno un mestiere. Ma, mentre una sapiente ed accorta applicazione di questo principio ha prodotto i moderni eserciti stanziali, un'applicazione inorganica e leggiera dello stesso avrebbe risultati identici a quelli che diedero l'ordinanza fiorentina creata secondo i suggerimenti del segretario fiorentino e la guardia nazionale che funzionò in Italia fino a quarant'anni fa.

Si può anche obiettare che la formazione di una classe di funzionari come quella da noi accennata avrebbe qualche cosa di artificiale e di arbitrario. Non neghiamo che ad un osservatore superficiale la critica possa sembrare giusta, perchè nessun istituto umano, nessuna legge, si sottrae alla necessità di stabilire limiti che hanno qualche cosa di artificioso e convenzionale [282]; ma, nel caso nostro, se guardiamo alla sostanza delle cose, ci pare che sia perfettamente il contrario. Nei nostri costumi e nelle nostre abitudini private facciamo infatti sempre una notevole distinzione tra colui che ha un'elevata cultura e per la sua posizione economica fa parte della buona società, e l'uomo povero ed ignorante; e, se politicamente sono ambidue considerati alla stessa stregua, ciò dipende appunto dal fatto che nel nostro ordinamento politico prevalgono criteri arbitrari e convenzionali. Se una cosa ci deve perciò far maraviglia è la nullità politica come classe di coloro che hanno i requisiti accennati. E diciamo pensatamente come classe, perchè poi, individualmente, escono ora quasi tutti dagli strati sociali che hanno una certa agiatezza ed una certa cultura coloro che coprono le cariche elettive di qualche importanza, cioè i deputati, i consiglieri provinciali o dipartimentali ed i sindaci ed i consiglieri comunali delle grandi città. Il male è che ne escono dopo esser passati, meno rare eccezioni, attraverso un sistema di selezione alla rovescia, che esclude dai posti di maggiore importanza quanti non vogliono o non possono comprare i voti degli elettori, oppure coloro che hanno carattere troppo elevato per sacrificare all'ambizione la dignità, e troppa lealtà e correttezza per profondere promesse che sanno di non poter mantenere, o che si mantengono soltanto col sacrificio dell'utile pubblico a quello privato.

Più grave, più reale è l'ostacolo che all'attuazione pratica dei nostri concetti verrebbe dalle presenti condizioni economiche di molti paesi d'Europa. Nel secolo scorso e nella prima metà di quello presente, la gentry inglese ha esercitato quasi tutti gli uffici equivalenti a quelli che noi vorremmo affidati alla classe, che ad essa corrisponde nella società del continente europeo; e li ha esercitato in base ad un sistema analogo a quello che vorremmo introdurre nei nostri paesi, sistema che purtroppo, è bene che lo dichiariamo fin da ora, per l'influenza delle moderne idee democratiche, ha perduto negli ultimi decenni molto terreno anche al di là della Manica.

Ma l'Inghilterra è stata negli ultimi secoli un paese relativamente ricco e, fino a cinquant'anni fa, la scienza non avea una così larga applicazione nei varii rami dell'attività sociale: perciò a stabilire il prestigio di un individuo bastava una certa agiatezza ed una certa educazione morale e non era, come oggi, quasi indispensabile che a questi fattori si aggiungesse una cultura superiore. Ora le necessità dei tempi e sopratutto il bisogno di mantenere la propria influenza possono indurre la classe più ricca, quella che possiede le grandi fortune, a scuotere la tradizionale ignavia, della quale ha dato in molti paesi spettacolo, ed a seguire i corsi universitari; ma questa classe è e sarà sempre molto ristretta, e non potrà bastare a tutti gli uffici che abbiamo enumerato, se non è unita a quell'altra, che possiedo solo una onesta e mediocre agiatezza.

Intanto questo strato sociale è appunto quello, che più stenta a mantenere il proprio rango, colpito come è, forse a preferenza degli altri, dai pesantissimi e depauperanti sistemi tributari moderni. Sicchè esso difficilmente in molti paesi conserva quel margine di benessere economico, che è indispensabile per adire la cultura superiore quasi esclusivamente a scopo di decoro individuale, di lusso di famiglia, di utilità sociale; ma a preferenza la consegue con uno scopo professionale, costretta come è ad avere quei diplomi, che sono necessari per l'esercizio delle carriere dette liberali. E fin qui il danno sociale sarebbe forse tollerabile, ma il peggio è che l'ingombro di queste carriere spinge sempre più questa classe verso la ricerca affannosa dei pubblici impieghi, i quali per le pressioni degli aspiranti si moltiplicano non solo nelle amministrazioni centrali, ma anche in quelle locali, occasionando nuove spese e nuove ingerenze burocratiche. Sicchè si stabilisce un cerchio fatale di cause ed effetti reciproci, per il quale la rovina della media proprietà e dei capitalisti mediocri, dovuta al soverchio peso delle imposte, rende quasi necessario di aumentare ancora le imposte: e vengono così trasformati in funzionari di carriera quegli stessi elementi sociali, che, in un paese più prospero, resterebbero liberi cittadini e costituirebbero il più efficace controllo all'azione della burocrazia.

Ma anche le difficoltà economiche si potrebbero gradatamente superare, se, alla formazione di una nuova aristocrazia a basi larghe, di una classe numerosa, che racchiuderebbe quasi tutte le energie morali e le forze intellettuali delle nazioni e che sarebbe lo strumento più atto a contrappesare le oligarchie burocratiche, bancarie ed elettorali, non fosse più forte e meno vincibile ostacolo quella corrente democratica, ancora tanto in voga, la quale nessuna legittimità di azione politica, nessuna prerogativa ammette, che non emani direttamente od indirettamente dal suffragio popolare. Questa corrente, che, come abbiamo già accennato, ha contribuito potentemente a diminuire, negli ultimi decenni, le attribuzioni della gentry inglese e le ha affidate in cambio all'elemento elettivo od alla burocrazia, spiegherebbe tutta la forza di cui è ancora capace per impedire che una evoluzione in senso inverso si compisse nel continente europeo. In fondo perciò la maggiore difficoltà nei rimedi da applicare ai mali del parlamentarismo sta tutta nelle condizioni intellettuali delle società, che sono rette a sistema parlamentare, nelle dottrine cioè e nelle opinioni che in esse sono più diffuse; e, nella ricerca di questi rimedi, finiamo col trovarci di fronte a quello stesso ordine d'idee e di passioni al quale deve la sua origine la democrazia sociale [283].

IX. — Cominciando l'esame di quest'ultimo ed importantissimo degli argomenti, che ci eravamo prefissi di trattare, sarà opportuno premettere un po' di storia. In parecchi movimenti religiosi e sociali, che poi hanno assunto grandi proporzioni, può riuscire difficile il rintracciare esattamente e determinare la parte precisa che il primo fondatore ed i suoi prischi collaboratori hanno avuto nella maniera come i detti movimenti praticamente si sono svolti; diciamo di più che non è agevole l'accertare la fede di nascita dei primi maestri ed i caratteri che, fin dalla nascita, erano loro speciali. La personalità di Sakya Muni resta confusa infatti tra il vago e l'incerto delle leggende buddistiche e forse non si potrà mai determinare la parte che Manete, primo fondatore del Manicheismo, ebbe in quelle credenze che poi produssero in Persia sulla fine del secolo quinto una specie di tentativo di rivoluzione sociale. Ma, quando spuntò l'alba del socialismo odierno, eravamo già in un periodo intellettualmente assai più maturo, nel quale le dottrine nuove ed i ricordi personali venivano subito raccolti e fissati in libri pubblicati a migliaia di copie, che non saranno mai forse interamente distrutti e perduti. I primordi perciò delle attuali dottrine riformatrici sono noti e possono essere seguiti passo per passo; ed, arrivando alle loro non lontane origini, facilmente constatiamo che Voltaire e i suoi seguaci ebbero una parte importantissima nel distruggere il mondo antico, ma non accennarono quasi mai a sistemi sociali nuovi che a quello allora vigente si potessero sostituire. Sicchè il vero padre di quei sentimenti, di quelle passioni, di quel modo di comprendere e giudicare la vita sociale, che hanno avuto per conseguenza pratica la nascita e lo sviluppo della democrazia sociale, è indiscutibilmente, per come molti hanno già osservato prima di noi, Giangiacomo Rousseau [284].

Certo è facile trovare nella China, nell'India, perfino nell'antico Egitto, in qualche scrittore greco e romano, nella Persia dei Sassanidi, fra i Profeti d'Israele e fra i Santi Padri della Chiesa cattolica, negli eresiarchi cristiani del Medio Evo e del principio dell'era moderna e fra i rèformatori della religione maomettana, idee, sentimenti, giudizi staccati e talvolta anche sistemi completi di credenze, che si avvicinano mirabilmente a quelli dei moderni socialisti [285]. Ciò è molto naturale perchè i sentimenti sui quali poggiano tanto le scuole socialiste propriamente dette, quanto quelle anarchiche, non sono certo esclusivi delle odierne generazioni europee ed americane. Inoltre l'applicazione dello spirito critico all'analisi delle istituzioni sociali contemporanee, collo scopo di fornire una base razionale e sistematica, almeno apparente, alla esplicazione dei sentimenti accennati, è pure un fatto antico ed abbastanza ovvio, che può accadere in tutte le società umane arrivate ad un certo periodo della loro maturità.

Però ciò non significa che il socialismo odierno discenda per filiazione morale ed intellettuale diretta e non interrotta da alcuna delle dottrine che hanno con esso qualche analogia, e che fiorirono nelle diverse parti del mondo in secoli più o meno remoti, e perirono dopo aver lasciato nella storia traccie più o meno profonde della loro propaganda. Le odierne scuole riformatrici, tanto socialiste che anarchiche, che non si riattaccano ad alcun principio religioso ed hanno una base puramente razionale, sono invece un parto spontaneo delle condizioni intellettuali e morali del secolo decimottavo e del secolo decimonono. Il loro germe è tutto in quella dottrina che proclama l'uomo naturalmente buono, e sostiene che la società lo rende cattivo, dimenticando che la struttura di una società non è che un risultato delle transazioni e degli equilibri fra gli svariati e complicatissimi istinti umani.

Or il primo che formulò nettamente questa dottrina, colui che ne fu il propugnatore più illustre, è senza dubbio il filosofo ginevrino, nelle cui opere, del resto, non solo appare esplicitamente il concetto che pone la giustizia assoluta a fondamento di tutte le istituzioni politiche e condanna perciò ogni disuguaglianza politica ed economica, ma anche agevolmente si riconoscono quei sentimenti di rancore verso i prediletti della fortuna, i ricchi, i potenti, che entrano per tanta parte nel bagaglio polemico dei socialisti delle generazioni passate e della presente [286].

Il lavoro sull'origine della ineguaglianza fra gli uomini, nel quale il Rousseau poneva quei germi che, fecondati maravigliosamente dall'ambiente, doveano tanto svilupparsi, fu pubblicato nel 1754 e già l'anno dopo, nel 1755, dai principii posti si traevano le naturali conseguenze in un libro lungamente oscuro, attribuito per un pezzo al Diderot, ma il cui vero autore è certo Morelly, e nel quale già sono grossolanamente ma chiaramente tracciate le linee fondamentali di una riforma sociale in senso collettivista [287]; ed ugualmente per l'abolizione della proprietà privata conchiudeva nel 1776 uno scrittore, ai suoi tempi abbastanza celebre e conosciuto, cioè l'abate Mably, e la famosa frase di Proudhon che la proprietà è un furto la troviamo già in un opuscolo pubblicato nel 1778 da quel Brissot di Warville, che divenne poi uno dei capi più noti del partito girondino [288].

Si è molto disputato e si disputa ancora se gli uomini che diressero il gran movimento rivoluzionario francese alla fine del secolo XVIII fossero stati o no intinti di dottrine socialiste. Anteriormnente al 1848 il Blanc lo ha affermato ed il Quinet, fondandosi principalmente sulle memorie del convenzionale Baudot, lo ha negato. A noi pare evidente che il socialismo debba essere una conseguenza necessaria della democrazia pura, se almeno per democrazia devesi intendere la negazione di ogni superiorità sociale che non sia basata sul libero consenso della maggioranza; e su questo punto non esitiamo a dar perfettamente ragione allo Stahl e torto al Tocqueville e ad altri, che hanno sostenuto il contrario. Però una conseguenza necessaria non vuol dire che debba essere immediata, ed è naturale anzi che corra un certo tempo fra il tentativo di attuare l'uguaglianza assoluta nel campo politico e l'altro col quale si cerca di applicarla anche nel campo economico, giacchè ordinariamente solo l'esperienza insegna che la prima è del tutto apparente se non è completata dalla seconda. Sicchè, durante il periodo che corre dal 1789 al 1793, un po' perchè l'esperienza mancava, un po' perchè le dottrine socialiste erano ancora nella loro infanzia e non erano state ancora bene elaborate e concretate in sistemi che avessero almeno l'apparenza scientifica, sopratutto poi perchè i capi dei rivoluzionari d'azione, se erano soldati, si contentavano di arrivare in un par d'anni da sergenti a generali, se avvocati, si limitavano a diventare (quando non morivano sulla ghigliottina) legislatori, proconsoli, membri dei Comitati di salute pubblica, o alla peggio altissimi funzionari, e perchè tutti costoro, insieme ai contadini, trovavano assai comodo acquistare dallo Stato le proprietà private degli emigrati mercè un pugno di assegnati senza valore, le teorie che ufficialmente prevalsero nelle varie Assemblee legislative e costituenti furon quelle che i socialisti odierni chiamano individualiste e borghesi. Vero è che se tali furono le dottrine prevalenti, ben altra intonazione ebbero gli istinti e le passioni che allora si scatenarono, e che, se non si fece ufficialmente la guerra alla ricchezza ed alla proprietà privata in genere, la si fece, in generale con molta efficacia, ai proprietari ed ai ricchi. Quindi di fatti e discorsi dei rivoluzionari d'allora, perfettamente all'unisono colle aspirazioni dei socialisti rivoluzionari di mezzo secolo fa e d'oggi, se ne possono citare a dovizia [289].

Nondimeno, quando il movimento rivoluzionario era già al suo declinare, troviamo un tentativo per attuare l'uguaglianza assoluta e porre termine alle oppressioni ed ai privilegi, mediante l'abolizione della proprietà privata e la concentrazione di tutta la ricchezza nelle mani dello Stato. Questo infatti era il fine, che, come è notorio, si proponeva di raggiungere il famoso Cajo Gracco Babœuf. La cospirazione degli Eguali, della quale costui era a capo, comprendeva tutta quella parte dei sopravvissuti giacobini, che nelle idee socialiste, come abbiamo visto non ignote alla fine del secolo scorso, volevano attingere la forza ravvivatrice della rivoluzione, che accennava a spegnersi nell'anarchia o nel cesarismo. Compagno del Babœuf, che, sventata la sua congiura, fu ghigliottinato come si sa nel 1797, era l'italiano Buonarroti, anello di congiunzione fra i socialisti del secolo scorso e quelli della prima metà del presente. Egli infatti espose chiaramente le dottrine del suo maestro in un libro che comparve nel 1828, che contiene tutta la parte essenziale delle dottrine secondo le quali lo Stato deve diventare unico proprietario delle terre e dei capitali [290].

Questo libro ebbe una grandissima influenza nell'educazione intellettuale di tutte le conventicole rivoluzionarie che si formarono in Francia poco prima e sopratutto dopo della rivoluzione del 1830, quando le passioni e gl'intelletti cominciarono ad agitarsi nel senso di una radicale riforma della società e si costituì il primo grande ambiente socialista. Pochi anni prima del Buonarroti aveano cominciato le loro pubblicazioni il Fourier ed il Saint-Simon [291], e nei dieci o quindici anni che seguirono il 1830 il socialismo veniva fecondato dalle pubblicazioni di Pietro Leroux [292], di Luigi Blanc [293] e di Proudhon [294], per tacere degli astri minori. E, a stare bene attenti, nella feconda fioritura d'idee riformatrici che ebbe luogo in Francia dal 1820 al 1848, troviamo già accennate tutte le varietà e le gradazioni del socialismo presente. Abbiamo infatti già il socialismo legalitario di Fourier e quello rivoluzionario di Blanc, ci sono già in Proudhon i germi delle dottrine anarchiche e nel Buchez è già abbozzato il socialismo cristiano [295]; e, se guardiamo ai metodi coi quali si faceva la propaganda, constatiamo anche allora la pubblicazione del romanzo collettivista che mena grande rumore [296].

X. — Se una lettura attenta degli scrittori socialisti anteriori al 1848, che sono quasi tutti Francesi, ci può facilmente convincere che essi poco o nulla lasciarono da inventare ai Tedeschi che vennero dopo, se si può agevolmente scorgere che Marx non ha fatto che sviluppare sistematicamente, in una forma più strettamente logica e valendosi di una conoscenza più ampia dell'economia politica classica ed anche della filosofia hegeliana, quegli stessi principii, che già avevano posato il Buonarroti, il Leroux, il Blanc e sopratutto il Proudhon, non è men vero che il socialismo contemporaneo è un fenomeno sociale assai più grave di quello di sessanta anni fa. La sua diffusione, infatti, è senza paragone maggiore, perchè, invece di essere ristretto quasi unicamente alle grandi città della Francia e sopratutto a Parigi, abbraccia quasi tutta l'Europa oltre agli Stati Uniti d'America ed all'Australia, sicchè si può dire che sia un bene od un male comune a tutti i popoli di civiltà europea. Nè in profondità ha guadagnato meno che in estensione; giacchè gl'istinti rivoluzionari ed i propositi generosi, che prima trovavano un obbiettivo ed uno sfogo nel movimento semplicemente democratico o in quello per la ricostituzione di alcune nazionalità, ora che i governi rappresentativi a larga base sono stati introdotti quasi dappertutto ed hanno avuto spesso per risultato le delusioni del Parlamentarismo, ora che l'unità italiana e quella tedesca sono da un pezzo quasi compiute e che la quistione polacca può sembrare tristamente giudicata, si sono tutti concentrati nell'aspirazione di riforme sostanziali del presente ordinamento sociale [297].

È venuto un momento in cui sono molti al mondo che hanno sete di giustizia e nutrono la speranza di poterla presto soddisfare. Ormai non è più un pensatore, un uomo di cuore isolato “che ha veduto tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole, ha veduto le lagrime degli oppressi, i quali non hanno alcun consolatore, nè forza da potere scampare dalle mani dei loro oppressori” [298] e, colla constatazione generale del danno, va unita la fiducia nella possibilità di un sollecito rimedio.

La credenza che i primi Cristiani avevano nel prossimo avvento del regno di Dio, che dovea fare sparire il male, premiare i giusti, punire i malvagi, trova il suo riscontro nella persuasione, diffusa in tutti gli strati sociali, che la parte maggiore delle iniquità, che si trovano nel mondo, sia imputabile alla maniera come è ora organizzata la società, e che esse potrebbero essere evitate se coloro che hanno nelle mani il potere sociale non fossero lo strumento dei ricchi e dei forti ed intervenissero efficacemente a favore dei deboli. Questa persuasione, che ornai ha conquistato tante menti e riscalda tanti cuori, la convinzione omai tanto sparsa che vi sia una quistione sociale, che fra poco siano inevitabili importanti riforme del diritto di proprietà, della famiglia, di tutta la presente organizzazione industriale e capitalistica, i tentativi e le promesse, che gli stessi governanti ed i Sovrani non mancano talvolta di fare su questo argomento, contribuiscono a formare quell'ambiente intellettuale e morale in cui il socialismo militante vive, prospera, si diffonde.

Col favore infatti di quest'ambiente, attorno ai più reputati maestri ed organizzatori, si sono formate due numerosissime organizzazioni politiclie, ognuna delle quali ha le sue aspirazioni, i suoi programmi, le sue dottrine abbastanza circoscritte e determinate, quasi due vere Chiese: esse sono costituite dai seguaci del collettivismo e da quelli dell'anarchia. Ambedue hanno, a somiglianza delle comunità religiose, una certa tendenza all'universalità e, se non spediscono missionari a convertire i barbari, esercitano però la loro propaganda in quasi tutti i popoli di civiltà europea; in una di esse più specialmente, cioè in quella collettivista, vediamo che, malgrado i numerosi eresiarchi ed i frequenti scismi, fenomeno comune a tutti gli organismi giovani e pieni di vita, i capi, gl'ispiratori, si riuniscono in frequenti concilii nazionali ed universali, e discutono intorno ai dogmi, alla disciplina, alla linea di condotta che il partito deve tenere, e fissano norme e metodi, che poi sono dalla moltitudine dei credenti universalmente accettati.

XI. — L'esporre succintamente i postulati del collettivismo è cosa abbastanza facile, essendo essi già abbastanza noti a tutte le persone di qualche cultura dopo che, da non pochi anni a questa parte, i suoi seguaci son diventati cosi numerosi da essere rappresentati nei Parlamenti dell'Italia, della Francia e sopratutto della Germania, dove essi assumono il titolo, che noi crediamo il più scientificamente adatto a designarli, di democrazia sociale. Secondo dunque la dottrina universalmente riconosciuta per ortodossa, lo Stato rappresentante della collettività dei cittadini dovrebbe essere l'unico proprietario di tutti gli strumenti di produzione, siano essi capitali propriamente detti, macchine o terreni, e dovrebbe essere l'unico direttore e l'unico distributore della produzione economica.

Non essendovi più nè proprietari d'immobili, nè capitalisti privati, tutti lavorerebbero per conto dell'intera società, e l'organismo sociale provvederebbe a tutti o in ragione del bisogno di ogni individuo, come avrebbe voluto una formola più semplice e più antica, o in ragione del lavoro compiuto, come vorrebbe la formola più nuova ed ora più generalmente accettata [299].

Tutta la macchina cosi organizzata sarà poi amministrata e diretta da capi scelti dal popolo a suffragio universale, che avranno cura di attribuire ad ognuno quella qualità di lavoro di cui è più capace, faranno in modo che i prodotti del lavoro e dei capitali sociali non siano sciupati nè indebitamente sottratti o goduti, e nello stesso tempo ne distribuiranno ad ogni individuo, con perfetta equità e giustizia, quella quota esatta, che gli spetta o come prodotto del proprio lavoro onestamente ed infallibilmente calcolato, o per i propri bisogni, dei quali con eguale imparzialità i governanti si saranno formato un esatto criterio.

Or noi non vogliamo tener conto delle lotte civili, delle violenze, che molti giustamente ritengono indispensabili per l'attuazione di questo programma e che certo non farebbero che esasperare gli odi e rancori e le cupidigie e, dividendo la popolazione in vincitori e vinti e mettendo i secondi in balia dei primi, darebbero agio di sfrenarsi ai più malvagi tra gl'istinti umani. Ammettiamo anzi che le riforme accennate siansi potute compiere pacificamente e di comune accordo, o che i secoli col loro volgere abbiano già spento l'ultima eco delle guerre fratricide, con le quali il nuovo tipo di organizzazione sociale si era inaugurato. Ammettiamo anche di più, che la produzione e la ricchezza totale della società non sia, come vogliono gli economisti, e come ci pare che essi abbiano indiscutibilmente provato, col nuovo sistema notevolmente diminuita. Anzi siamo prontissimi a riconoscere che il lato etico del problema sociale debba avere un'assoluta prevalenza su quello esclusivamente economico e che giustamente per molte menti e molte coscienze il poco, ben diviso, sia preferibile al molto, diviso male. Ma, dopo aver tanto conceduto, abbiamo il diritto ed il dovere di proporre un'altra quistione, che chiameremo politica, perchè è la più larga, la più comprensiva che si possa immaginare; perchè è un prodotto spontaneo dell'esame sintetico di ogni ordine di rapporti sociali; perchè la sua soluzione deve interessare non meno gli economisti ortodossi che i socialisti, non meno i capitalisti che gli operai, i ricchi che i poveri; perchè essa è la prima, la più importante per tutti i cuori nobili, per tutti gl'intelletti spregiudicati, che, al disopra di qualunque formola e di qualunque partito, pongono la ricerca spassionata di un assestamento sociale che rappresenti il massimo del bene che sia lecito alla nostra povera umanità di raggiungere. Abbiamo dunque il diritto ed il dovere di chiedere se, con l'attuazione del sistema comunista o di quello collettivista, la giustizia, la verità, l'amore ed il compatimento reciproco fra gli uomini avranno nel mondo un posto maggiore di quello che ora vi occupano: se i forti, che staranno sempre in alto, saranno meno soverchiatori; se i deboli, che rimarranno sempre in basso, saranno meno soverchiati. A questa domanda rispondiamo fin d'ora recisamente, ma osiamo dirlo ponderatamente, con un no.

Un uomo di mente ci disse una volta che era impossibile allo studioso di scienze storiche e politiche di prevedere esattamente ciò che avverrà in un futuro prossimo o remoto nelle società umane, perchè vi è sempre negli eventi umani una parte dovuta a ciò che comunemente si chiama il caso fortuito, la quale non potrà mai essere in anticipazione calcolata; aggiungeva però che si può al contrario prevedere molto bene ciò che non avverrà mai, l'indagine negativa avendo una base sicura nella conoscenza della natura umana, la quale mai permetterà che si attui realmente ciò che ad essa fondamentalmente ripugna [300]. La seconda di queste massime ci pare molto applicabile al caso che ora stiamo studiando, e la sua applicazione deve riuscire tanto più facile che in gran parte non si tratta già di prevedere ciò che potrà o no accadere, ma di constatare semplicemente ciò che è accaduto e tutti i giorni accade; sicchè il moltissimo già per esperienza noto ci rende agevolissimo lo stabilire ciò che sarà il poco, che alcuni credono ancora un ignoto.

Infatti le società comuniste e collettiviste sarebbero senza dubbio rette da magistrati eletti esclusivamente a suffragio universale [301], e noi sappiamo già come funzionino i poteri politici dove essi sono in mano quasi esclusivamente ai così detti mandatari del popolo. Sappiamo già come le maggioranze non abbiano che un semplice diritto di opzione fra i pochi candidati possibili e come non possano perciò esercitare sopra di essi che un controllo saltuario, limitato e spesso inefficace; sappiamo come l'indicazione dei candidati stessi sia quasi sempre l'opera di minoranze organizzate per gusto o per mestiere dedite alla politica elettorale, di caucus e di comitati i cui interessi sono spessissimo in contradizione con quelli delle maggioranze. Conosciamo già quali siano le astuzie usate dai peggiori per falsare a loro profitto i verdetti delle urne, quali siano le bugie che si dicono, le promesse fallaci e le violenze che si fanno, per carpire i voti degli elettori.

Ma, possono obiettare i comunisti e collettivisti, tutto ciò avviene perchè esiste la presente organizzazione capitalistica, perchè ora i latifondisti ed i proprietari delle grandi fortune mobiliari hanno mille modi diretti ed indiretti di coartare e comprare i voti dei poveri, dei quali si giovano per rendere il suffragio universale una menzogna ed assicurarsi la preponderanza politica; ed è appunto per evitare gl'inconvenienti testè enumerati che bisognerebbe, quando non ci fossero altre ragioni, cambiare radicalmente l'ordinamento sociale. Coloro che ragionano in questo modo dimenticano però un particolare della questione, che a noi non pare trascurabile; dimenticano cioè che, anche nelle società organizzate come essi vorrebbero, vi sarebbero sempre coloro che amministrerebbero la pubblica ricchezza e vi sarebbe la grande massa degli amministrati, che si dovrebbero contentare della parte che loro verrebbe attribuita. Or gli amministratori della repubblica sociale, che sarebbero nello stesso tempo i capi politici, diverrebbero indubbiamente molto più potenti dei ministri e dei milionari d'oggidì.

Poichè l'uomo, che avrà la facoltà di costringere gli altri ad un dato lavoro e di fissare la porzione di godimenti e di soddisfazioni morali e materiali, che dovrà essere il correspettivo di questo lavoro, per quanto possa essere frenato da leggi e regolamenti, sarà sempre il despota dei suoi fratelli e potrà sempre far piegare a suo vantaggio la loro coscienza e la loro volontà [302].

E tutte le menzogne, tutte le viltà, tutte le violenze e le baratterie, che ora non servono soltanto per brigare i suffragi del popolo ma si adoperano anche per farsi avanti nei pubblici impieghi semplicemente per far quattrini presto e con modi poco scrupolosi, in un regime collettivista sarebbero tutte consacrate allo scopo di diventare amministratori dell'azienda sociale. Unica sarebbe la mèta degli avidi, dei furbi e dei violenti, unica la tendenza delle cabale e delle combriccole, che non mancherebbero di formarsi a scapito dei caratteri più miti, più giusti, più leali. E la differenza sarebbe tutta a vantaggio della società presente; poichè la distruzione della pluralità delle forze politiche, della diversità dei modi e delle vie con cui ora si acquista l'importanza sociale, toglierebbe ogni indipendenza ed ogni possibilità di controllo reciproco. Ora almeno l'impiegato può ridersi del milionario; un buon operaio, che sappia bene guadagnarsi la vita colle proprie braccia, nulla ha da temere dal capo-divisione, dal deputato o dal ministro; chiunque abbia una posizione discreta come proprietario, industriale o professionista può portare la fronte alta dinanzi a tutti i poteri dello Stato ed a tutti i latifondisti ed alti baroni della finanza che stanno nel mondo. Col collettivismo nessuno potrà fare a meno di essere sottomesso agli uomini che saranno al governo, essi soli potranno dispensare i favori, il pane, la gioia ed il dolore della vita. Una tirannide unica, assorbente e schiacciante graverà su tutti; i grandi della terra saranno i padroni assoluti di tutto, e la parola indipendente di chi da loro nulla teme e nulla spera non verrà più a frenarne gli eccessi.

Cita il George frequentemente, nel suo libro intitolato Progresso e Povertà, un passo dei Vedas nel quale è detto che gli elefanti folli d'orgoglio ed i parasoli ricamati d'oro sono il frutto della proprietà privata della terra. Al giorno d'oggi, che la civiltà è più raffinata e la vita più multiforme, la ricchezza può procacciare ben altro che elefanti e parasoli; ma in fondo i privilegi che essa conferisce a chi la possiede consistono nel render più facile il conseguimento dei piaceri intellettuali, nel più abbondante godimento di quelli materiali, in soddisfazioni di vanità e d'amor proprio e sopratutto nel poter disporre delle volontà altrui, conservando indipendente la propria. Or i capi di una repubblica comunista o collettivista disporrebbero più che mai tirannicamente delle volontà degli altri e, potendo distribuire privazioni o favori, avrebbero mezzo di godere, forse più gesuiticamente ma con eguale abbondanza, di quei piaceri materiali e di quei trionfi della vanità, che ora sono patrimonio dei potenti e dei milionari; come questi, e meglio di questi, potrebbero avvilire la dignità degli altri uomini e potrebbero corrompere la virtù delle donne [303].

XII. — Più che nella parte positiva, la forza delle dottrine socialiste e di quelle anarchiche sta nella parte negativa, cioè nella critica acuta, minuziosa, spietata, che fanno degli ordinamenti presenti.

Or che la distribuzione della ricchezza, così come si è fatta per il passato e come avviene ai nostri tempi, considerata dal punto di vista della giustizia assoluta, offra margine a molti e gravissimi appunti, perchè consacra grandi e flagranti ingiustizie, è cosa tanto evidente che l'affermarla ci pare quasi una vera e propria banalità. In verità non ci volevano il sottilissimo ingegno del Proudhon, non le lunghe ed algebriche deduzioni del Marx, nè la potente e sanguinosa ironia del Lassalle, per provare ciò che salta tanto agevolmente agli occhi di tutti, anche dell'osservatore più superficiale e profano: che il godimento individuale dei beni della vita non è proporzionato, non diciamo allo stento, ma neppure al merito del lavoro, che è stato impiegato a produrli. Accade nella vita economica ciò che osserviamo tutti i giorni nella vita politica, in quella scientifica, in tutti i rami, insomma, dell'attività sociale: che il successo, cioè, quasi mai è proporzionato al merito; che fra il servizio reso da un individuo alla società ed il guiderdone che ne ricava vi è quasi sempre un grande e spesso stridente squilibrio.

Il combattere il socialismo volendo negare o semplicemente attenuare la verità del fatto testè da noi accennato, equivale a porsi sopra un terreno nel quale si è sicuri di avere la peggio. Gli economisti ortodossi, che qualche volta l'hanno tentato ed hanno cercato dimostrare che la proprietà privata delle terre e dei capitali non solo è indispensabile o utile per la convivenza sociale, ma risponde anche ai dettami assoluti della morale e della giustizia, ci pare che abbiano prestato il fianco a poderosissimi attacchi; e la loro tesi, che in ogni tempo potrebbe essere giudicata difficile, anzi quasi disperata, raggiunge l'evidenza dell'assurdità nei tempi che corrono, quando tutti sappiamo con quali modi si costituiscano di frequente le grandi fortune.

Tutto ciò che si può e si deve obiettare alla critica demolitrice dei socialisti si riassume in una verità, che può sembrare crudele ed alla quale abbiamo già accennato, ma che è utile e morale che sia altamente e ripetutamente proclamata. Questa verità consiste nella constatazione che non vi può essere organizzazione sociale che sia basata esclusivamente sul sentimento della giustizia e che da questo lato quindi non lasci molto a desiderare. Ed è naturale che sia così, perchè ogni individuo non è mai nella sua condotta privata e pubblica guidato esclusivamente dal senso del giusto, ma anche dalle sue passioni e dai suoi bisogni. Solo chi si isola dal mondo, chi rinuncia ad ogni ambizione di ricchezza o di potere, ad ogni vanità mondana, ad esplicare in qualsiasi modo la propria personalità, può lusingarsi che i suoi atti siano inspirati dal sentimento assoluto della giustizia; ma l'uomo d'azione, che sta nella vita politica o in quella degli affari, sia egli commerciante o proprietario, professionista o manuale, sacerdote di una religione od apostolo del socialismo, mira sempre a raggiungere il successo, e perciò la sua condotta sarà sempre il risultato di una transazione, consciente od inconsciente, fra il sentimento della giustizia ed i suoi interessi [304]. Il volere, con sentimenti così fatti, costituire un tipo di organizzazione sociale corrispondente in tutto a quell'ideale di giustizia che l'uomo può concepire ma non sa attuare, è un'utopia che in certe circostanze può diventare pericolosa; quando essa cioè riesce a far convergere una quantità di forze intellettuali e morali verso il conseguimento di uno scopo che non sarà mai una verità e che il giorno che si tenterà di realizzare non potrà produrre che il trionfo dei peggiori e lo sconforto e la delusione dei buoni [305].

I dottori del socialismo affermano che tutte o almeno gran parte delle imperfezioni umane, delle ingiustizie che ora si commettono sotto il sole, non sono un effetto delle naturali condizioni etiche della nostra specie, ma piuttosto di quelle che ad essa vengono imposte dalla presente organizzazione borghese. Uno di questi dottori in un suo recente lavoro ha detto esplicitamente che "cambiando le condizioni sociali, secondo gl'intenti che si propone il socialismo, avremo una profonda trasformazione della natura umana" [306].

Or noi non faremo il torto ai riformatori odierni di supporre che essi vogliano riprodurre sotto una forma nuova il vecchio aforisma di Rousseau: che l'uomo nasce buono e la società lo rende cattivo. Poichè, per accettare incondizionatamente questo giudizio, bisogna anche ammettere che la società non sia il risultato della naturale e spontanea attività degli uomini, ma siasi costituita per influenza di un ente sovrumano od extraumano, che si è divertito a darci leggi, istituti e consuetudini, che hanno attossiccato e sconvolto la bontà, la generosità, la magnanimità innate della stirpe di Adamo. Non crediamo neppure che i socialisti moderni pensino che la presente organizzazione sociale risponda solo agli istinti di altre razze, di altre generazioni umane, il cui senso morale dovea essere molto più basso di quello della generazione contemporanea, la quale, nobile ed elevata come è, sentirebbe urgente il bisogno di liberarsi, come da una tunica di Nesso, degli istituti ereditati dai suoi poco scrupolosi maggiori. Dappoichè, ammesso questo modo di applicare le teorie evoluzioniste alle società umane, ammesso che la selezione abbia da qualche secolo ad ora sensibilmente rialzato il livello medio della moralità, bisogna anche ammettere che il progresso morale già ottenuto avrebbe dovuto sensibilmente diminuire, anzichè aumentare, gl' inconvenienti della organizzazione borghese.

Or ciò non è evidentemente accaduto: gli uomini non sono diventati, stando anche a quello che dicono i socialisti, meno egoisti e duri di cuore. Giacchè, se il contrario fosse vero, se un atomo dell'utile proprio non avesse spesso per loro ugual peso di una gran somma d'interessi e di dignità altrui, se tutta una società fosse nella sua gran maggioranza composta di persone giuste e compassionevoli, di gente retta ed intera, come piaceva al Signore d'Israele e come certo sarebbe piaciuta ai signori Marx e Lassalle, verrebbero ridotti ai minimi termini tutti quei funesti risultati del rapace capitalismo e della disperata concorrenza, i quali dagli autori ora citati sono stati con sì rara maestria rilevati [307].

Sicchè l'interpretazione più positiva, che si possa ora dare all'antica dottrina di Rousseau, è quella che viene appunto seguita da moltissimi fra coloro che militano nelle file del partito collettivista o anche fra gli anarchici. Essi credono infatti che il lavorìo naturale della selezione sia profondamente disturbato e pervertito nelle presenti società borghesi e che esso potrà liberamente agire ed avere i suoi benefici effetti solo quando saranno attuati quei programmi, che variano secondo le diverse scuole riformatrici. Ragionando in questo modo è evidente che si sconta una speranza, che non si potrà mai provare anticipatamente se sarà realizzata, che si calcola sopra un progresso morale che si asserisce che si raggiungerà, per attuare un tipo di organizzazione sociale, che lo suppone di già raggiunto e che potrebbe forse funzionare soltanto quando fosse raggiunto. Non si farebbe infine che rinnovare, in grande e con effetti più disastrosi, l'errore al quale dobbiamo principalmente i danni presenti del Parlamentarismo.

Ma in verità, se lo studio spassionato della storia ci può dire qualche cosa, esso c'insegna, come crediamo di avere dimostrato al capitolo VII di questo lavoro, che è assai difficile il modificare sensibilmente il livello morale medio di tutto un popolo che abbia già raggiunto da un pezzo un grado elevato di civiltà, e che l'influenza, che i diversi tipi di organizzazione sociale e politica possono avere in queste modificazioni, è certo minore di quanto immaginano i novatori d'oggidì. C'insegna inoltre che tutte le volte che, nel corso dei secoli, quest'influenza si è esplicata in modo benefico, questo si è ottenuto perchè l'arbitrio individuale e collettivo di coloro che avevano in mano un potere è stato frenato e controllato da altri uomini posti in condizioni di assoluta indipendenza e di nessuna comunanza d'interessi con coloro che dovevano controllare. È stato necessario ed indispensabile perciò che siasi potuta avere la moltiplicità delle forze politiche, che parecchie fossero le vie colle quali si arrivava ad acquistare l'importanza sociale e che le diverse forze politiche fossero rappresentate nel reggimento dello Stato. Il collettivismo ed il comunismo, come tutte le dottrine basate sulle passioni e la fede cieca delle masse, tendono a distruggere l'accennata moltiplicità delle forze politiche e, riducendo ogni potere in mano ai soli eletti del popolo, abolendo per giunta la ricchezza individuale, che in tutte le società mature ha fornito spesso il mezzo d'acquistare indipendenza e prestigio senza il concorso dei reggitori dello Stato, non possono condurre che alla menomazione della difesa giuridica, a ciò che in linguaggio povero si chiama la tirannia dei governanti sui governati. Quella tirannia, ch'è stata sempre il risultato pratico di tutte le dottrine politiche sempliciste, che, non osservando quanto vi sia di complicato e difficile nella natura umana, hanno voluto adattare l'organizzazione sociale ad un solo concetto unilaterale ed assoluto ed hanno voluto stabilirla sopra un principio esclusivo, sia stato esso quello della volontà di Dio, interpretata dai suoi ministri e dai suoi vicari terrestri, o quello della volontà del popolo, esercitata per mezzo dei suoi rappresentanti.

Certo, per quanto una sana dottrina politica possa suggerire rimedi legislativi ed indicare quell'indirizzo atto a diminuire alquanto le ingiustizie sociali; per quanto i congegni della difesa giuridica possano esser migliorati in modo da moderare l'oltracotanza degli uomini investiti dei pubblici poteri; i benefici che da tutte le riforme inspirate a questi criteri si potrebbero avere sono sempre ben poca cosa di fronte a quell'era di felicità, di uguaglianza, di giustizia universale, che le varie scuole socialiste implicitamente od esplicitamente promettono ai loro seguaci. I detti benefici corrispondono ai pochi e dubbi anni di discreta sanità fisica che un coscienzioso medico può, con le debite riserve, garantire ai suoi clienti; premio, invero, molto scarso di una diuturna osservanza di tutte le norme igieniche, specialmente se vien paragonato alla pronta e sicura guarigione di tutti i malanni ed alla vita quasi secolare che viene promessa dall'elisir del ciarlatano.

Chiediamo sinceramente venia di un ravvicinamento, che certo dal lato morale non è applicabile ad uomini che in buona fede sostengono le loro idee; ma osserviamo che potrebbe darsi benissimo che il medico dimostrasse la fallacia dell'elisir e che il ciarlatano lo sfidasse di rimando ad inventarne un altro, che avesse realmente quella virtù che dovea esser contenuta nel suo. Siamo certi che il medico risponderebbe che, appunto perchè egli conosce quale sia la moltiplicità dei germi patogenici e quanto siano varie e numerose le cause che possono deteriorare il delicato organismo del corpo umano, non pretenderà mai di trovare il rimedio universale e sicuro di tutte le malattie, poichè, se semplicemente lo tentasse, scenderebbe subito al livello del ciarlatano.

XIII. — Gli anarchici, come abbiamo già notato, fondano la loro critica demolitrice delle istituzioni vigenti sulle stesse passioni, sullo stesso ordine di osservazioni e d'idee, che costituiscono la base della propaganda collettivista; con questa differenza soltanto, che essi sono ordinariamente più violenti, e qualche volta addirittura feroci, non solo negli atti, ma anche nelle parole [308]. Negli ideali che si propongono di attuare, si distinguono però profondamente da tutte le scuole socialiste. Mentre queste, infatti, per abolire od attenuare notevolmente le ingiustizie e le disuguaglianze che si lamentano nel mondo, vorrebbero modificare, sia pure radicalmente, l'organizzazione presente della società, gli anarchici, saggiamente argomentando che, con qualunque tipo di organizzazione sociale, vi sarebbero sempre le disparità di condizione fra gli uomini, e continuerebbero a coesistere i dominatori ed i dominati, o, come essi dicono, gli sfruttatori e gli sfruttati, propugnano la distruzione di ogni società organizzata. Fanno come colui che, avendo scoperto che nessun morigerato tenore di vita può assicurare una salute perfetta, ricorre, come rimedio sicuro contro ogni possibilità di malattia, al suicidio.

Seguaci più logici e più rigorosi del padre di tutti i novatori moderni, ossia di Giangiacomo Rousseau, i partigiani dell'anarchia ritengono dunque che, essendo la società organizzata l'origine di tutti gli abusi, questi non possano venir altrimenti eliminati che con una disorganizzazione completa del consorzio umano, ossia con un ritorno allo stato di natura. Ma con ciò non fanno che ripetere, forse inconsciamente, un errore del loro maestro; poichè la verità è che lo stato naturale dell'uomo, come del resto quello di molti altri animali, non è il disgregamento individuale, ma la società, che può esser soltanto più o meno vasta, più o meno organizzata. Il supporre quindi che un fatto cosi universale, come è quello tanto facilmente constatabile che tutti gli uomini vivono socialmente, sia dovuto all'interesse ed alla furberia di pochi, è un concetto che, certo non noi per i primi, ci permettiamo di definire come assurdo ed infantile. Aristotile, che visse ventuno secoli prima del filosofo e romanziere ginevrino, ebbe una percezione infinitamente più chiara e precisa della vera natura dell'uomo quando scrisse che questi è un animale politico. Ma le facoltà intellettuali del peripatetico greco probabilmente non furono mai turbate nè da un puntiglioso amor proprio, nè dalla vanità letteraria; e si può anche supporre che la protezione dei sovrani di Macedonia, o il saper bastare ai propri bisogni, lo abbiano sottratto alla necessità di inasprirsi il carattere e guastarsi il fegato stando vicino a persone spesso frivole, qualche volta pettegole, quasi sempre di condizione sociale superiore [309].

Nel fatto, ammesso che l'ipotesi anarchica si avverasse, che fosse distrutto perciò il tipo odierno di organizzazione sociale, che non ci fossero più nazioni nè Governi, che fossero spazzati via gli eserciti stanziali, la burocrazia, le Camere, e sopratutto i poliziotti e le carceri, resterebbe sempre la necessità di vivere, e perciò di usare delle terre e degli altri strumenti di produzione e resterebbero sempre le armi ed i caratteri intraprendenti ed arditi disposti ad usarne per asservire altri. Dati questi elementi, si costituirebbero subito piccoli nuclei sociali, in cui molti lavorerebbero e pochi armati ed organizzati li spoglierebbero o tutelerebbero, vivendo in ogni modo alle loro spalle; si tornerebbe cioè a quel tipo di organizzazione semplice e primitivo, nel quale ogni gruppo di armati è padrone assoluto di un cantuccio di terra e dei suoi coltivatori, dato che lo sappia conquistare e difendere con le proprie armi; tipo che noi abbiamo chiamato feudale. Accadrebbe, infine, ciò che accadde in Europa, quando la dissoluzione dell'impero di Carlo Magno finì di disgregare quel tanto di organizzazione sociale che era sopravvissuto alla caduta dell'Impero romano, ciò che accadde nell'India quando i successori del Gran Mogol furono ridotti all'impotenza, ciò che accadrà in ogni società di cultura avanzata che, per cagioni interiori od esteriori, si disgrega e discioglie.

Certo coloro che si sentono baldi e forti e non hanno nulla da perdere si avvantaggerebbero di un simile rivolgimento, che darebbe la preponderanza come forza politica solo alla violenza ed al valor personale; ma ne sarebbe danneggiata l'immensa maggioranza dei pacifici, forse il novanta per cento degli uomini, che al regno del pugno preferisce anche una imperfettissima giustizia sociale, un po' di tranquillità e la sicurezza di godere almeno una parte dei frutti del proprio lavoro [310].

Per non far nascere fallaci speranze dobbiamo intanto osservare che i risultati, che il trionfo dell'anarchia ci farebbe raggiungere, non si possono ottenere in pochi anni, o anche in qualche generazione. Giacchè, se occorsero molti secoli per arrivare dalla barbarie al grado presente di civiltà, ne deve passare pure qualcuno perchè una società vada perdendo le abitudini civili e ritorni in uno stato di relativa barbarie. Che se poi si volesse addirittura tornare alla barbarie assoluta, allo stato delle tribù, che vivono di caccia, di pesca, di agricoltura nomade, allora ci vorrà un tempo anche maggiore; quello cioè che occorre perchè la vecchia e popolatissima Europa si riduca ad una popolazione che sia appena un ventesimo di quella presente. A meno che, per far presto, i fautori dell'anarchia, oltre a sterminare i borghesi e, come essi dicono, i loro satelliti e sicofanti, non vorranno pure distruggere violentemente la grandissima maggioranza di quegli sfruttati, sulla sorte dei quali ora spargono tante lagrime [311].

XIV. — Una dottrina comune a tutti i partiti novatori, siano essi anarchici o semplicemente socialisti, è quella della così detta lotta di classe. Questa dottrina, svolta abbastanza largamente per la prima volta dal Marx, è uno dei migliori cavalli di battaglia di tutti coloro che attaccano l'ordinamento presente della società; occorre perciò dirne qualche cosa.

E prima di tutto facciamo rilevare che essa è fondata sopra un esame incompleto, unilaterale e tendenzioso della storia, col quale si vorrebbe provare che tutta l'attività delle società civili siasi finora esplicata negli sforzi che hanno fatto le classi dominatrici per mantenersi al potere e sfruttarlo a loro vantaggio e in quelli delle classi basse tendenti a scuotere questo giogo. Or ritroviamo nel passato di tutti i popoli importantissimi fatti sociali, che non possono essere contenuti in verun modo nella vernice angusta di questo quadro. Ad esempio, la lotta della Grecia contro la Persia, quella di Roma contro Cartagine, l'immensa diffusione del Cristianesimo e del Maomettismo, le Crociate e lo stesso risorgimento della nazionalità italiana, che, come diceva un arguto e coltissimo economista, piuttosto che a fattori economici, fu dovuto alla influenza esercitata dai poeti e dai romanzieri [312].

Venendo poi alle gare civili, che dovrebbero a preferenza essere determinate dalla lotta di classe, osserviamo che anche in questo punto il fenomeno sociale è posto in luce dai socialisti in modo parziale e quindi errato. Troviamo di quando in quando nella storia esempi di insurrezioni violente delle classi più povere o di frazioni di queste, come furono, ad esempio, le ribellioni degli Iloti a Sparta e quelle degli schiavi a Roma, le Jacqueries della Francia ed altri moti contadineschi e dei minatori, che sono scoppiati nei secoli scorsi in Germania, in Inghilterra ed anche in Russia. Essi sono stati occasionati o da oppressioni inusitate e veramente intollerabili o, più di frequente, da disordini degli Stati all'origine dei quali gli insorti erano rimasti estranei, ma che avevano loro offerto il destro di avere delle armi e un principio di organizzazione. Ad ogni modo però è certo che tutti i movimenti ai quali hanno preso parte esclusivamente le sole classi che vivono di lavoro manuale, sono stati sempre con una relativa facilità, e talvolta con crudeltà, repressi, e che quasi mai hanno contribuito a migliorare stabilmente le condizioni di queste classi. Le sole lotte, cruenti od incruenti, che hanno avuto il risultato pratico di modificare l'ordinamento delle società e sopratutto la composizione delle classi dirigenti, sono state quelle che nuovi elementi d'influenza e nuove forze politiche, sorte nel seno della classe governata ma che rappresentavano numericamente una frazione minima di essa, hanno impegnato per ottenere quella partecipazione al governo dello Stato, che esse credevano, e forse era, loro ingiustamente ostacolata.

Fu così che le famiglie più ricche della plebe romana, escluse dal consolato e da altre cariche cospicue, ingaggiarono nel quinto e quarto secolo avanti l'êra volgare quella lotta con l'antico patriziato, che ebbe per effetto la costituzione di una classe dirigente più larga, fondata sul criterio del censo anzichè su quello esclusivo della nascita, classe che formò la nobiltà degli ultimi secoli della Repubblica. Fu pure così che quella parte del terzo stato francese, che, durante il secolo scorso, aveva acquistato ricchezze quasi uguali e cultura ed attitudine di governo anche superiore a quelle della nobiltà ebbe, dopo la Rivoluzione, aperto l'accesso a tutte le cariche pubbliche. E, se è vero che, tanto nell'uno che nell'altro caso, la massa dei governanti ebbe a godere i vantaggi di una maggiore difesa giuridica, ciò avvenne perchè i suoi interessi si trovarono concordi con quelli delle nuove forze politiche, che richiedevano l'ammissione nella classe governante; avvenne perchè queste nuove forze, per ottenere il loro intento, dovettero propugnare principii di utilità sociale e di giustizia, l'applicazione dei quali, se giovava più direttamente a loro, giovava pure ai membri più umili del civile consorzio. Certo anzi non si può disconoscere che questo che abbiamo accennato sia uno dei tanti modi coi quali il sorgere di nuovi elementi d'influenza sociale può migliorare e rendere più equi i rapporti fra governanti e governati; ma ciò non vuol dire che qualche volta sia avvenuto, o possa avvenire, che l'intiera massa dei governati, di fatto non di diritto, si sostituisca o venga messa a pari alla minoranza governante, che finisca perciò la distinzione fra quella che i socialisti chiamano classe sfruttatrice e la classe che essi dicono sfruttata.

Resta a vedere poi se sia esatta questa divisione della società, di cui tanto scrivono e che tanto vanno predicando, in una classe parassita, che nulla contribuisce alla produzione ed al benessere sociale e ne gode la parte migliore, ed una classe, che tutto fa, tutto produce e che viene rimunerata appena col necessario alla vita e qualche volta neppure con questo. Ora, neppure isolando completamente, come fanno spesso gli economisti ed i loro avversari socialisti, i fenomeni riguardanti la produzione e la distribuzione della ricchezza da tutti gli altri fatti sociali, questo modo di vedere risulta perfettamente conforme alla verità. Giacchè se è vero che è il capitale, non il capitalista, quello che fornisce agli operai i mezzi e la possibilità di un lavoro proficuo, se è pur vero che è la terra, non il proprietario di essa, ciò che è necessaria al contadino, non si può negare che l'individuo, che sa riunire nelle sue mani una forte quantità di capitale e sa impiegarlo proficuamente a scopo industriale, ed il proprietario che sa dirigere bene la cultura dei suoi fondi, non rendano un vero servizio sociale aumentando la produzione e la ricchezza; servizio del quale è perfettamente giusto che abbiano una rimunerazione. Che se poi guardiamo l'insieme dei fenomeni sociali, se teniamo presente che la produzione della ricchezza è strettamente legata al grado di coltura che un paese ha raggiunto, alla bontà del suo ordinamento politico ed amministrativo, allora l'accusa di parassitismo leggermente lanciata all'intiera classe dirigente composta di proprietari, di capitalisti, d'industriali, d'impiegati, di professionisti, di tutti coloro, insomma, che non vivono di lavoro manuale, ci parrà supremamente ingiusta e tale che soltanto dalla più cieca passione può essere accolta [313].

Ora infatti che la grande industria e l'agricoltura hanno bisogno ogni giorno di più delle applicazioni della scienza, ora che la produzione economica è basata quasi tutta sugli scambi fra paesi lontanissimi, che non sono possibili se gli uomini non sono riuniti in grandi nazioni e sotto governi sapientemente organizzati, è assurdo l'asserire che tutto è prodotto dai lavoratori manovali e tutto debba loro legittimamente appartenere; è iniquo dimenticare i servizi che rende quella classe che mantiene la pace e l'ordine, dirige tutto il movimento politico ed economico, conserva e fa progredire l'alta cultura scientifica e rende possibile che grandi masse umane vivano e collaborino insieme. In piena giustizia non si può negare a questa classe che una parte non disprezzabile della produzione economica sia consacrata a sostentarla con tutta quell'agiatezza, che è necessaria affinchè conservi e sviluppi la propria superiorità intellettuale e morale. Giacchè se è certo, che senza la cooperazione dei lavoratori manovali, essa sarebbe condannata a decadere e forse anche a perire, è pure certo che, senza gli elementi dirigenti, i lavoratori manovali cadrebbero subito in uno stato di barbarie, che farebbe immensamente diminuire la produzione economica e deteriorerebbe quindi in modo grandissimo il loro stato morale e materiale. Su questo argomento la più antica lezione di sociologia, l'apologo delle membra e dello stomaco, che Menenio Agrippa recitava, circa ventiquattro secoli fa, avanti la plebe romana adunata sul Monte Sacro, resta sempre quella che meglio risponde alla verità delle cose [314].

Ciò che tutti debbono riconoscere, e che nessuno potrà negare, è che nelle classi elevate vi è buon numero di parassiti o sfruttatori, che molto godono e molto consumano senza rendere alcun vero servizio sociale, nè di direzione, nè di esecuzione; e che vi sono in esse anche elementi che profittano della loro posizione per trarre una rimunerazione dei loro servizi infinitamente superiore ai loro meriti reali. A questi elementi abbiamo già accennato fin dal capitolo V del presente lavoro, quando abbiamo parlato di quelle tali forze sociali, che tendono sempre con la loro soverchia preponderanza a rompere l'equilibrio giuridico a loro vantaggio; e se mal non ci apponiamo, abbiamo nominato come particolarmente pericolosi a questo riguardo i banchieri, alcuni grossi industriali e speculatori e generalmente coloro che riuniscono in unica mano grosse frazioni di capitale mobiliare. Però, osservando questi sfruttamenti, che avvengono in molti paesi mediante le famose tariffe protezioniste, ed in alcuni altri anche mediante i privilegi bancari, dobbiamo convenire che essi sono esercitati tanto a danno delle classi lavoratrici che a pregiudizio delle frazioni più grosse della classe dirigente; sicchè anche questa, nella sua grande maggioranza, paga largamente il fio della sua debolezza ed ignoranza, sopportando sacrifici che vanno a prò di un numero piccolissimo d'individui [315].

Del resto parassiti e sfruttatori esistono in tutti gli strati sociali, come pure in tutti i gradini della scala economica e gerarchica vi sono gli sfruttati. E uno sfruttatore colui che sciupa in lusso, giuochi e bagordi una fortuna, e disfà in questo modo il capitale ereditato, ed è uno sfruttato quegli che laboriosamente ed onestamente l'ha accumulato, faticando molto, consumando poco e forse godendo niente. È sfruttatore l'uomo politico, che arriva ai primi posti profittando della facilità che hanno i popoli a lasciarsi ingannare, lusingando le borie e le vanità delle masse, comprando le coscienze, usando ed abusando di tutte le cattive qualità e le debolezze dei suoi simili, ed è uno sfruttato l'uomo di Stato che, più che all'effetto ed all'applauso, mira al vantaggio reale dei governati ed è sempre pronto a lasciare il potere quando questo vantaggio crede di non poter più raggiungere. È sfruttatore l'impiegato che ha conquistato il suo posto ingannando gli esaminatori o rendendo servizi loschi ai politicanti e lo conserva e fa carriera e lavora il meno possibile, adulando i suoi superiori o tradendo il suo dovere d'ufficio, ed è uno sfruttato il suo collega che fa... precisamente tutto il contrario.

È uno sfruttatore il soldato, che si eclissa nel momento del pericolo ma si fa vivo quando si tratta di avere la medaglia o la ricompensa, ed è uno sfruttato il suo commilitone, che affronta la morte e le ferite senza pensare a farsene un titolo per posare ad eroe e chiedere posti di favore e sussidi per tutta la vita. Sono sfruttatori quei contadini e sopratutto quegli operai pigri, viziosi, e disonesti, che cominciano coll'essere i parassiti dei loro parenti più laboriosi, continuano coll'essere i parassiti dei loro compagni, ai quali scroccano aiuti dando in cambio chiacchiere e cattivi consigli, e dei padroni ai quali scroccano il salario dando in cambio un lavoro mal fatto ed incompleto, e finiscono spesso coll'essere parassiti della società intera nel carcere; e sono sfruttati tutti quei lavoratori manovali, che coscienziosamente e tacitamente adempiono al loro dovere, che mai si sottraggono al disagio ed alla fatica, e vivono stentatamente senza poter migliorare la propria posizione o mettere qualche cosa da parte per la vecchiaia. È uno sfruttatore colui che, restando pensatamente celibe, insidia all'onore delle donne altrui, ed è uno sfruttato chi, dopo essersi sobbarcato ai pesi ed alla responsabilità di una famiglia regolarmente costituita, diventa bersaglio alle insidie del primo. Finalmente è uno sfruttatore lo scienziato che consegue la cattedra scrivendo il libro che piace a coloro che devono essere i suoi giudici, o consegue la celebrità o la popolarità pubblicando l'opera che piace alle turbe, perchè lusinga la passione del giorno; ed è uno sfruttato quegli che all'amore della verità sacrifica buona parte del suo successo e si rassegna perciò a rimanere in un rango inferiore a quello in cui, se meno onesto, il suo ingegno ed i suoi studi l'avrebbero chiamato.

Un tempo gli sfruttati si chiamavano i buoni, gli onesti, i galantuomini, i bravi, i laboriosi ed i morigerati, e gli sfruttatori venivano definiti come viziosi, scioperati, poltroni, intriganti, farabutti e delinquenti. — Si chiamino pure come si vogliono, e forse non è male che ci siano due espressioni sole, che sintetizzino le molteplici categorie delle quali sono formate le due classi di cui ci siamo occupati, che ci sono sempre state e purtroppo sempre ci saranno nel mondo. — L'importante è che si tenga presente che, se più miseri e più da compiangere sono gli sfruttati delle classi più basse, un buon numero pure ne deve esistere nelle classi medie ed alte; altrimenti verrebbe meno quel tanto di abnegazione e di sentimento del dovere che è indispensabile nella minoranza dirigente affinchè il consorzio civile possa durare [316].

XV. — Resta a vedere se tutta questa gran corrente di idee e di passioni, che complessivamente va designata col nome di socialismo, pur non essendo fondata sopra un'osservazione esatta delle leggi che regolano la vita sociale, pur mirando ad un ideale, che non si potrà raggiungere se non quando sarà radicalmente mutata la natura umana, abbia almeno l'effetto pratico di migliorare le condizioni morali e quindi materiali della maggioranza. — La sua azione in questo caso sarebbe benefica e potrebbe paragonarsi a quella di altre grandi illusioni collettive, che, rendendo gli uomini più buoni, più scambievolmente tolleranti, meno impazienti di fronte alle ingiustizie del mondo, fanno, nei limiti del possibile, meno dura l'esistenza per tutti coloro che restano negli ultimi gradini della scala economica e contribuiscono con ciò a fortificare la compagine della società. — Fin da ora dichiariamo che l'indagine sommaria, che faremo su questo importante argomento, ci darà un risultato tutt'altro che positivo.

Si sa che tutti i libri, oltre ad avere una influenza intellettuale, che si esplica mercè le dottrine in essi contenute ed a seconda del modo come certi problemi della vita umana vengono studiati e presentati al lettore, hanno pure un'influenza che chiameremo morale, la quale dipende dalle passioni e dai sentimenti che gli autori consciamente ed inconsciamente sovraeccitano od attutiscono. Or, se cominciamo ad esaminare sotto quest'ultimo punto di vista le opere dei maggiori dottori del socialismo e specialmente di quelli della seconda metà del secolo decimonono, che sono più noti, certamente troviamo che un soffio di pace, d'amore di concordia sociale spira da quelle di Rodbertus, di Carlo Marlo [317] e sopratutto di Enrico George, nel quale più che l'odio contro i forti si sente una nobile e tenera compassione per i deboli [318]; ma in altri più numerosi, ed a tacere di Bakounine, in qualcheduno degli autori più divulgati e più ortodossi, in Marx, ad esempio, nello stesso Lassalle, il sentimento che predomina, attraverso la facilità polemica ed il brio o l'aridità e la pesantezza con cui è condotto il ragionamento scientifico, è l'avversione contro il ricco ed il potente, che si esplica di continuo coll'ironia, col sarcasmo, coll'invettiva. Nei loro scritti il capitalista viene sempre considerato e dipinto quasi come un uomo di altra razza, di altro sangue, che il povero non deve riguardare come un suo simile, il quale ha fondamentalmente le sue stesse debolezze e le sue virtù, che si manifestano in modo un po' diverso, solo perchè diverso è per lui l'ambiente, diverse sono le tentazioni e le necessità della vita, ma come un rivale ed un nemico, come un essere infesto, oppressore, degradato e degradante, la cui rovina soltanto può rendere possibile la propria redenzione e la propria salvezza [319].

Indiscutibilmente un movimento così vasto e complesso come la democrazia sociale non si può fondare unicamente sui buoni istinti della natura umana; sicchè riconosciamo come naturale e necessario che, accanto al sentimento della giustizia ed all'aspirazione verso una società migliore, anche le passioni basse, antisociali e selvaggie vi trovino il loro pascolo. Il male è che precisamente a quest'ultime le dottrine socialiste offrono un campo troppo fertile e vasto dove possono oltremodo moltiplicarsi e lussureggiare. Si è insegnato al povero che il ricco gavazza col frutto dei suoi sudori, che gli viene rapito mediante una artificiosa organizzazione della società basata sulla violenza e la frode. Questa credenza in tutte le coscienze, che non siano assolutamente nobili e pure, serve mirabilmente a giustificare lo spirito di ribellione, la sete dei godimenti materiali, la bestemmia, l'odio, la maledizione; essa feconda il sentimento della vendetta e l'invidia istintiva verso quelle superiorità naturali e sociali, che solo una lunga abitudine e la convinzione che sono fatti necessari ed inevitabili possono rendere universalmente indiscusse ed accettate.

Debolezza innegabile di tutto il movimento socialista è poi la soverchia materializzazione del concetto della felicità umana e quindi della giustizia sociale. — I socialisti, dopo aver idealizzato troppo l'uomo, credendolo migliore di quello che è, giacchè attribuiscono all'ordinamento sociale gran parte dei vizi e delle debolezze che sono inerenti alla natura umana, mostrano poi un concetto troppo basso dei loro simili quando credono, o mostrano di credere, che la ricchezza sia compagna inseparabile del godimento e la povertà vada fatalmente unita alla sofferenza. Leggendo i loro scritti ed ascoltando i loro sermoni parrebbe che la felicità individuale sia esattamente proporzionata alla quantità di danari che ognuno possiede. — Or, per quanto un simile sistema sia polemicamente comodo per tutti i novatori, facendo apparire maggiore assai di quella che realmente sia l'ingiustizia della società odierna, esso non corrisponde alla verità, perchè, fortunatamente, le cose non vanno così. Infatti, sebbene il poter mantenere quel tenore di vita al quale siamo abituati e sopratutto la sicurezza del domani, siano condizioni indispensabili di un certo benessere, pure non è men vero che alla felicità individuale contribuiscono molti altri elementi obiettivi e subiettivi. — In fondo chi è buono ed ha l'animo ben temprato può essere molto più soddisfatto di un altro che gli è assai superiore in ricchezza ed anche di posizione sociale, ed il riconoscere che fa generalmente il mondo che il primo è stato mal rimeritato può, insieme all'intima soddisfazione della sua coscienza, essere uno degli elementi della sua maggiore felicità [320].

Altre dottrine, altre credenze si sono trovate davanti al grave e tormentoso problema della vita, nella quale spesso il giusto ed il buono soccombe, l'iniquo ed il malvagio trionfa, ma l'hanno risoluto in modo diverso di come pretende risolverlo il socialismo. Gli stoici, ad esempio, non potendo fare sparire dal mondo il dolore, educavano i loro adepti a sopportarlo fortemente; non potendo promettere a tutti il godimento dei beni materiali, ne inculcavano il disprezzo anche a coloro che erano nella possibilità di largamente fruirne. Lo stesso disprezzo delle gioie della carne, del piacere materiale troviamo negli inizi ed in tutti i momenti di fervore del Cristianesimo. E se è vero che l'esagerazione di questo indirizzo può produrre quel misticismo, che aliena dal mondo e dalla vita i caratteri più nobili e più proclivi al sacrifìcio di sè, non è men vero che un insegnamento così fatto è non solo moralmente più elevato, ma anche più pratico di quello diametralmente opposto che tengono in generale i socialisti; il quale può avere per conseguenza il momentaneo decadimento di alcuni dei sentimenti più elevati della natura umana.

L' uguaglianza fra tutti gli uomini e l'aspirazione verso la giustizia assoluta non è la prima volta che sono predicate per il mondo. Ma esse possono essere bandite poggiandosi sull'amore, sulla tolleranza, sul compatimento reciproco, e possono anche essere proclamate facendo appello all'odio ed alla violenza. Si può intimare al ricco ed al potente di considerare il povero ed il misero come suo fratello e si può anche far credere al povero ed al misero che il ricco ed il potente sia il suo nemico. La prima maniera è quella seguita da Gesù, dagli apostoli, da S. Francesco d'Assisi, che dicevano ai ricchi: date. La seconda è quella usata dalla maggioranza dei socialisti presenti, che, descrivendo i godimenti dei ricchi come il prodotto dei sudori furati ai poveri, implicitamente od esplicitamente dicono a questi: prendete. Non è chi non veda come tale differenza sostanziale di metodo debba avere in pratica conseguenze incalcolabili.

XVI. — Dopo quanto abbiamo scritto non occorrerà lungamente soffermarsi per esporre quali siano le cause della corrente socialista. Il lettore avrà già compreso che la causa delle cause è quella che abbiamo combattuto in tutto il presente lavoro, cioè l'indirizzo intellettuale del secolo nelle dottrine che riguardano la organizzazione della società, i modi di vedere che finora prevalgono, nelle persone di mezzana e qualche volta di elevata cultura, circa le leggi che regolano i rapporti politici. Naturalmente poi questa causa prima si presenta in mille forme e genera quelle molteplici cause secondarie e dirette, che sono state da parecchi scrittori più o meno completamente rilevate. Noi ne accenneremo soltanto alcune, alle quali forse non si è data finora l'importanza che meritano; notando che spesso esse assumono l'apparenza, e anche la realtà di malattie del senso morale anzichè di errori di discernimento e del giudizio. Giacchè per la strettissima connessione che vi è in tutto ciò che riguarda l'ordinamento sociale fra il mondo morale e quello intellettuale, di frequente avviene che il falso indirizzo nel campo speculativo, l'apprezzamento sbagliato sulla natura e le tendenze sociali degli uomini, si traducano in pratica nel mettere questi in una posizione moralmente falsa; e quindi nel renderli più facili alle transazioni ed alle colpe, diminuendo l'efficacia degli istinti più nobili e avendo per necessaria conseguenza un abbassamento del livello medio del carattere e della coscienza.

Ad esempio, una delle cause prossime ed immediate, un coefficiente importante del progresso della propaganda socialista è l'allargamento del suffragio politico, e meglio ancora il suffragio universale, che, in omaggio ai principii della scuola radicale ed alla logica democratica, si è venuto adottando in tanta parte di Europa. Ora il suffragio a larga base può riuscire pericoloso, non tanto perchè, come molti sperano o temono, dando ai proletari il diritto di deporre la scheda nell'urna, i loro rappresentanti genuini possano formare la maggioranza delle assemblee politiche; giacchè in fondo, con qualunque sistema elettorale, la preponderanza resterà sempre alle classi più influenti anzichè a quelle più numerose; ma piuttosto per l'omaggio che la maggior parte dei candidati, per superare più facilmente i rivali, si affretta a rendere ai sentimenti ed ai pregiudizi popolari. Omaggio che porta facilmente a fare professioni di fede e promesse fondate sui postulati del socialismo. Naturalmente il sistema fa sì che i caratteri più schietti ed energici vengano a preferenza allontanati dalla vita pubblica, che le transazioni e le restrizioni morali diventino sempre più comuni, e, come risultato ultimo, fa imbecillire sempre più, moralmente ed intellettualmente, le schiere dei così detti conservatori.

Altro elemento importantissimo nella elaborazione dei partiti socialisti è la tradizione rivoluzionaria ancora vivissima nei paesi latini, nei quali le classi dirigenti hanno fatto di tutto per tenerla viva e perpetuarla. Come ha osservato il Villetard [321] e come già abbiamo accennato nel capitolo VIII, in Francia, almeno fino a pochi anni addietro, ad eccezione forse dei clericali-legittimisti, solo gl'interessi sono stati conservatori, ma le idee ed i sentimenti inspirati non solo dall'istruzione e dall'educazione privata, ma sopratutto da quella ufficiale, sono stati eminentemente rivoluzionari. E lo stesso si può dire dell'Italia negli ultimi cinquanta anni.

Si sa quanto sia naturale nella gioventù il bisogno di entusiasmarsi e di avere davanti un tipo, un modello, che rappresenti l'ideale della virtù e della perfezione, che ognuno cerca, per quanto può, di imitare. Or il modello che si è posto davanti ai giovani moderni, tanto da noi che oltre Alpe, non è, e non può essere, il cavaliere che si fa uccidere per la sua bella, la sua fede ed il suo Re, ma molto meno è stato il funzionario, il magistrato, il militare rigido custode della legge e della consegna; esso è puramente e semplicemente il rivoluzionario d'azione: l'uomo che, in nome della libertà e dell'eguaglianza, ha combattuto i tiranni, si è ribellato al potere costituito, e che, vinto, ne ha subìto intrepido le persecuzioni, vincitore lo ha rovesciato e spesso lo ha sostituito.

Dopo che si è così studiosamente coltivata la simpatia per i ribelli, dopo che si è insegnato che tutto quanto essi hanno fatto è stato nobile e generoso, è naturale che la corrente dei sentimenti e delle idee della nuova generazione siasi spinta verso quella dottrina, che può giustificare e render necessaria la ribellione. Dappoichè, non essendoci più una Bastiglia da espugnare, non potendosi più cacciare dal Louvre gli Svizzeri di Carlo X, compita presso a poco l'unità d'Italia, diventato quel Governo, che fu definito come la negazione di Dio, una memoria talmente remota che lo si comincia a giudicare con imparzialità, lo spirito di ribellione non si può applicare che contro le istituzioni, che dalle antiche rivoluzioni sono venute fuori, e contro gli uomini che di queste istituzioni stanno a capo e che sono stati spesso gli antichi rivoluzionari.

E ciò parrà anche più naturale e ovvio se si pon mente che, in parte per le imperfezioni inseparabili da qualunque regime politico, in parte per la loro debolezza intrinseca, le nuove istituzioni non hanno potuto appagare tutte quelle speranze di rigenerazione sociale che in esse si erano riposte, e che gli antichi congiuratori e rivoluzionari diventati uomini di Stato e reggitori di popoli certo non sono stati immuni da onori e peccati. Così stando le cose, chi si potrà maravigliare se quegli elementi giovani che credono possibile una più radicale riforma della società, se coloro che sperano con essa di acquistare importanza politica, se buona parte di quanto vi è di nobile, di attivo, di generoso ed ambizioso nella generazione che si prepara a raccogliere l'eredità dei vecchi, abbia abbracciato le dottrine socialiste? [322].

Ha acquistato una certa popolarità fra le persone di qualche cultura una massima del Machiavelli, il quale scrisse che per salvare o rinvigorire le istituzioni antiche bisognava richiamarle ai loro principii. Leggendo la storia dei principi mongoli discendenti da Gengiskan ne abbiamo trovata un'altra, che può avere un significato diametralmente opposto a quella del segretario fiorentino e che ci pare più vera, perchè applicabile ad un numero maggiore di casi pratici. Secondo gli storici dunque, Yeliui-Cutsai, primo ministro di Octai figlio di Gengiskan, avrebbe di frequente detto al suo padrone e signore: il vostro impero fu conquistato a cavallo, ma non lo potete governare restando a cavallo. Nessuno vorrà negare l'intuito politico del ministro mongolo; perchè veramente, e lo potremmo con facilità dimostrare, i modi con cui si conservano gli Stati, le religioni ed i partiti politici, i sentimenti e le passioni che bisogna a quest'uopo coltivare, sono di frequente essenzialmente diversi di quelli che hanno servito a fondarli.

Tornando al caso nostro, facilmente riconosciamo che uno Stato nuovo, un nuovo regime politico possono esser fondati mediante la rivoluzione, ammettiamo anzi che qualche volta ciò possa essere necessario; ma è certo però che nessuno Stato si consolida, nessun regime dura se continua lo spirito rivoluzionario, e peggio ancora se coloro che hanno nelle mani il potere proseguono a fomentarlo, invece di coltivare quei sentimenti, quelle passioni, quei modi di vedere, che ad esso sono diametralmente opposti.

Prima di terminare questo argomento rammenteremo di volo altre cause, che contribuiscono indubbiamente ai progressi del socialismo e che sono state già da altri autori ampiamente svolte. Tali sarebbero le improvvisate ricchezze di tanti speculatori, quasi sempre disonestamente guadagnate e più malamente spese nell'acquisto di immeritata ed ingiustificata influenza politica, oppure in un lusso volgare ed appariscente, che offende le mediocrità degli onesti ed insulta quasi alla inopia dei più miseri. Tutto l'andazzo del secolo, del resto, congiura ad aumentare questo danno, perchè, mentre si predica uguaglianza, democrazia e che tutti gli uomini hanno gli stessi diritti, mai forse ci è stato tanto pubblico squilibrio nei godimenti materiali, mai la ricchezza, comunque raggiunta, ha servito meglio ad aprire tutte le porte, mai essa è stata più stupidamente ostentata [323].

Altri fattori del socialismo sarebbero la guerra inconsulta che si è fatta al sentimento religioso, la povertà pubblica prodotta dalle imposte eccessive e sovratutto dai soverchi debiti e dalle troppe spese improduttive, le immoralità notorie dei governanti, le ingiustizie e le ipocrisie del Parlamentarismo, le fabbriche di spostati, che si sono istituite mediante l'ordinamento presente dell'insegnamento secondario e superiore. Finalmente occupa un posto distinto in questa enumerazione l'uso invalso di servirsi dell'influenza che si ha sull'opinione pubblica e sui governi per ottenere concessioni di monopolii o dazi così detti protettori dell'industria e dell'agricoltura nazionale. Giacchè in questa maniera si giustifica qualunque altra forma di socialismo, avendone già adottato una veramente pessima che fa servire l'autorità dello Stato ad avvantaggiare alcuni pochi, per lo più doviziosi, a danno di tutti gli altri poveri e ricchi.

Si sa che la trascuranza delle norme igieniche, la penuria di buoni viveri, buona acqua e sane abitazioni, se non hanno l'effetto di generare il bacillo del cholera, indebolendo però gli organismi umani ed ostacolando le difese contro il morbo, ne agevolano la diffusione colà dove esso è entrato, e producono lo sviluppo della epidemia. Analogamente tutti i coefficienti che abbiamo enumerato, tutti gli atti di mal governo, se non sono direttamente responsabili di aver dato origine a quell'infezione intellettuale che è il socialismo, certo, aumentando il malcontento e diminuendo quindi la resistenza organica della società, ne agevolano il progresso. Sarebbe perciò molto opportuno il consigliare alle classi dirigenti una più stretta igiene sociale, il che vuol dire l'abbandono dei vecchi errori. Disgraziatamente il consiglio facile a dare è piuttosto difficile ad eseguire; perchè sia accolto e messo in pratica, le dette classi dovrebbero avere maggiore moralità e sopratutto preveggenza e capacità maggiori di quelle di cui finora hanno dato, in molti paesi, spettacolo.

XVII. — Forse ben pochi fra coloro che oggi seguono con un certo interesse lo svolgimento della vita pubblica in Europa ed in America, non si sono fatta la domanda se la democrazia sociale sia o no destinata a trionfare in un avvenire più o meno prossimo.

Dobbiamo sinceramente confessare che molti, i quali certo non hanno simpatia per le dottrine socialiste e che non hanno alcun interesse a favorirle, sono però inclinati a rispondere affermativamente alla domanda accennata, e questo è uno dei frutti di quell'educazione intellettuale per la quale la gran maggioranza delle persone di qualche coltura è abituata a considerare la storia dell'umanità come un cammino continuo verso la realizzazione di quelle idee, che ora diconsi comunemente avanzate. La credenza cieca poi nel trionfo fatale, inevitabile e più o meno prossimo del loro programma è comunissima nei seguaci del collettivismo e dell'anarchia, ed è per essi un grandissimo elemento di forza, rendendo loro lo stesso servizio che ai Cristiani primitivi rese la fede nel prossimo avvento del Regno di Dio o nella vita futura. Come questi, infatti, fondati sulla fiducia che avevano nella rivelazione divina, affrontavano intrepidi il martirio, cosi i novatori odierni sopportano volentieri le noie, i disagi, le persecuzioni, quando per caso debbono qualcuna patirne, pregustando anticipatamente la gioia della sicura, e molti credono, della vicina vittoria [324].

Dopo quanto abbiamo già scritto nessuno si meraviglierà se noi affermiamo recisamente che, anche nell'ipotesi che collettivisti ed anarchici fossero vittoriosi in parecchi Stati e s'impadronissero dell'autorità politica, sarebbe sempre impossibile la realizzazione del loro programma; poichè i postulati del collettivismo, del comunismo e dell'anarchia non potranno mai avere una pratica attuazione [325]. Resta però a vedere quanta probabilità di divenire una realtà abbia la ipotesi che abbiamo accennata. Giacchè il semplice tentativo, continuato per qualche anno, di porre in vigore, ad esempio, le teorie collettiviste, se non altererà le leggi costanti, che regolano la organizzazione delle società umane, leggi che finiranno sempre coll'imporsi e col trionfare, graverà terribilmente sulla sorte della generazione sulla quale l'esperimento sarà fatto. Essa, sbattuta fra la rivoluzione e la inevitabile reazione, sarà ad ogni modo costretta a ritornare verso un tipo di governo assai più rozzo ed assoluto di quello al quale siamo omai abituati e dovrà subire necessariamente una decadenza nella difesa giuridica e un vero disastro morale e materiale, i quali fra qualche secolo potranno essere studiati con interesse e forse anche con diletto, come un bel caso di patologia sociale, ma intanto procacceranno sofferenze inenarrabili a coloro, che ne saranno stati gli spettatori e le vittime.

Ma, anche posta in questi termini, la questione non è di quelle che si possono risolvere con sicurezza, perchè molti sono gli argomenti che si possono addurre prò e contro il trionfo temporaneo di una rivoluzione sociale, e gli elementi del giudizio variano abbastanza da uno Stato all'altro di Europa, e variano ancora di più se si tien conto delle colonie inglesi e degli Stati Uniti d'America.

Certo è assai meno facile l'attuazione di un semplice tentativo di collettivismo che l'abbattere la più salda delle dinastie regnanti. Non bisogna infatti dimenticare che, nel presente ordinamento sociale, le due redini di cui si serve qualunque Governo per condurre una nazione, sono la burocrazia e l'esercito stanziale. Or, come abbiamo già accennato nel capitolo VIII, nelle rivoluzioni precedenti, fatta eccezione della grande rivoluzione francese, si è cambiato il cavaliere, ma le redini non si sono spezzate, esse anzi hanno continuato a funzionare.

Or se trionfasse una grande rivoluzione sociale, è assai dubbio se il presente corpo d'impiegati ed ufficiali potrebbe continuare nelle sue funzioni, e sopratutto è oltremodo dubbio se nelle fila dei vincitori si troverebbe il personale adatto a surrogarli. Non agendo più i consueti organi del Governo, si avrebbe un periodo d'anarchia dal quale non si sa che cosa potrebbe uscire, ma che intanto renderebbe impossibile persino la continuazione momentanea di un saggio qualunque di collettivismo.

L'ordinamento presente della società fornisce poi forze di resistenza immense e di cui ancora non si è esperimentato il valore. Incalcolabile è il numero di uomini e d'interessi la cui sorte è legata alla continuazione del regime che oggi prevale. Banchieri, commercianti, industriali, impiegati pubblici e privati, possessori di titoli di credito pubblico, depositari di risparmi anche piccoli, proprietari grandi e piccini, formano un esercito numerosissimo, i cui gregari se possono anche simpatizzare colle idee di uguaglianza sociale, quando si tratta di progetti vaghi ed a lunga scadenza, certo penserebbero altrimenti se ne vedessero immediata l'esecuzione ed imminente fosse la lesione dei loro interessi.

Bisogna anche calcolare che un Governo può in certi momenti avere il monopolio di mezzi d'azione efficacissimi, quali sarebbero la posta, il telegrafo e le ferrovie [326], che esso può disporre dei milioni che si trovano nelle pubbliche casse, senza pregiudizio di quelli che in un momento grave possono fornigli le Banche ed il corso forzoso, e che esso infine ha a sua disposizione la polizia e l'esercito stanziale, che, se non è stato già disorganizzato dalle concessioni fatte allo spirito democratico [327], quando è saldo e risolutamente adoperato può, anche ridotto ad un numero relativamente scarso, comprimere sempre qualunque tentativo d'insurrezione armata.

D'altra parte si deve tener conto della propaganda continua che, in tutti gli strati sociali, anche in quelli che dovrebbero essere più inclinati alla difesa dell'ordine presente, fa la democrazia sociale. Propaganda, che se raramente ottiene delle conversioni piene ed intere fra gli uomini di una certa età e di una certa posizione sociale, rende dubbiosi della giustizia della propria causa molti di coloro, che, per interesse o per ufficio, dovrebbero combattere la nuova corrente rivoluzionaria, e che nel momento del pericolo può far diventare oscillanti buona parte di quelle forze, che hanno la missione di arrestarla. E questa titubanza può diventare un grave fattore di sconfitta se è complicata colla lenta azione dissolvente, che in tutti gli organi dello Stato esercita il regime parlamentare. Come si può esigere infatti fermezza nel pericolo, ed un servizio scrupoloso e leale senza debolezze ed esitazioni, da una macchina burocratica abituata al mutevole arbitrio dei successivi Ministeri; da Prefetti ed ufficiali di polizia cambiati periodicamente in agenti elettorali? Quale affidamento potranno dare uomini, che, per obbligo quasi di ufficio, non devono avere fedeltà e devozione sincera per alcun principio, per alcuna persona, che devono combattere oggi colui al quale ubbidirono fino a ieri, e il cui studio principale deve esser quello di non incorrere nella collera del padrone presente, senza farsi troppo nemico il padrone futuro? In questo modo si potranno formare buoni equilibristi, adatti tutto al più per i momenti ordinari della vita amministrativa, ma che non avranno nè l'abitudine alla cieca obbedienza, nè il coraggio di ardite iniziative e di assumere gravi responsabilità, e che sopratutto mancheranno della fermezza di mente e di cuore, così rara negli uomini abituati a transazioni ed a ripieghi, e che pure è la qualità più indispensabile per gli alti funzionari di un Governo nei momenti straordinari in cui avvengono le rivoluzioni.

Ciò che sopratutto poi rende difficile qualunque presagio è il fatto che il giorno in cui lo scoppio rivoluzionario avverrà (e non è secondo noi sicuro che debba avvenire), non sarà determinato nè dai capi della democrazia sociale, nè dagli uomini che staranno al governo dei vari Stati. Esso sarà la conseguenza o di errori involontari dei governanti, o di avvenimenti inconsciamente provocati, che nessuno avrà avuto la forza d'impedire e che produrranno in una data società una scossa ed una agitazione grandiosa [328]. Or non sappiamo, nè possiamo sapere, se l'occasione che si presenterà e nella quale il partito rivoluzionario sarà in certo modo forzato ad agire, potrà essere per questo la migliore possibile; se allora cioè le sue forze saranno del tutto organizzate e quelle dei suoi avversarii abbastanza disorganizzate. D'altra parte bisogna tener presente che se il momento favorevole di iniziare la rivoluzione dovesse ancora per molto tempo tardare, ciò sarebbe dannoso ai rivoluzionari stessi. Perchè è difficilissimo mantenere a lungo fra le masse una agitazione qualsiasi, quando non si fa alcuno sforzo concreto affinchè queste possano sperare che vedranno l'attuazione di quegli ideali, che l'agitazione stessa si propone di raggiungere; e perchè in Francia ed in qualche altro paese, dove si conservano le abitudini e le tradizioni della lotta a mano armata, esse andrebbero interamente perdute, e mancherebbero del tutto quei capi, che, coll'autorità e l'esperienza acquistate nei precedenti cimenti, potrebbero meglio dirigere l'andamento delle future rivoluzioni.

Infine il valore personale degli uomini, che reggeranno il potere supremo nei grandi Stati d'Europa e d'America nel momento che si giocherà la partita decisiva, se pure questa sarà giocata, costituirà un fattore non indifferente di vittoria o di sconfitta per la democrazia sociale rivoluzionaria.

XVIII. — Ad ogni modo è certo che, anche che sia evitato un movimento violento, ammesso pure che tra le file dei novatori il partito detto evoluzionista abbia a conservare sempre tale preponderanza da poter impedire, per ora e per qualche generazione ancora, una lotta a mano armata, non per questo la democrazia sociale cesserà di essere un violento agente dissolvitore della società moderna. Sicchè se la nuova dottrina non sarà debellata, l'ordine di cose ora prevalente rimarrà sempre in uno stato di equilibrio instabile, e non sarà in gran parte custodito che dalla forza materiale. Or questa può bastare ad impedire, giorno per giorno, lo scoppio di una catastrofe violenta, ma non può ridare al consorzio civile quell'unità morale senza la quale esso non può godere di uno stabile assetto [329]. Ci pare perciò indiscutibile che la civiltà europea, se sarà costretta a stare lungamente e diuturnamente sulle difese contro le tendenze delle scuole socialiste, sarà, per questo solo, costretta a decadere. E la decadenza si manifesterà tanto se vorrà con esse transigere, far concessioni e quasi venire a patti, come fra poco meglio vedremo, quanto se adotterà un sistema di coazione e di resistenza assoluta, per mantenere il quale dovrà abbandonare buona parte delle sue idealità, diminuire la libertà del pensiero ed adottare nuovi tipi di governo, che segneranno una vera diminuzione nella tutela della giustizia e nella difesa giuridica.

Rimedi se ne sono suggeriti molti e certo buona parte di essi non è da respingere; ma, anche i migliori, se accrescono, come già abbiamo visto, la forza di resistenza del malato, non tolgono la vera causa della malattia. Di questa specie di farmachi abbiamo testè parlato e non crediamo opportuno di ritornarci sopra. Se si migliora l'economia nazionale, se si diminuiscono le imposte, se si rende più equa ed efficace la giustizia, se si tolgono tutti gli abusi che si possono fare scomparire, sarà certo per la società un bene non disprezzabile; ma la democrazia sociale, che aspira alla giustizia assoluta ed all'uguaglianza assoluta, le quali mai si potranno ottenere, non disarmerà certo per questo e non perdonerà alla società borghese solo perchè essa confesserà in parte le sue colpe e farà penitenza; giacchè, diversamente del Dio dei cristiani, il vero socialista di fronte all'ordinamento economico presente vuole la morte del peccatore, non già che si converta e viva.

Un secondo ordine di rimedi nel quale molto hanno sperato uomini di Stato e qualche sovrano moderno, consiste nell'applicare l'intervento dello Stato a sanare o diminuire molte delle ingiustizie, delle sofferenze, che sono il prodotto dell'individualismo economico, della concorrenza spietata che si fanno proprietari e grandi industriali, e che hanno per effetto la miseria e l'incertezza del domani per i proletari salariati. Anche su questo punto noi ci siamo già abbastanza spiegati nel capitolo VI del presente lavoro. Abbiamo infatti già detto che non vi è una quistione sociale, ma vi sono molte quistioni sociali, e che, caso per caso, l'intervento dello Stato, ossia della burocrazia e delle altre classi dirigenti organizzate, può essere giustificato o respinto. Certo vi sono esempi in cui quest'intervento, moderatamente usato, può essere accolto, come avviene per la limitazione di certi lavori per le donne ed i fanciulli. Non negheremo anche che per quel che riguarda la carità, l'assistenza pubblica o la mutua assistenza, l'organizzazione moderna sia affatto insufficiente; poichè fra lo Stato ed il grosso Comune, strumento dello Stato, enti troppo grandi, entro i quali l'individuo sparisce ed è dimenticato, e la famiglia moderna ridotta omai alla massima semplicità, alla minima espressione possibile, nella quale neppure i fratelli sentono spesso il dovere di aiutare i loro consanguinei, non vi sono organismi intermedia Tali erano fra noi nell'antichità, nel Medio Evo e fino a qualche secolo fa, le corporazioni e le fratellanze d'arte e di professione, e organismi consimili si trovano anche ora in tutte le altre civiltà [330]. Essi impongono certi obblighi a coloro che ne fanno parte; ma riconoscono pure in essi certi diritti e sopratutto impediscono che l'individuo o la famiglia, colpiti da un momentaneo disastro, siano lasciati nell'abbandono e ridotti alla disperazione. Indiscutibilmente (quindi da questo lato qualche cosa vi è da rifare, e forse basterebbe che i Governi lasciassero fare perchè spontaneamente si andassero ricostituendo quelle solidarietà naturali, che per formarsi hanno principalmente bisogno di un lungo periodo di stabilità nelle popolazioni e negli interessi economici [331].

Ben altro però è ciò che ordinariamente si pretende dall'intervento dello Stato; perchè si vorrebbe da molti che questo direttamente influisse sulla distribuzione della ricchezza, togliendo, mediante le imposte, ai ricchi il superfluo per darlo ai poveri. Or questo concetto, che raccoglie molte simpatie anche tra i conservatori, come quello che tende a contentare tutti i numerosissimi socialistoidi, cioè quella turba grandissima, che, senza essere ascritta al partito collettivista od all'anarchico, forma quell'ambiente di simpatia nel quale i detti partiti possono prosperare e propagarsi, è veramente pericoloso. Non bisogna infatti dissimularsi che una sua applicazione alquanto larga, colpendo troppo gravemente il capitale, o pretendendo, ad esempio, d'imporre un dato tipo di cultura delle terre, ucciderebbe ciò che i Francesi chiamano la vacca da latte; cioè farebbe diminuire grandemente la produzione della ricchezza e quindi aumenterebbe la miseria ed il malcontento in tutti gli strati sociali. Inaugurando un simile sistema, non si avrebbe il collettivismo, non sparirebbero le disuguaglianze sociali, e quindi resterebbe sempre ai novatori qualche cosa di sostanziale da chiedere, ma si turberebbe oltremodo tutta l'economia della società detta borghese e se ne disorganizzerebbe del tutto il funzionamento. Che i seguaci del Marx caldeggino transitoriamente l'applicazione del sistema accennato è naturale ed è logico; perchè è il solo che possa ridurre la società al punto da rendere desiderabile un esperimento di collettivismo; ma ci pare molto strano che quelli, che le loro teorie non accettano, sperino di neutralizzarle e combatterle agendo in modo da peggiorare le condizioni economiche di tutti e riducendo quasi tutti nella condizione di attendere un miglioramento dal collettivismo [332].

Il socialismo cristiano, e più specialmente quello cattolico, è infine ritenuto da molti mezzo adattissimo a neutralizzare quello ateo, materialista e rivoluzionario, e sforzi lodevolissimi, e non del tutto inefficaci, si sono fatti e si fanno in questo senso. Non bisogna però avere una fiducia illimitata in questa diversione. Come abbiamo già accennato, il Cristianesimo ed il socialismo, sebbene ambidue profittino di quella sete di giustizia e d'ideale, che è così comune negli uomini, pur costretti a vivere in un mondo dove esistono tante nequizie delle quali essi stessi sono gli autori, si appoggiano poi ad altri sentimenti, che nelle due dottrine sono tutt'altro che identici. I loro metodi di propaganda, le loro aspirazioni sono anche essenzialmente diverse, e diversissimo è l'ambiente intellettuale, che è loro necessario per prosperare. Giacchè la base del Cristianesimo è la fede nel soprannaturale, in un Dio che vede le lacrime dei miseri e li consola in questa vita e li premia nell'altra; mentre il socialismo, nato dalla filosofia razionalista del secolo passato, si fonda sulle dottrine materialiste, che insegnano tutta la felicità consistere nell'appagamento degli istinti e delle passioni terrene. Sono perciò due piante di natura differentissima, che possono benissimo contrastarsi gli umori del suolo, ma delle quali è impossibile tentare lo scambievole innesto. È vana perciò la speranza che il ramoscello cristiano inserito nel tronco socialista ne possa modificare i frutti, togliendo loro ogni sapore aspro, ogni virtù nociva, e rendendoli dolci e salubri; ed il socialismo cristiano invero altro non è e non può essere che un nome nuovo applicato ad una cosa vecchia, cioè alla carità cristiana. La quale può senza dubbio rendere ancora grandissimi servigi alla società europea, ma potrebbe interamente distruggere il socialismo ateo e rivoluzionario solo quando il mondo divenisse di nuovo talmente imbevuto di spirito cristiano, come lo fu nei secoli meno colti del Medio Evo.

XIX. — Nelle condizioni presenti della civiltà europea, il rimedio che può colpire il male alla radice, quello che, facendo sparire i succhi vitali dei quali l'albero si nutre, può solo farlo disseccare, è ben altro. La democrazia sociale, come crediamo di aver già dimostrato, è principalmente una malattia intellettuale del secolo nostro. E, sebbene essa abbia trovato propizio anche l'ambiente morale, preparato da tutti i rancori, le ambizioni e le cupidigie, che sono la necessaria conseguenza di un lungo periodo rivoluzionario e dagli spostamenti di fortuna che a questo vanno uniti, sebbene le sia stata sommamente giovevole la disillusione prodotta dalla democrazia parlamentare, che dovea inaugurare nel mondo il regno della giustizia e dell'uguaglianza ed ha così male adempiuto ai suoi impegni, pure l'origine della nuova dottrina è dovuta ad un dato sistema d'idee, che in fondo è la conseguenza logica di quello al quale l'antica democrazia pura si era inspirata.

La credenza nella possibilità che il Governo emani dalla maggioranza, la fede nella incorruttibilità di questa maggioranza, la fiducia assoluta che gli uomini emancipati da ogni principio d'autorità, che non abbia la sua base nel consenso universale, da ogni superstizione aristocratica, monarchica e religiosa, potranno inaugurare quel regime politico, che più risponde agli interessi generali ed a quelli della giustizia, hanno formato quel complesso di idee e di sentimenti, che ha combattuto e combatte le credenze cristiane nel popolo ed è il principale ostacolo a qualunque compromesso con la Chiesa. Lo stesso ordine d'idee e di sentimenti ha prodotto la democrazia parlamentare e, come abbiamo visto, impedisce ora che si applichino al parlamentarismo rimedi radicali; e lo stesso infine è quello che ci porta inesorabilmente verso il socialismo ed in ultimo verso l'anarchia.

Poichè, dopo che l'esperienza ha dimostrato che la semplice uguaglianza politica, estrinsecata col suffragio universale, non produce l'uguaglianza di fatto e mantiene la preminenza di una data classe e di certe influenze sociali, è naturale ed è logico che si escogiti un sistema, che distrugga le disparità delle fortune private e ponga in condizioni uguali coloro che, aspirando a reggere la società, domandano il suffragio del popolo. E, dopo che un'esperienza un po' più matura avrà accertato, o semplicemente fatto intuire, che neanche in questo modo si avrà un Governo che sia la sincera emanazione della volontà della maggioranza, e che molto meno si avrà la giustizia assoluta, sorgerà, come ultimo portato di un concetto metafisico che invano ha corso verso la sua realizzazione, la dottrina che caldeggia la fine di qualunque tipo di organismo sociale, e perciò l'anarchia.

La verità è quindi che la dottrina democratica, che pure ha reso innegabili servigi alla civiltà, e che, incarnandosi nel sistema rappresentativo del quale ha trovato il modello in Inghilterra, ha contribuito alla realizzazione di importantissimi miglioramenti nella difesa giuridica, ottenuti mercè un regime di libera discussione che si è applicato in tante parti d'Europa, ora che si è arrivati alle sue ultime deduzioni logiche, e che i principii sui quali è fondata si vogliono attuare fino alle loro ultime conseguenze, produce la disorganizzazione ed il decadimento dei paesi nei quali prevale [333]. Ed è necessario che sia così; perchè la detta dottrina, sotto apparenze pseudo-scientifiche, è in fondo perfettamente apriorista. Infatti le sue premesse non sono in nulla giustificate dai fatti, giacchè, nelle società umane, l'uguaglianza assoluta non è mai esistita, ed il potere politico non è stato o non sarà mai fondato sul consenso esplicito della maggioranza; perchè esso è stato e sarà sempre esercitato da quella minoranza organizzata che ha avuto od avrà i mezzi, variabili secondo i tempi, di imporre la sua supremazia alla moltitudine. Abbiamo già visto che solo un'organizzazione sapiente ed un numero veramente grande di circostanze storiche favorevoli hanno potuto rendere questa preponderanza della classe dirigente meno pesante ed abusiva.

Scrisse Rénan che l'Impero romano avrebbe potuto arrestare il propagarsi del Cristianesimo ad una sola condizione: diffondendo cioè quell'insegnamento positivo delle scienze naturali che solo può sviluppare il senso del reale e che, col porre in chiaro che nei fatti naturali il nostro mondo ubbidisce a leggi immutabili, riesce a sradicare dallo spirito umano la credenza nei miracoli e nell'intervento continuo del soprannaturale [334]. Ma allora le scienze naturali erano appena in uno stato embrionale, ed il Cristianesimo trionfò. Ora, nel mondo in cui viviamo, il socialismo sarà solo arrestato se la scienza politica positiva arriverà nelle discipline sociali a schiacciare del tutto gli attuali metodi aprioristici ed ottimisti, se cioè la scoperta e la dimostrazione delle grandi leggi costanti, che si manifestano in tutte le società umane, metterà a nudo l'impossibile attuazione della concezione democratica. A questo patto, ma a questo patto soltanto, le classi intellettuali saranno interamente sottratte all'influenza della democrazia sociale e formeranno un ostacolo invincibile al suo trionfo.

Finora questo o quell'altro postulato dei socialisti è stato dagli studiosi di scienze sociali, e sopratutto dagli economisti, studiato in modo da farne rilevare l'evidente fallacia. Ma ciò non basta, perchè equivale a dimostrare falsi uno o parecchi miracoli senza distruggere la fede nella possibilità dei miracoli. Ad un intero sistema metafisico si deve opporre un intero sistema positivo. Scrisse pure recentemente un altro egregio autore che ''nell'insegnamento superiore, agli errori del marxismo bisogna contrapporre le teorie dell'Economia politica e della sociologia positiva, perchè gl'intelletti giovanili non restino in balia di chimere ad essi presentate come gli ultimi risultati della scienza" [335]. Saggie e giuste parole, ma che finora contengono più l'espressione di un lodevole desiderio che l'indicazione di un rimedio di pronta e sicura efficacia. Eccellente cosa è invero lo studio dell'Economia politica, ma non basta da solo a bandire dalla mente le chimere alle quali si accenna. Perchè questa disciplina, che ha acutamente indagato le leggi che regolano la produzione e la distribuzione della ricchezza, non si è consacrata eziandio a studiare i rapporti che hanno con le altre leggi che spiegano la loro azione sull'organizzazione politica delle società umane; perchè gli economisti non si sono dedicati ad osservare quelle credenze, quelle illusioni collettive, che possono diventare, in una data società, generali e formano tanta parte della storia del mondo; essendochè è risaputo che l'uomo non vive di solo pane. E in quanto poi alla sociologia positiva, l'egregio autore che abbiamo citato ci permetta di credere che finora non siasi manifestata, almeno nella maggioranza delle sue dottrine, come scienza matura ed indiscutibile. Ci pare infatti che, nella seconda metà del secolo decimonono, la concorrenza alla metafisica democratico-socialista sia stata fatta solo da altri sistemi sedicenti positivi, ma ugualmente metafisici, che hanno anche meno riscontro nella vita reale dei popoli e sono anche meno suscettibili di pratiche applicazioni. Fra le diverse metafisiche è naturale che la prevalenza sia rimasta a quella che meglio sa lusingare le passioni più vive e più generali.

Arduo quindi è il compito che resta alla scienza politica. E lo sarà tanto più, perchè le verità, che è sua missione di rivelare, non saranno generalmente gradite ed urteranno molte passioni e molti interessi. È quindi molto probabile che, malgrado l'abitudine alla libera discussione che distingue i nostri tempi, la diffusione dei nuovi risultati scientifici incontrerà ancora una volta quegli ostacoli, che hanno ritardato i progressi degli altri rami dello scibile. Nè è da credere che le nuovissime dottrine potranno trovare un appoggio nei Governi, in quelle classi dirigenti, che dovrebbero pure sostenerle. Perchè gli interessi, di qualunque natura siano, amano la polemica, non la discussione spassionata, e sostengono solo la teoria che serve ad un fine particolare ed immediato, che giustifica un uomo, sostiene un dato Governo od un partito; non già quella che potrà portare pratiche conseguenze solo in momenti relativamente lontani e nell'interesse generale della società. Se la scienza quindi finirà col trionfare, la sua vittoria sarà, ora come sempre, dovuta alla coscienza degli studiosi onesti, per i quali, sopra ogni altra considerazione, sta il dovere di ricercare ed esporre la verità.

 




 

PARTE SECONDA

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CAPITOLO I.
Origini della dottrina della classe politica e cause che ne ostacolano la diffusione.

I. La dottrina della classe politica è nata da circa un secolo. — II. Cause estrinseche che ne hanno ostacolato lo sviluppo. — III. Cause intrinseche della sua mancata diffusione e cenni sui modi di eliminarle.

I. — La dottrina la quale afferma che, in tutte le società umane arrivate ad un certo grado di sviluppo e di cultura, la direzione politica nel senso più largo dell'espressione, che comprende quindi quella amministrativa, militare, religiosa, economica e morale, viene costantemente esercitata da una classe speciale, ossia da una minoranza organizzata, è più antica di quanto comunemente si crede anche da parecchi di coloro che la propugnano.

Perchè, pur non tenendo conto che i fatti, sui quali si fondano i suoi principi fondamentali, sono così evidenti e comuni che non poterono mai intieramente sfuggire alla osservazione volgare, sopratutto se sgombra da preconcetti teorici, e che vaghi accenni e più o meno chiare intuizioni di essa si possono qua e là rinvenire perfino in qualche scrittore politico di secoli abbastanza lontani dal nostro, come sarebbe il Machiavelli [336], certo è che le linee fondamentali della dottrina accennata furono tracciate in modo abbastanza preciso ed evidente circa cento anni fa negli scritti del Saint-Simon.

Difatti fin d'allora questo autore, del quale ancora non è abbastanza nota ed apprezzata la profonda originalità, esaminando le condizioni morali e politiche della società medioevale e paragonandole a quelle della società agli inizi del secolo decimonono, affermava che nella prima prevaleva l'elemento militare e teologico, e perciò all'apice della piramide politica stavano i sacerdoti ed i capi militari, mentre nella seconda le funzioni principali ed essenziali per la vita sociale erano quella scientifica e quella industriale, e quindi la direzione politica doveva essere affidata a coloro che avevano la capacità di far progredire la scienza e di dirigere la produzione economica. E con ciò non solo veniva a stabilire implicitamente la immanente necessità di una classe dirigente, ma chiaramente proclamava che essa doveva possedere i requisiti e le attitudini che, in una data epoca ed in un dato tipo di civiltà, sono alla direzione sociale più necessari [337].

Figliuolo intellettuale di Saint-Simon fu il suo allievo Augusto Comte [338], il quale nel suo Sistema di politica positiva ossia di sociologia, pubblicato verso la metà del secolo decimonono, sviluppò, modificandole, alcune delle idee fondamentali del suo antico maestro, sostenendo che la direzione della società doveva in avvenire spettare ad un'aristocrazia scientifica, che egli appellava sacerdozio scientifico, ed affermando che questo regime sarebbe stato una conseguenza necessaria del periodo positivo al quale era pervenuta la mentalità umana nel secolo scorso, in contrapposto allo stadio teologico prevalente nell'antichità classica ed a quello metafisico prevalente nel Medio Evo [339]. Circa venti anni dopo, poco dopo il 1870, Enrico Taine spiegava magistralmente le cause prime della grande rivoluzione francese colla necessità di sostituire una nuova classe dirigente alla vecchia, che le antiche attitudini al comando avea perduto e quelle che i nuovi tempi richiedevano non aveva saputo acquistare; e poco prima, il Marx e l'Engels aveano formulato la teoria per la quale lo Stato sarebbe stato sempre nel passato, e sarebbe ancora oggi nella società borghese, il rappresentante della classe padrona degli strumenti di produzione economica. Dottrina che rimanda quindi alla fine di un'evoluzione, che dovrebbe fatalmente condurre al collettivismo, l'inizio di una forma di regime politico ed economico nel quale la collettività intiera, impadronitasi alla sua volta degli strumenti accennati, non sarà più sfruttata a beneficio di una minoranza.

Perciò più di sessanta anni erano trascorsi dopo le pubblicazioni di Saint-Simon, e la prima unica fonte si era già suddivisa in diverse correnti, assai divergenti l'una dall'altra, quando, sullo scorcio del secolo scorso e nei primi anni di quello presente, la nuova visione del mondo politico veniva proclamata e propalata da un certo numero di scrittori di vari paesi, che ad essa spesso erano arrivati per vie diverse ed avendo scarsa od imperfetta conoscenza gli uni degli altri e dei loro primi predecessori. Ciò che, se qualche volta aggiungeva alla loro percezione qualche cosa di spontaneo ed originale, qualche altra volta la guidava per vie senza uscita o l'arricchiva di dettagli facilmente confutabili. Quando si farà la storia della nuova dottrina della classe politica non sarà difficile l'attribuire ad ogni scrittore la parte di merito che avrà avuto nell'apportare il suo contributo di materiale buono, mediocre o cattivo nella costruzione dell'edificio, e distinguere anche quale materiale era perfettamente nuovo e quale già usato. Per ora basterà ricordare a titolo di cronaca che nel 1881 veniva alla luce la Lotta delle razze di Gumplowicz [340], che riconosceva in ogni organismo politico l'esistenza di due classi dirigenti, delle quali l'una si riservava la direzione amministrativa e militare e l'altra quella industriale, commerciale e bancaria, e fondava sopra la diversità delle origini etniche la differenziazione fra queste due classi ed il loro predominio su quella diretta, e nel 1883 veniva pubblicata la nostra Teorica dei governi, nella quale, esaminando l'intimo funzionamento dei regimi democratici, si dimostrava come anche in essi perduri la necessità di una minoranza organizzata che, a dispetto delle apparenze e dei principî sui quali legalmente poggia lo Stato, conserva la direzione reale ed effettiva di esso. Negli anni successivi venivano pubblicate la prima edizione degli Elementi di scienza politica ed a tacere di altri, le opere dell'Ammon, del Novikof, del Rensi, del Pareto e del Michels [341].

Sicchè, in parte per opera degli scrittori menzionati, ed in parte forse anche maggiore per quella spontanea maturità dell'esperienza collettiva per la quale il pensiero di una generazione, quando non si cristallizza nell'adorazione cieca degli insegnamenti degli antenati, arriva a profondità un poco più grandi di quelle raggiunte dalle generazioni precedenti, si può affermare che oggi il concetto dell'esistenza necessaria di una classe dirigente è entrato, in modo più o meno preciso, nella coscienza di tutti coloro che, nei paesi più colti d'Europa, pensano, meditano o parlano sui fenomeni storici e politici. Difatti vediamo comunemente attribuire, più che all'ignoranza delle masse o all'arbitrio dei reggitori supremi, alla incapacità ed insufficienza delle classi dirigenti gli insuccessi delle varie nazioni e le catastrofi che le minacciano. Ciò che, per conseguenza logica, porterebbe ad attribuire all'azione illuminata delle stesse classi i successi, quando questi si conseguiscono. E bisogna aggiungere che alla divulgazione dell'idea accennata ha proceduto parallela la lenta erosione di quella concezione ottimistica della natura umana che, nata nel secolo decimottavo, occupò un posto preponderante nella mentalità europea durante quasi tutto il secolo decimonono. Concezione per la quale si credeva che, distrutte le ineguaglianze legali, fosse possibile una elevazione morale ed intellettuale indefinita in tutti gli strati sociali, in modo da renderli tutti ugualmente capaci di reggere la cosa pubblica. Il quale modo di vedere evidentemente è il solo che possa fornire una base morale ed intellettuale a ciò che comunemente s'intende per democrazia, cioè al governo dello Stato per opera della maggioranza numerica dei consociati.

II. — Dopo quanto abbiamo detto, può destare ragionevole maraviglia la scarsa efficacia pratica che la nuova dottrina ha esercitato ed esercita non solo nello svolgersi delle istituzioni politiche, ma anche nella scienza ufficiale e non ufficiale. Giacchè anche coloro che ammettono l'esistenza della classe politica, ed il non ammetterla equivarrebbe alle volte a negare l'evidenza, molto spesso non ragionano come se il fatto fosse inevitabile, non ne traggono le conseguenze necessarie, e quindi non si servono della nozione accennata come di un filo conduttore che deve guidarci nell'indagine delle cause che preparano e producono gli effetti, i quali alle volte spingono le società umane verso la prosperità e la potenza, alle volte le inabissano nel disfacimento e nell'anarchia. A nulla giova infatti l'attribuire il merito del successo, o la responsabilità dell'insuccesso, alla classe dirigente se non se ne scrutano i congegni, nell'azione dei quali si può ritrovare la spiegazione della sua forza o della sua debolezza. E con ciò si è già accennato ad una delle cause della sterilità pratica della nuova dottrina; cause che però vanno piuttosto largamente esaminate e che, per facilitarne l'esame, divideremo in due categorie: in estrinseche, cioè estranee all'essenza ed allo svolgimento della dottrina stessa, ed intrinseche, ossia dovute a difetti o manchevolezze di essa.

La prima delle cause estrinseche, e si potrebbe dir anche la principale, consiste nel fatto che finora tutte le istituzioni vigenti in Europa sono basate sopra altre dottrine, delle quali qualcuna è diversa e quasi estranea a quella della quale ci occupiamo e qualche altra con essa in antitesi perfetta. Difatti i Governi rappresentativi, ora quasi da per tutto prevalenti nei paesi di civiltà europea, in parte sono modellati secondo i precetti del Montesquieu, che nella triplice partizione dei poteri sovrani fa consistere l'essenza e la guarentigia della libertà politica, ed in parte sempre maggiore sopra quelli di Rousseau, a tenore dei quali soli poteri legittimi sono quelli che rappresentano la volontà della maggioranza numerica dei cittadini ed il diritto al suffragio viene considerato come un diritto innato, dal quale nessun individuo può essere ragionevolmente ed onestamente escluso.

Or il regime democratico ha per sè, a preferenza di altri, una grande forza conservatrice, la quale consiste nella necessità che hanno i suoi naturali avversari di accettarlo ufficialmente se vogliono eluderne, in parte maggiore o minore, le conseguenze. Tutti coloro infatti che per ricchezza, cultura, intelligenza o furberia hanno le attitudini e la possibilità di guidare la comune degli uomini, in altre parole tutte le frazioni della classe dirigente, una volta che il suffragio universale è istituito, devono inchinarsi davanti ad esso; ed anche, occorrendo, adularlo, se vogliono partecipare alla direzione dello Stato ed arrivare a quei posti dai quali i loro particolari interessi di classe possono essere meglio difesi. Questo omaggio ufficiale, che gli stessi naturali avversari della democrazia devono tributarle, impedisce ad essi di professarsi pubblicamente come seguaci di teorie le quali esplicitamente negano la possibilità di un regime democratico, come viene comunemente concepito, e fa sì che difficilmente possa formarsi quella coalizione di sentimenti e d'interessi, che è necessaria affinchè una dottrina diventi una forza attiva capace di trasformare le istituzioni, perchè essa conquisti e penetri gli intelletti in modo da modificare sensibilmente l'indirizzo di una società [342].

Si aggiunga che una concezione nuova, in politica od in religione, non può acquistare molta efficacia pratica finchè quella che nella mentalità umana l'ha preceduto non ha esaurito tutta la sua forza di espansione, o, meglio ancora, finchè non ha compito il programma storico per il quale era nata e si era più o meno rapidamente diffusa. Ora la moderna concezione democratica è nata poco più di un secolo e mezzo fa, ebbe rapidissima diffusione perchè prima in Francia, e poi immediatamente dopo nell'Europa occidentale, la nuova classe dirigente l'adoperò subito per abbattere i privilegi della nobiltà e del clero e sostituirsi in gran parte ad essi; ma, per quanto i progressi della cennata dottrina siano stati rapidi, alla fine del secolo decimonono la sua missione non era certamente compiuta e, nei paesi dell'Europa orientale, l'efficacia della sua azione è stata relativamente molto recente.

Perciò quando Saint-Simon, circa cento anni fa, credeva esaurito il compito delle dottrine democratiche ed in una lettera aperta a Luigi XVIII gli suggeriva "di non preoccuparsi del preteso dogma della sovranità popolare, il quale non era che un'antitesi opposta dai legisti e dai metafisici al dogma del diritto divino, un'astrazione provocata da un'altra astrazione, e che i due dogmi rappresentavano i residui di una lotta omai terminata” [343], evidentemente egli commetteva un grossolano anacronismo e dimenticava, o non sapeva, con quanta disperante lentezza si svolga ordinariamente la storia in rapporto alla brevità della vita umana.

Invece il diritto divino, che Saint-Simon credeva morto e sepolto precisamente un secolo fa, tentava ancora di resistere in Francia nel 1830, quando Saint-Simon era già morto, con Carlo X e con Polignac, ed in Germania ed in Russia resisteva ancora alla corrente dei tempi fino a qualche anno fa; mentre l'altro dogma metafisico della sovranità popolare non si affermò interamente che col suffragio universale, che la Francia adottò per la prima in Europa solo nel 1848. Sebbene sia pure vero che, in tutti i paesi che più o meno recentemente l'hanno adottato, si è mantenuto finora, sotto l'egida di esso, quel predominio delle classi colte ed agiate, più o meno temperato dalle influenze della piccola borghesia e da quelle dei rappresentanti degli interessi di alcune categorie del proletariato, il quale ha in fondo molta analogia con quel governo degli industriali, dei dotti e degli artisti auspicato dal nostro autore e che egli voleva che Luigi XVIII iniziasse di sua autorità. E si potrebbe aggiungere che le istituzioni democratiche potranno forse ancora durare se, mediante esse, si riuscirà a mantenere un certo equilibrio fra le varie frazioni della classe dirigente e se l'apparente democrazia, fatalmente trascinata dalla logica, che è la sua peggiore nemica, e dagli appetiti delle classi inferiori e di coloro che le capeggiano, non vorrà fare il tentativo di diventare realtà, integrando l'uguaglianza politica con quella economica e culturale.

III. — Alla principale causa intrinseca della scarsa fortuna che ha avuto finora la dottrina della immanenza necessaria della classe dirigente abbiamo già sommariamente accennato.

Una dottrina è un filo dal quale, non dico i profani, ma coloro che sono iniziati nello studio di un dato ordine di fatti, vogliono essere guidati nel laberinto che questi a prima vista presentano, e, tanto più riesce praticamente utile, quanto più agevola e semplifica la loro comprensione e la loro analisi; ed in questa cosa, come in tante altre, l'apparenza basta spesso a soddisfare gli uomini quanto la sostanza. Or certamente le antiche classificazioni delle varie forme di regime politico, quella di Aristotile, che le divideva in monarchie, aristocrazie e democrazie, e quella di Montesquieu, che le tripartiva in governi dispotici, monarchici e repubblicani, adempivano abbastanza bene al fine indicato. Ognuno, seguendo lo Stagirita o l'autore dello Spirito delle leggi, poteva facilmente orizzontarsi nello stabilire la categoria alla quale apparteneva il regime politico del proprio paese o dei paesi vicini o anche lontani e, bene stabilito questo punto, poteva credersi facilmente autorizzato, applicando i precetti del maestro che aveva scelto e dei suoi continuatori, a rilevarne i pregi, i difetti ed i pericoli ed a rispondere alle obbiezioni che gli venivano fatte.

Invece, la semplice affermazione che in tutte le forme di governo il potere vero e reale risiede in una minoranza dirigente, esautora le antiche guide senza fornirne una nuova; è la constatazione di una verità generica, che non aiuta ad addentrarsi nell'esame degli avvenimenti politici presenti e passati, che per sè sola non spiega perchè certi organismi politici siano saldi ed altri deboli, ne indica i modi e le vie per evitarne la decadenza e riparare i loro possibili difetti. E l'imputare tutto il merito della prosperità, la responsabilità della dissoluzione politica di una società, alla sua classe dirigente serve a poco quando non si conoscono i vari tipi secondo i quali le classi politiche si formano e si organizzano, perchè è appunto in questa varietà che bisogna ricercare il segreto della loro forza o della loro debolezza.

Perciò all'affermazione sintetica e generica è necessario aggiungere lo studio analitico, ricercando pazientemente i caratteri costanti delle varie classi dirigenti e quelli variabili, ai quali si riattaccano le cause remote, quasi sempre inavvertite dai contemporanei, della loro coesione o della loro dissoluzione. Si tratta in fondo di adoperare il procedimento tanto usato nelle scienze naturali, nelle quali una quantità di cognizioni, diventate ora patrimonio intangibile del sapere umano, sono dovute ad intuizioni felici, in parte confermate, in parte modificate, ma sempre sviluppate, dagli esperimenti e dalle esperienze successive. E se si obbiettasse la difficoltà, e si potrebbe aggiungere la quasi impossibilità, di fare esperimenti quando si tratta di fatti sociali, si potrebbe rispondere che la storia, la statistica e l'economia politica hanno omai raccolto tale un tesoro di esperienze che esso è sufficiente per iniziare l'indagine accennata.

Finora gli storici, seguendo in ciò l'opinione prevalente nel pubblico, hanno messo sopratutto in evidenza le gesta dei capi supremi degli Stati, di coloro che stanno al vertice della piramide politica ed, occasionalmente, anche i meriti degli strati più bassi della piramide, delle masse che coi loro sudori, e spesso col loro sangue, hanno fornito ai capi supremi i mezzi materiali necessari a raggiungere i loro fini. Se la nuova visione relativa all'importanza della classe dirigente si vuole affermare occorre che, senza negare la valida cooperazione tanto del vertice che della base della piramide, sia dimostrato che, senza l'opera degli strati intermedi, quasi nulla di importante e duraturo l'uno e l'altra avrebbero potuto fare; poichè dalla maniera come questi strati intermedi sono formati e funzionano dipende principalmente il tipo al quale un organismo politico appartiene e l'efficacia della sua azione. E, quando questa dimostrazione verrà fatta, sarà reso evidente che l'opera dei capi supremi degli Stati ha potuto lasciare di sè traccia duratura, in generale, solo quando essa ha saputo prendere l'iniziativa di una opportuna riforma delle classi dirigenti, e che il merito precipuo delle classi popolari ha consistito sempre nella capacità congenita di trarre dalle loro viscere nuovi elementi idonei a bene guidarle.

È per le ragioni esposte che intendiamo ora di continuare e sviluppare lo studio analitico della classe politica. Naturalmente non mancheremo di valerci in proposito delle osservazioni fatte nella prima parte di questo ed in altri nostri lavori, coordinandole e completandole con osservazioni nuove, nè trascureremo di trarre il massimo profitto che ci sarà possibile di quanto altri autori hanno scritto sull'argomento.

Sarebbe puerile la speranza di esaurire il tema, poichè si tratta di lavoro per il quale può non riuscire sufficiente l'opera di tutta una generazione di pensatori. È come se ci trovassimo davanti un'ardua catena di montagne nella quale l'umanità, se vorrà acquistare una certa conoscenza delle leggi che finora, quasi a sua insaputa, hanno guidato la sua azione politica, deve aprire un'arditissima strada, che dovrà inerpicarsi per cime difficili e scavalcare abissi profondi. Non aspiriamo neppure a completarne il primo tronco, e saremo assai soddisfatti se arriveremo a costruire alcuni dei sentieri, che permetteranno agli ingegneri di studiare bene il tracciato che la strada dovrà seguire e di preparare alcuni dei progetti di quelle opere d'arte, che, per la sua costruzione, saranno indispensabili.

 


 

[345]

CAPITOLO II.
Descrizione dei diversi tipi di organizzazione politica.

I. I primi nuclei politici. — II. I grandi imperi orientali. — III. Formazione dello Stato ellenico. — IV. Originalità e debolezze dello Stato ellenico.

I. — Volendo studiare i diversi tipi di formazione ed organizzazione della classe politica, è molto utile, per non dire indispensabile, di gettare prima uno sguardo sui varî metodi secondo i quali le società umane, che hanno raggiunto un certo sviluppo ed hanno acquistato un posto nella storia del mondo, si sono costituite ed hanno funzionato. Questa indagine preliminare fornisce forse la maniera più adatta e più pratica di porre in evidenza la importanza che alla classe politica spetta in ogni organizzazione sociale; perchè, studiando i diversi metodi seguiti nella formazione dei varî Stati, sarà facile accertare che le differenze, per dir così anatomiche, che in essi riscontreremo, ed i tipi, secondo i quali queste differenze si possono raggruppare, corrispondono appunto alla diversa formazione ed al diverso funzionamento delle loro classi dirigenti.

Uno studio, che aveva qualche analogia con quello che ora vogliamo iniziare, fu già intrapreso, più di mezzo secolo fa, quando lo Spencer e poi i suoi seguaci, volendo costruire la nuova scienza che essi, sull'esempio del Comte, appellavano Sociologia, credettero opportuno dividere tutte le organizzazioni politiche in due grandi tipi fondamentali: quello militare, basato sulla costrizione con la quale i dominatori s'imponevano ai dominati, e quello industriale, basato sopra patti o contratti liberamente accettati da tutti coloro che partecipavano al consorzio sociale. Abbiamo già nella prima parte di questo lavoro accennato alla imperfezione di questa classificazione, ed abbiamo già messo in rilievo come il germe di verità che conteneva sia rimasto infecondamente sperduto in una visione unilaterale ed incompleta dei fatti che, colla guida di esso, si volevano analizzare [344]. Aggiungeremo ora che a questa infecondità della classificazione accennata, ed in generale di tutte le dottrine dello Spencer e dei suoi seguaci, ha senza dubbio efficacemente contribuito l'indirizzo seguito nelle loro ricerche ed i materiali da loro usati per costruire l'edificio della nuova scienza che volevano creare.

Essi partivano infatti dal concetto che è negli organismi sociali più semplici e primitivi, e perciò nelle piccole orde dei selvaggi o semi-selvaggi, che bisogna rintracciare i germi dai quali poi si sono sviluppati i diversi tipi di ordinamento politico, che si possono riscontrare nei popoli arrivati ad un certo grado di civiltà ed ordinati in nuclei politici di qualche importanza; e le loro conclusioni perciò si fondavano principalmente sulle relazioni dei viaggiatori, che con le popolazioni più primitive avevano avuto maggiori contatti. Mentre, a tacere di tanti altri appunti che al detto metodo si potrebbero fare, sembra a noi evidente che, come avviene nelle piante e negli animali, nei quali i tipi primitivi necessariamente si rassomigliano, perchè una semplice cellula sarà sempre simile ad un'altra cellula, anche negli organismi sociali la differenziazione debba farsi maggiore a misura che essi si sviluppano e si complicano.

Ed in verità non ci vuole molto a convincersi che una piccola orda di selvaggi, del genere di quelle che ancora vagano nell'interno dell'Australia, potrà essere pacifica o guerriera, a seconda della maggiore abbondanza o deficienza dei suoi mezzi di sussistenza o della natura delle popolazioni, con le quali si troverà in contatto; ma che, se vogliamo rintracciare in essa un regime politico, questo non potrà consistere che nel predominio del maschio, più forte, intelligente ed astuto, e, generalmente, del migliore cacciatore o del migliore guerriero. Potrà anche darsi che l'esperienza di qualche vecchio o di qualche vecchia sia tenuta in qualche considerazione, ma è impossibile che in un organismo sociale così primitivo ci sia già una distinzione di classi, che non può essere fondata che sulla differenziazione stabile delle occupazioni.

Ed, anche quando lo stadio primitivo è decisamente oltrepassato, quando la sussistenza è già basata sulla pastorizia ed anche sopra una incipiente agricoltura, e l'orda è diventata una tribù, che comprende, secondo i casi, diversi raggruppamenti di tende od anche un borgo o parecchi villaggi, e comincia a delinearsi una certa specializzazione nelle funzioni e quindi una certa gerarchia sociale, il tipo politico che riscontriamo in tutti questi organismi, che non hanno superato la prima fase del loro sviluppo, presenta, in tutte le razze ed in tutte le latitudini, una notevole somiglianza. Poichè la tribù, sia essa ancora nomade o semi-nomade, o abbia già stabile dimora, avrà sempre un capo, che è giudice supremo, sacerdote, quando essa ha ancora i suoi speciali Dei protettori, e duce militare. Ma egli, in tutte le quistioni di qualche importanza, deve sempre consultare il consiglio dei maggiorenti e nulla decide senza il loro consenso, ed in quelle di massima importanza, le sue decisioni e quelle dei maggiorenti devono essere approvate dall'assemblea di tutti i membri della tribù, cioè di tutti gli adulti, che non sono schiavi, e neppure individui estranei, ai quali la tribù ha accordato la sua protezione, ma che non ha ancora aggregato a sè per via dell'adozione o di qualche altra finzione legale.

È questo l'ordinamento che troviamo descritto in Omero [345], e quasi identico è quello che Tacito riscontrava nei Germani suoi contemporanei [346], e che ora riscontrasi nelle tribù arabe dell'Asia in quelle arabo-berbere dell'Africa settentrionale, nelle quali però il capo, dato il prevalente islamismo, ha quasi perduto ogni carattere religioso. Nè altro ordinamento sarebbe, date le condizioni sociali, possibile. Perchè il capo, sebbene appartenga ordinariamente alla famiglia più ricca ed influente della tribù, non potrebbe farsi obbedire senza che siasi prima concertato con gli altri membri autorevoli per ricchezze ed aderenze, od anche per particolare fama di saggezza. La massa poi degli uomini liberi, quando è riunita in assemblea, ordinariamente non prende parte attiva alla discussione e si limita ad approvare coi suoi applausi od a disapprovare coi suoi mormorii le proposte dei maggiorenti, che quasi sempre hanno preso la precauzione di mettersi prima d'accordo e che, già consumati nell'arte di condurre le folle, qualche volta si sono prima divise le parti che devono recitare [347].

In questi organismi politici al primo stadio del loro sviluppo, come si è già accennato, comincia ordinariamente a delinearsi una certa differenziazione di classi basata sull'eredità della situazione economica e politica. Anzi il capo supremo è molto spesso ereditario, ma, come oggi accade nelle tribù arabo-berbere, difficilmente al padre succede il figlio se questi per intelligenza, tatto ed energia si mostra incapace a reggere la suprema carica e se non è affiancato da numerosi parenti e clienti e sorretto da una fortuna personale relativamente cospicua. E lo stesso avviene per i maggiorenti, nei quali il lustro degli antenati è quasi sempre pregiato, ma non è sufficiente da solo alla conservazione del rango politico. In certe tribù non vi è un vero capo, perchè gli altri maggiorenti gelosi non lo tollererebbero, ma in fondo vi è quasi sempre qualcuno fra loro che riesce ad avere di fatto un predominio sugli altri [348]. Spesso il primo posto è disputato fra due famiglie influenti e rivali ed è questa alle volte l'origine dei cof o partiti, che agitano così spesso le tribù arabo-berbere [349]. Naturalmente poi, quando la tribù si sviluppa in modo che essa si avvia a diventare un piccolo popolo di parecchie decine di migliaia di persone, la sua organizzazione politica accenna a modificarsi; e si modifica in generale nel senso di una maggiore differenziazione delle classi sociali e di una maggiore influenza dei maggiorenti, che tendono a rafforzare ed a rendere più stabile la loro azione sulle masse [350].

II — Ma dovette venire un momento, che forse non sarà mai precisato, nel quale una tribù si potè sviluppare tanto, assorbendo o sottomettendo altre tribù limitrofe, che essa potè diventare un popolo, creare una civiltà, e costituire un grande organismo politico, così saldo da riunire e coordinare un numero rilevante di sforzi e di energie individuali indirizzandoli al raggiungimento di scopi comuni, sia di guerra che di pace; riuscendo perciò ad organizzare ed a tenere in campo eserciti numerosi e relativamente disciplinati, o costruendo edifici maravigliosi, o meglio ancora, rendendo più feconda la terra per via di un complesso e studiato sistema di canalizzazione delle acque.

Certo anche questa volta la natura non dovette fare dei salti, e perciò il sorgere dei primi grandi stati dovette essere preceduto da un lungo periodo di elaborazione, durante il quale il borgo primitivo, che era capoluogo della tribù, dovette avviarsi a diventare una città, i progressi dell'agricoltura dovettero esser tali da permettere ad un numero relativamente grande di uomini di vivere addensati in un territorio relativamente piccolo, e l'organizzazione politica potè divenire più salda e meno rudimentale di quella testè descritta. Anzi, molto probabilmente, durante questo periodo preparatorio alcune arti avevano già preso un qualche sviluppo ed un primo accumulo di capitale sotto la forma di scorte di viveri e di strumenti di guerra e di pace era già avvenuto. E già fin d'allora la scrittura, per quanto ancora imperfetta, cominciava a fissare i ricordi del passato ed a facilitare la trasmissione delle nozioni e dell'esperienza di una generazione alle generazioni successive.

Pare che il primo grande impero del quale è possibile, mercè documenti storici, di stabilire presso a poco la data della nascita, sia stato quello fondato da Sargon, detto l'antico, re di Agadé nella Caldea, circa tremila ottocento anni prima dell'era volgare; esso si estendeva sicuramente dal golfo Persico fino al Mediterraneo ed alla penisola del Sinai. E, se realmente fu questo il più antico grande organismo politico, esso segna senza dubbio un passo decisivo nella storia della civiltà umana. Sembra del resto che abbia durato meno di un secolo, essendosi spezzato in parecchi regni rivali e nemici fra di loro, dopo la morte di Saramsin figlio e successore di Sargon. Ma l'esempio dato dovea trovare imitatori, ed altri grandi imperi, in epoca sempre remota, doveano sorgere prima nella bassa Mesopotamia e più tardi in quella alta. Babilonia, posta in una posizione quasi intermedia fra l'alta e la bassa vallata dell'Eufrate e del Tigri, fu, almeno per sedici secoli, quanti ne corrono da Hammurabi a Nabu-kudur-ussur, quasi sicuramente il più grande centro di popolazione, di ricchezza e di cultura che abbia avuto allora il mondo.

Intanto, forse qualche tempo prima di Sargon, certo non molto tempo dopo, Menes, il fondatore della prima dinastia egiziana, aveva riunito in un solo tutti i piccoli stati nei quali si suddividevano prima l'alto e basso Egitto, dando origine ad un impero e ad un centro di civiltà rivale di quelli mesopotamici e che dovea, interrotto da qualche lunga eclissi, quanto questi durare.

Tutto ciò che sappiamo dell'organizzazione politica degli antichissimi imperi della Mesopotamia e dell'Egitto ci fornisce la prova che al vertice della piramide sociale stava un sovrano che aveva un carattere sacro, perchè offriva a nome di tutto il popolo i sacrifizi al nume nazionale, al quale era affidata la tutela dell'impero, nume che a Tebe egizia era Ammon, a Babilonia Marduk ed a Ninive Asshur. A nome del sovrano tutti i poteri civili e militari erano esercitati da una numerosa gerarchia di funzionari, scelti ordinariamente fra i maggiorenti della popolazione che aveva fondato l'impero. Spesso le popolazioni sottomesse conservavano i loro capi ereditari locali ed una certa autonomia, ma qualche volta venivano interamente assorbite da quella vincitrice, si fondevano con essa, ed in questo caso i funzionari locali venivano direttamente nominati e revocati dal Re, o meglio dalla Corte e nella Corte. In Egitto si è potuto notare che i due sistemi, durante il lunghissimo periodo nel quale durò la nazionalità egizia, hanno parecchie volte prevalso l'uno sull'altro, a seconda che l'impero rafforzandosi si centralizzava o, indebolendosi, tendeva a scompaginarsi. La classe dirigente dividevasi ordinariamente in capi dei guerrieri e sacerdoti, ma i sacerdoti egizii e caldei erano i depositari della scienza d'allora e ad essi era ordinariamente devoluta la conoscenza e l'applicazione delle leggi. Non manca qualche esempio di sommi sacerdoti che riuscivano anche a sostituire il potere laico e ad esercitare l'autorità regia [351].

Quanto al sistema di reclutamento dei funzionari civili e militari si è potuto pure constatare, sopratutto nell'antico Egitto, una grande differenza di metodi durante i tremila anni circa che dura la sua storia. Come abbiamo detto nella prima parte di questo lavoro, ci furono epoche nelle quali la conoscenza esatta della scrittura geroglifica era la chiave che apriva l'adito alle carriere superiori, sia civili che militari, e si vedevano persone del popolo arrivare ai gradi elevati [352]. Ma generalmente, se non vi erano delle vere caste chiuse, la gerarchia sociale aveva una grande stabilità e si era piuttosto figli dei propri padri anzichè delle proprie opere. In Babilonia sappiamo intanto che gli schiavi erano numerosissimi e quasi tutti i documenti ed i monumenti egiziani ci fanno testimonianza del fasto che, sia durante la vita che nella tomba, spiegava sempre la classe elevata, mentre un lavoro manuale intenso, e spesso forzato, era la sorte ordinaria di quelle più umili.

Le notizie che gli scrittori greci incidentalmente ci danno sulle condizioni sociali e politiche dell'ultimo grande impero orientale anteriore all'era volgare, su quello cioè dei Persiani, col quale la Grecia ebbe frequentissimi contatti, dimostrano concordemente la grande importanza che la nascita aveva nella formazione della gerarchia politica. Secondo Erodoto, dopo l'uccisione del falso Smerdi, che aveva potuto diventare re facendosi credere figlio di Ciro, sette signori persiani disposero del trono; secondo Senofonte quando, morto a Cunassa Ciro il giovane, i mercenari greci offrirono la corona ad Arieo, che comandava le truppe persiane che avevano combattuto insieme a Ciro, Arieo si rifiutò dicendo che egli non era abbastanza nobile e che perciò i grandi di Persia non l'avrebbero mai accettato per re. Gli stessi Greci ci informano che l'impero di Persia era in fondo una confederazione più o meno spontanea di popoli, di civiltà più o meno antica e diversa, sotto l'egemonia della Persia. Alcuni popoli, come l'Armenia, la Cilicia e la città di Tiro, conservavano le loro autonomie ed i loro sovrani nazionali, mentre altri, come la Lidia e la Babilonia, erano governati da satrapi scelti fra i grandi signori persiani della Corte di Susa e che la Corte faceva strettamente sorvegliare. Ad essa quasi tutte le nazioni sottomesse pagavano un tributo annuo, proporzionato alla loro ricchezza, e fornivano all'occorrenza milizie ausiliarie. Nel mezzo poi delle Provincie sottomesse alcune popolazioni di montanari conservavano di fatto una selvaggia indipendenza, come era il caso dei Carduchi, che corrispondevano su per giù agli odierni Curdi [353].

Nel Medio Evo in gran parte sul tipo dello Stato orientale si costituì lo Stato maomettano, il quale senza dubbio alcuni elementi della sua organizzazione amministrativa e politica potè riceverli da Bisanzio, ma in parte assai maggiore si modellò sugli esempi e le tradizioni del nuovo impero persiano dei Sassanidi [354]. Si sa però che lo Stato maomettano, malgrado il cemento religioso che costituiva la forza della sua classe dominante, malgrado che anch'esso in certe epoche abbia permesso lo sviluppo di una grande cultura, avea delle debolezze innate, che fatalmente produssero la più o meno rapida disgregazione dei grandi organismi politici che lo slancio conquistatore delle prime generazioni islamiche avea creato. Anche non tenendo conto del fatto risaputo che quasi tutti i rapporti sociali e politici vengono nel mondo musulmano regolati dal codice religioso, ossia del Corano, ciò che alla lunga dovea necessariamente arrestarne lo sviluppo, pare accertato che una delle cause più frequenti delle rapide disgregazioni degli imperi musulmani derivasse dall'uso di concedere ai capi preposti alle singole provincie la facoltà di levare i soldati e di riscuotere direttamente le imposte, con le quali li pagavano. Concentramento di poteri che facea sì che essi facilmente riuscissero a formare tale uno spirito nelle truppe da potersi proclamare indipendenti, o diventare di fatto tali, conservando verso il Califfo un ossequio solo formale [355].

Anche la Cina, fino a pochi anni fa, era politicamente organizzata sul tipo dello Stato orientale, che però essa da parecchi secoli aveva portato ad un grado di perfezionamento forse mai raggiunto, per la morale laica e positiva che formava la base della sua civiltà, per la grande unità della cultura, che fra il suo popolo si era diffusa in tanti secoli di storia comune, e finalmente per il sistema democratico di reclutamento dei suoi funzionari, ammessi e promossi sempre in seguito a concorsi. Malgrado ciò lo Stato cinese ebbe quasi sempre una forza inadeguata alla sua vastità, ed esso mostrò subito la inferiorità della sua macchina politica appena venne in contatto con gli Stati europei. E si sa infine che il Giappone, se ha voluto conservare la sua indipendenza e la sua antica anima nazionale, ha dovuto rapidamente rinnovare la sua organizzazione politica, amministrativa e militare secondo i modelli forniti dagli Stati di civiltà europea.

Certo è dunque che l'organizzazione degli imperi di tipo orientale è rimasta sempre assai inferiore a quella dei moderni Stati di civiltà europea ed anche a quella dell'antico impero romano. E si potrebbe anche aggiungere che essa per molti lati era imperfetta, se la paragoniamo a quella del piccolo stato ellenico dell'epoca classica, di cui fra poco dovremo occuparci. Senonchè sarebbe ingiusto dimenticare che fu in quegli antichi imperi, le cui vicende apprendiamo a misura che si vanno decifrando le vecchie iscrizioni geroglifiche e cuneiformi, che l'umanità potè accumulare le prime esperienze ed i primi capitali, che resero possibili gli ulteriori progressi intellettuali ed economici. Fu sulle rive del Tigri, dell'Eufrate e del Nilo che per la prima volta i gruppi di maggiorenti, che prima reggevano le singole tribù, si fusero ed organizzarono in vere classi politiche, le quali ebbero campo di concepire e sviluppare l'idea che vi erano grandi interessi comuni a milioni di individui umani. E fu in queste classi che, per la prima volta, potè avvenire una selezione per la quale un certo numero d'individui, liberi dalle cure materiali della vita, difesi dall'organizzazione, della quale facevano parte, contro le cupidigie e le violenze di coloro che, in ogni tempo ed in ogni società, aspirano ad occupare i posti migliori, poterono dedicarsi all'osservazione dell'uomo e del mondo in cui esso vive ed elaborare i primi rudimenti della morale famigliare e sociale. Quei rudimenti, che troviamo espressi circa 4.000 anni fa nel Codice di Hammurabi, dove sono già sancite molte delle norme che l'individuo deve osservare affinchè il consorzio sociale possa sussistere, e nel vecchio rituale dei morti dell'antico Egitto, in parte più antico del codice di Hammurabi, nel quale troviamo per la prima volta alcuni di quei precetti morali, di quelle norme di carità, che poi formeranno la base morale di tutte le grandi religioni mondiali [356]. Fu infine colà che fece le sue prime prove la difficile arte della pubblica amministrazione, la quale consiste sopratutto nel fare in modo che in una grande società, col minimo di costrizione possibile, l'attività che ogni individuo spiega spontaneamente a proprio vantaggio dia anche risultati proficui per la collettività.

III. — Se la civiltà europea ha potuto creare un tipo di organizzazione politica, che profondamente si distingue da quella dell'impero orientale, ciò si deve in grandissima parte all'eredità intellettuale della Grecia e di Roma. Senza dubbio grandissima è la differenza che corre fra un grande Stato moderno europeo od americano e ciò che era lo Stato ateniese o spartano o anche quello romano all'epoca repubblicana, ma possiamo ritenere come sicuro che, senza l'eredità intellettuale degli scrittori politici dell'epoca classica, i quali formarono il loro pensiero sulle istituzioni politiche che sotto i loro occhi si svolgevano, l'Europa moderna ed i paesi d'oltremare colonizzati da Europei non avrebbero adottato quegli ordinamenti politici, che tanto li distinguono dagli imperi asiatici.

Certo molti elementi della sua civiltà la Grecia li prese dai più vicini imperi asiatici e dall'Egitto, e le prime infiltrazioni dovettero avvenire nel periodo preistorico, quando fiorì quella civiltà preellenica, che ebbe il suo centro a Creta e scomparve non lasciando che vaghi ricordi e l'iniziazione all'agricoltura e ad altri progressi materiali che, una volta entrati nelle abitudini di un paese, possono decadere ma non scompaiono mai interamente, anche se sono distrutti il popolo o la civiltà che per i primi li hanno inventati od adottati. Altre infiltrazioni orientali ed egiziane avvennero pure nell'epoca nella quale la cultura, che fu propriamente ellenica, cominciò a ridestarsi, cioè a partire dal nono secolo avanti l'êra volgare, quando intermediari fra la Grecia, gli imperi orientali e l'Egitto furono principalmente i Fenici. E questa volta i nuovi semi trapiantati nel suolo dell'Ellade diedero frutti abbastanza diversi, e per molti rispetti migliori, di quelli della pianta dalla quale provenivano, specialmente per quel che riguarda l'arte, la scienza e l'organizzazione politica.

Abbiamo già visto come il regno omerico, che troviamo agli inizi del risveglio della civiltà greca, non si differenziasse molto dal tipo di organizzazione politica semi-primitivo, che troviamo in tutte le popolazioni che hanno salito solo i primi gradini della scala la quale conduce alle grandi organizzazioni politiche. Il Re omerico era infatti assai analogo al capo della tribù araba o germanica, perchè egli esercitava la sua autorità, che era principalmente morale ed aveva anche un certo fondamento religioso, coll'assistenza di un Consiglio di maggiorenti e, nei casi più gravi, chiamava a parlamento tutti i guerrieri, ossia gli uomini liberi che facevano parte della tribù. Senonchè in uno spazio di tempo, che non può essere superiore ai tre secoli, vediamo questo tipo di organizzazione politica, che ben poco aveva di speciale, trasformarsi nell'originalissima città greca dell'epoca classica [357].

Se studiamo le cause di questa trasformazione, si può anzitutto notare che il suolo greco, accidentato in modo che ogni cantone, ogni borgo col suo territorio, era diviso da ostacoli naturali abbastanza importanti dai cantoni vicini, ostacolava la formazione di grandi imperi come quelli che poterono sorgere nelle grandi e pianeggianti vallate del Tigri, dell'Eufrate, del Nilo e del fiume Giallo. Inoltre la stabilità delle sedi, già abbastanza assicurata, e la proprietà privata della terra, già entrata nelle consuetudini fin dai tempi di Omero, permisero tale uno sviluppo della produzione agricola da rendere possibile che, in un territorio relativamente piccolo, potesse vivere una popolazione relativamente grande, sicchè il villaggio od il borgo primitivo potè diventare una città di trenta o quarantamila abitanti ed in casi speciali anche più popolosa [358]. Forse anche al diverso sviluppo politico contribuì la salda organizzazione gentilizia, per la quale ogni gruppo di famiglie che reputavasi discendere da un antenato comune conservava in origine una certa autonomia politica e religiosa, in maniera che la città era una specie di confederazione di genti. Ma, accanto a questi coefficienti, ne dovettero agire altri di natura intellettuale e morale, che, a tanta distanza di tempo ed in tanta povertà di documenti, non possiamo esattamente scernere ed analizzare e che perciò indichiamo con una espressione generica ed imperfetta, definendoli come un prodotto del genio particolare della stirpe ellenica e poi di quella italica.

Checchè ne sia, certo è che nell'Ellade, forse meno di un secolo dopo Omero [359], la regalità cominciò a perdere terreno ed a cadere in dissuetudine e che nel Consiglio dei maggiorenti il re o disparve o perdette quasi intieramente la sua importanza. La città fu perciò governata dai capi delle genti, ossia dei gruppi di famiglie più antiche ed influenti, che possedevano le terre migliori e le facevano coltivare dagli schiavi, o da quella turba di spostati e di profughi, che ogni città soleva accogliere quando qualche cittadino influente concedeva loro la sua protezione. L'organo politico prevalente fu quindi l'antico senato o Consiglio dei maggiorenti, dove le famiglie principali erano rappresentate. Quasi sicuramente l'antica assemblea di tutti i cittadini continuò a sussistere accanto al Consiglio dei maggiorenti, ma, dato l'accentramento della proprietà e date le numerose clientele di cui i gruppi di famiglie principali disponevano, quest'ultimo conservò per un certo tempo la preponderanza che aveva all'epoca della regalità.

In un'epoca, che deve corrispondere su per giù al settimo secolo avanti l'êra volgare, i progressi dell'agricoltura ed un incipiente commercio dovettero fornire a molti dei discendenti degli antichi stranieri domiciliati i mezzi per formarsi una posizione economica presso a poco indipendente, e nacque quindi in essi il desiderio di essere ammessi nella cittadinanza, ciò che era l'unico modo di partecipare ai pubblici poteri e di sottrarsi alla onerosa tutela dei maggiorenti. Il movimento dovette essere secondato dalle famiglie più povere ed oscure degli antichi cittadini, che anche essi avevano interesse a combattere il regime oligarchico che le famiglie più ricche ed illustri avevano instaurato [360]. Dopo un periodo di lotte civili, nelle quali spesso la parte soccombente doveva emigrare, periodo del quale le traccie si ritrovano nei poeti dell'epoca e segnatamente nei versi di Teognide da Megara, e che fu alle volte interrotto dalla dittatura di qualche capo popolo che appellavasi tiranno, si venne generalmente ad un compromesso del genere di quello che Solone attuò in Atene nei primi decenni del sesto secolo avanti Cristo, e da questi compromessi nacque quella costituzione delle città greche nell'epoca classica che, nella storia politica del mondo, doveva avere così grande importanza.

Le basi precipue dei compromessi furono generalmente due: anzitutto l'entrata nella città di un certo numero di discendenti di antichi stranieri domiciliati o di schiavi emancipati, senza però che il principio fosse applicato ai casi posteriori alla riforma della costituzione, perchè i nuovi stranieri domiciliati rimasero in generale rigorosamente esclusi dalla cittadinanza, tanto che perfino la democratica Atene non ammetteva fra i suoi cittadini i figli di un cittadino e di una straniera [361]; ed in secondo luogo il riconoscimento esplicito che il potere sovrano risiedeva nell'assemblea di tutti i cittadini. La quale perciò assorbì a poco a poco quasi tutte le antiche giurisdizioni gentilizie, che prima i capi delle famiglie aristocratiche esercitavano sui loro consanguinei, ed esautorò più o meno l'antico Consiglio dei maggiorenti, che si trasformò ordinariamente in un senato, che era molto spesso un'emanazione diretta dell'assemblea che ne nominava i membri.

Si sa che l'antichità classica non conobbe quella netta divisione dei tre poteri legislativo, esecutivo e giudiziario che, almeno teoricamente, è una delle principali caratteristiche delle costituzioni moderne [362], tanto che il pretore romano potè esercitare funzioni che ora si direbbero legislative; ma è certo che, nell'Ellade classica, ciò che ora corrisponderebbe al potere sovrano per eccellenza, cioè al potere legislativo, veniva quasi esclusivamente affidato all'assemblea dei cittadini, mentre ciò che noi chiamiamo funzioni esecutive e giudiziarie venivano delegate a Corpi o ad individui, che erano quasi sempre eletti da tutti i cittadini, o designati dalla sorte fra tutti o fra determinate categorie di cittadini [363].

Caratteristiche comuni di quasi tutte le costituzioni delle città elleniche erano la temporaneità delle cariche, i cui titolari venivano quasi sempre rinnovati almeno tutti gli anni, e la moltiplicità delle persone che esercitavano una data pubblica funzione; moltiplicità che mirava a far sì che il potere di un individuo potesse esser sempre controllato e limitato da quello di uno o di parecchi altri individui rivestiti di uguale potere, come appunto avveniva dei consoli a Roma. Ed il principio veniva cosi rigorosamente applicato che, in molte città greche, il comando dell'esercito o del naviglio in guerra veniva affidato a diversi polemarchi o navarchi, che l'esercitavano a turno. Altra caratteristica dell'ordinamento politico ed amministrativo della città greca era la quasi completa mancanza di ciò che ora si direbbe una burocrazia professionale e di un esercito stanziale [364], e si deve inoltre notare che anche alcune funzioni giudiziarie ed esecutive ritenute di grande importanza venivano ordinariamente riservate all'assemblea del popolo. La quale perciò conservava quasi sempre il diritto di dichiarare la guerra e concludere la pace e si riservava spessissimo quello di applicare le pene più gravi, quali erano la morte e l'esilio, o quanto meno veniva in questi casi ammesso l'appello all'assemblea del popolo.

IV. — A cominciare da Erodoto, tutti gli scrittori greci dell'epoca classica ammettono l'esistenza di tre forme di governo: la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia [365]. Si comprende agevolmente come il ricordo della monarchia omerica, il recente esempio delle tirannie, frequenti sopratutto nelle colonie elleniche della Magna Grecia e della Sicilia, la sopravvivenza stessa della antica monarchia patriarcale in qualche remoto cantone dell'Epiro, le traccie di essa che tenacemente si mantenevano a Sparta e finalmente il contatto frequente coi popoli barbari, che quasi sempre avevano un re, dovevano far sì che i pensatori dell'Ellade enumerassero fra le possibili forme di governo anche il regime monarchico. Ma in verità lo Stato ellenico dell'epoca classica oscillava quasi sempre fra l'aristocrazia e la democrazia, le quali rappresentavano le due tendenze costanti che in esso erano in perenne contrasto. E difatti all'analisi di questo inevitabile contrasto consacra Aristotile buona parte della sua immortale opera sulla Politica [366].

Or sarà bene anzitutto ricordare che presso i Greci dell'epoca classica, non si potrebbe dire precisamente lo stesso dei Romani; il concetto di aristocrazia non si accoppiava in modo quasi inscindibile a quello della ereditarietà del potere e delle cariche pubbliche nelle stesse famiglie, ma voleva dire semplicemente che le cariche venivano affidate, esclusivamente od a preferenza, a coloro che, per ricchezza o per meriti eccezionali, spiccavano fra gli altri cittadini, discendessero o no da antenati illustri. Tanto vero che Aristotile distingue l'aristocrazia dall'eugenismo, che significava appunto l'appartenere ad una famiglia già da lunga data illustre [367]. Anzi non raramente accadeva che qualche eugenico capitanasse il popolo contro la parte aristocratica composta in maggioranza di nuovi arricchiti, come appunto fu il caso di Pericle.

Venendo ora all'esame del contrasto accennato, in poche parole si può affermare che nello Stato greco si aveva il regime aristocratico quando fra i cittadini la ricchezza riusciva a prevalere sul numero, mentre quello democratico significava la prevalenza del numero sulla ricchezza. Perciò nel regime aristocratico le cariche pubbliche, o almeno le più importanti, quando non venivano per legge riservate alle categorie dei maggiori censiti, erano gratuite, in maniera che diventavano accessibili solo a coloro che non dovevano personalmente e diuturnamente lavorare per vivere, e nessuna indennità vi era per la partecipazione alle assemblee dei cittadini, che venivano così disertate dai poveri e frequentate assiduamente dai ricchi e dai loro clienti; mentre in quello democratico le cariche pubbliche venivano retribuite e la partecipazione all'assemblea dava diritto ad un gettone di presenza.

Nel primo le cariche pubbliche erano quasi sempre elettive, perchè nelle votazioni i ricchi, stretti in associazioni più o meno secrete, che si dicevano eterie, e con l'appoggio dei loro clienti riuscivano facilmente a concentrare i loro suffragi sui propri candidati ed a prevalere su quelli dei poveri, che più difficilmente riuscivano ad organizzarsi; nel secondo le cariche pubbliche erano generalmente distribuite a sorte fra i cittadini. Sistema a giusta ragione ritenuto assurdo anche da molti pensatori della Grecia antica, ma che in sostanza era il solo mediante il quale l'influenza della notorietà, delle relazioni personali e dei comitati elettorali poteva venire eliminata.

Come si è già accennato, poichè i poveri erano sempre più numerosi dei ricchi, i governi aristocratici molto si poggiavano sulle clientele, mantenute mercè il patrocinio che ogni ricco esercitava a pro di un certo numero di poveri e sulla larghezza colla quale coloro che aspiravano alla carriera politica esercitavano l'ospitalità a favore dei cittadini meno facoltosi. Aristotile nota espressamente che Pericle non potendo, perchè meno ricco, lottare su questo terreno con Cimone, figlio di Milziade, capo della parte aristocratica, guadagnò a sè i poveri facendo retribuire dal pubblico erario molte cariche prima gratuite [368]; sistema che, coi dovuti adattamenti, non è ignoto neppure oggi nei paesi retti a democrazia, dove all'influenza della ricchezza privata spesso si contrappone lo sperpero del danaro pubblico.

Gli abusi del regime aristocratico nello Stato greco quasi sempre consistevano nella esagerazione del sistema prevalente, la quale faceva sì che molto spesso l'aristocrazia si trasformava in oligarchia, cioè in una consorteria chiusa, che gelosamente escludeva dalle cariche pubbliche tutti gli elementi estranei, qualunque fosse la loro ricchezza ed il loro merito personale. Altri abusi frequenti si avevano quando il monopolio delle cariche pubbliche veniva usato per la conservazione e l'accrescimento delle ricchezze private dei governanti e dei loro consorti e clienti, ciò che ottenevasi sopratutto facendo in modo che i giudizi nelle cause civili e penali fossero sempre affidati a persone affiliate o ligie alla fazione che reggeva lo Stato.

Viceversa, dove i poveri si contavano e riuscivano in maggioranza a sottrarsi alla clientela dei ricchi, facilmente si avevano gli abusi della democrazia. Molte ed importanti erano allora le cariche pubbliche che venivano date ai designati dalla sorte, la quale naturalmente non aveva nessun riguardo alla capacità ed alle attitudini necessarie a disimpegnarle; e le indennità attribuite per l'esercizio di ogni pubblica funzione aggravavano talmente l'erario che, per fare fronte all'ingente spesa, si dovevano colpire con gravissime imposte i ricchi e gli agiati, fino ad arrivare ad una larvata confisca delle fortune private e quindi al disastro dell'economia pubblica. Aristotile calcola che all'epoca di Pericle in Atene circa ventimila cittadini venissero sussidiati dall'erario pubblico, sicchè quasi tutta la cittadinanza erasi trasformata in una classe di stipendiati dallo Stato [369]. Ciò che fu per un certo tempo possibile non solo per il reddito che la città traeva dalle miniere d'argento del Laurion, ma anche, e principalmente, perchè si stornavano i contributi che gli alleati pagavano ad Atene per il proseguimento della guerra contro la Persia. Causa questa non ultima della lunga e nefanda guerra scoppiata poi fra gli Elleni, che prese il nome di guerra del Peloponneso. Nei casi più gravi un caporione del popolo uccideva o mandava in esilio i ricchi e ne confiscava i beni, che divideva poi fra i suoi partigiani o fra i mercenari stranieri che lo sostenevano. Si aveva allora quella sospensione del normale funzionamento della costituzione e quella dittatura di un capo, sostenuto dalla sua fazione, che appellavasi tirannide, che tutti gli scrittori greci concordemente descrivono come la peggiore delle forme di governo [370].

Dopo quanto abbiamo detto, appare evidente che il normale funzionamento dello Stato ellenico richiedeva un grado di prosperità economica e di elevazione intellettuale e morale nella parte maggiore della cittadinanza, che non era agevole che fosse sempre raggiunto. Difatti la piena efficienza di questa forma di organizzazione politica durò meno di due secoli, cioè dal principio del quinto al declinare del quarto secolo avanti Cristo, periodo che coincide con quello del massimo sviluppo della civiltà ellenica. La mancanza di una burocrazia regolare e di un corpo di polizia permanente incaricati dell'esecuzione delle leggi rendeva necessario che, nella maggioranza dei cittadini, fossero molto forti il senso della legalità e lo spirito di sacrificio degli interessi individuali a quello pubblico, le quali virtù perciò venivano coll'educazione in tutti i modi inculcate e celebrate [371]. Inoltre era indispensabile che fosse conservata una certa proporzione numerica fra i cittadini e gli schiavi. Perchè se i primi erano molto pochi, gli altri facilmente si ribellavano, come spesso facevano gli Iloti a Sparta, e, se i cittadini invece erano troppo numerosi, allora fatalmente una buona parte di essi era molto povera e non si sentiva cointeressata al mantenimento delle istituzioni. Per superare queste difficoltà Platone nella sua Repubblica propose l'abolizione della proprietà privata, e conseguentemente della famiglia, almeno nella classe dominante, ed Aristotele invece, con criterio più pratico, raccomandò la diffusione della media proprietà, facendo giustamente osservare che la porta era aperta a tutti i rivolgimenti, dove pochi cittadini molto ricchi si trovavano di fronte a numerosi poveri, che, mentre disponevano delle armi e dei voti, non avevano alcun interesse a difendere l'ordine di cose esistente [372].

E poi lo Stato greco era dalla sua stessa costituzione organica destinato fatalmente a restare sempre piccolo ed a non oltrepassare i limiti di una città di mediocre grandezza col suo territorio. Infatti se gli antichi Greci adoperarono lo stesso vocabolo, πόλις, per indicare lo Stato e la città, ciò avvenne perchè essi non concepivano uno Stato ellenicamente organizzato che fosse più vasto di una città e della contrada che ad essa forniva i mezzi di sussistenza. Certo che, quando la civiltà greca ebbe con Alessandro Magno conquistato l'impero di Persia, essa si estese a Stati di grande mole, quali erano i regni di Siria, di Egitto e di Macedonia, ma questi erano grandi monarchie militari, la cui organizzazione nulla aveva a che fare colla forma politica della quale trattano Platone ed Aristotile, ed in esse l'ellenizzazione era limitata solo ad un piccolo strato dirigente. La Grecia propriamente detta non conobbe i grandi Stati, perchè la città greca tale non poteva divenire. La base della sua costituzione era infatti l'assemblea dei cittadini e, per intervenirvi assiduamente, occorreva abitare in città o nei suoi immediati dintorni, e l'assemblea stessa non poteva essere troppo numerosa, perchè altrimenti la maggior parte dei presenti non poteva udire le argomentazioni degli oratori. Ed è appunto per questa ragione che Platone nella sua Repubblica ed Ippodamo da Mileto nel suo progetto di costituzione ideale, limitano il numero dei cittadini il primo a cinque mila ed il secondo a diecimila [373] e che lo stesso Aristotile, senza precisarne il numero, dice che essi devono esser tanti da potere ascoltare una voce umana che non sia quella di Stentore [374]. Atene, a dir vero, nei suoi più bei tempi, forse oltrepassò i trentamila cittadini, ma costituì un'eccezione; Siracusa ne ebbe forse anche più, ma in essa, a cominciare dal quarto secolo avanti Cristo, la costituzione normale della città greca non potè più funzionare; Sparta all'epoca di Aristotile era ridotta a due o tre mila cittadini [375].

Per rimediare alla impossibilità di formare un grande Stato conservando integra l'organizzazione della città ellenica, la Grecia antica tentò l'attuazione della così detta egemonia, cioè della supremazia di una città più grande su molte più piccole, ma il rimedio si rivelò inadatto ed insufficiente, perchè le città sottomesse riacquistavano la loro indipendenza appena la loro dominatrice subiva un grave rovescio di fortuna [376]. Le stesse colonie di poco aumentavano la potenza della madre patria, perchè generalmente formavano tante città e quindi tanti Stati a sè, conservando appena qualche legame affettivo e religioso con quella dalla quale traevano origine.

Perciò può destare ragionevole ammirazione il fatto che in organismi politici così piccoli siansi elaborate, e per la prima volta attuate, alcune di quelle idee fondamentali, che poi hanno servito di base alle costituzioni dei grandi Stati moderni di tipo europeo. A dir vero, il concetto di libertà politica non fu completamente estraneo ai popoli dell'antico Oriente ed all'Egitto, ma esso significava semplicemente che un popolo non era sottomesso ad un altro, di razza, religione e civiltà differente, che coloro che reggevano una gente erano uomini della stessa gente e non già stranieri, ma non veniva mai interpretato nel senso che potesse essere riguardato come servitù un regime nazionale, per quanto assoluto ed arbitrario [377]. Fu invece nella Grecia antica che, per la prima volta, in una popolazione non più primitiva e che aveva raggiunto un alto grado di civiltà, si riguardò come politicamente libera solo quella gente che era sottomessa alle leggi, che la maggioranza dei consociati avea approvato, ed a quei magistrati ai quali la maggioranza stessa avea delegato, per un determinato tempo, determinati poteri; fu in Grecia che, per la prima volta, l'autorità non venne trasmessa dall'alto in basso, da chi stava all'apice della gerarchia politica a coloro che erano a lui subordinati, ma dal basso in alto, cioè da coloro sui quali l'autorità si esercitava a coloro che la dovevano esercitare.

In altre parole, fu la civiltà ellenica la prima ad affermare, di fronte al diritto divino dei Re, il diritto umano del popolo a governare se stesso, fu essa che per la prima non considerò più la legge come una emanazione della volontà divina, o di coloro che agivano in nome della volontà divina, ma bensì come una interpretazione umana e variabile della volontà popolare. E, se grande fu l'autorità che lo Stato greco esercitava sul cittadino, fino al punto da regolare i dettagli della vita familiare, quest'autorità dovea sempre essere esercitata in base alle norme che la maggioranza aveva accettato.

E, come abbiamo già ricordato, questi stessi concetti fondamentali, adattati per quanto era possibile alle società europee del secolo decimottavo e decimonono, efficacemente contribuirono a modificarne gli ordinamenti politici, fecero sentire la loro influenza dovunque vi sono popoli di origine europea, ed oggi, trasmessi mercè il contatto intellettuale con l'Europa e l'America, hanno la loro ripercussione persino nel Giappone, nella China ed in altre popolazioni di civiltà asiatica.

 


 

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CAPITOLO III.

Continua il tema del capitolo precedente. — I. Caratteri speciali della città-Stato romana. — II. Sua graduale trasformazione in uno Stato burocratico-militare durante l'Impero. — III. Dissolvimento dello Stato e della civiltà romana. — IV. Cause che prepararono lo Stato feudale e sue caratteristiche. — V, Graduale trasformazione dello Stato feudale nello Stato assoluto burocratico. — VI. Cause intellettuali ed economiche che preparano la trasformazione dello Stato assoluto burocratico nello Stato rappresentativo moderno. — VII. La Costituzione inglese del secolo XVIII fornisce il modello formale allo Stato rappresentativo moderno. — VIII. Caratteristiche dello Stato rappresentativo moderno ed elementi dissolvitori che lo minacciano.

I. — Sia per l'affinità della stirpe italica con la stirpe ellenica, sia perchè la civiltà greca, attraverso le colonie della Sicilia e della Magna Grecia, fece sentire la sua influenza sui popoli italici in epoca più remota di quella nella quale avvenne la conquista delle accennate colonie per opera dei Romani, certo è che la costituzione politica delle città italiche presenta molte analogie con quella della città greca.

In origine infatti abbiamo anche nella città italica primitiva un re, un Consiglio di maggiorenti ed una assemblea del popolo, ed in seguito, quando incomincia l'epoca veramente storica, cioè quando sulla fine del quarto e nei primi decenni del terzo secolo avanti l'êra volgare, tutte le popolazioni italiche sono costrette a riconoscere la supremazia di Roma, non troviamo in esse quasi più traccia della regalità ereditaria, mentre non vi erano rare le rivalità fra gli ottimati e la plebe [378]. Tanto vero che Roma generalmente favorì i primi, giustamente ritenendo che, come più inclinati al conservatorismo ed alla tranquillità sociale, la sua supremazia potesse sopra di essi più facilmente appoggiarsi, e, per raggiungere meglio lo scopo, concesse con abbastanza larghezza il diritto di cittadinanza romana agli ottimati delle città federate.

Di Roma sappiamo che in epoca remota ebbe i suoi re, il suo Senato composto dai capi delle diverse genti patrizie, la cui confederazione formò la città primitiva, ed anche l'assemblea del popolo, ossia i comizi. Abolita come in Grecia la regalità ereditaria e sostituita ad essa il Consolato e le altre magistrature temporanee ed elettive, e quasi sempre multiple in modo che la stessa funzione veniva contemporaneamente affidata a diverse persone, sorse presto anche a Roma la lotta fra l'antica cittadinanza patrizia, costituita da coloro che facevan parte delle antiche genti, e la nuova cittadinanza plebea, composta a preferenza dai discendenti degli stranieri domiciliati e dei servi liberati. E per un certo tempo pare che due città coesistano nel recinto dell'urbe con magistrature speciali all'una ed all'altra, finchè si fondono quasi intieramente entro una costituzione che ricorda molto il tipo ellenico testè esposto, che anche essa è fatta certamente per essere applicata ad una città-Stato, ma che si distingue per alcune particolarità profondamente originali.

La prima di esse e la più ricca di conseguenze pratiche fu l'estensione data al diritto di cittadinanza, le cui prerogative vennero suddivise in modo che, accanto al cittadino perfetto, vi era quello imperfetto, che ne godeva una parte sola ed a poco a poco subiva l'assimilazione necessaria per diventare giuridicamente uguale agli altri membri della città romana [379]. Ciò permise tale un'estensione del diritto di cittadinanza da far sì che di esso godessero molte persone le quali abitavano così lontano da Roma che difficilmente, anche avendone il diritto, poteano intervenire ai comizi. In altre parole, Roma seppe rompere il cerchio fatale, che impediva alla città greca di allargarsi, concedendo la cittadinanza a coloro che abitavano tanto lontano dal centro da non potere diuturnamente fare atto di presenza alle assemblee e praticò, per dir così, dei gradini nell'abisso che nella Grecia divideva il cittadino da chi non era tale. In questa maniera essa potè avere inscritti nei suoi ruoli nel duecentosessantacinque avanti Cristo, cioè nell'anno precedente alla prima guerra punica, duecentonovantaduemila cittadini, e dopo le perdite in essa subite, ne aveva ancora duecentoquarantamila nel duecentoquarantasette, ossia tra la prima e la seconda guerra punica; ciò che rese possibile il reclutamento delle numerose legioni mediante le quali potè superare la terribile prova che subì durante l'invasione di Annibale in Italia [380]. E fu continuando in questo sistema che potè a poco a poco assimilare tanta parte del mondo facendone, come cantava durante l'agonia dell'impero un poeta nativo della Gallia romanizzata, una città sola [381].

La seconda nota originale della costituzione repubblicana di Roma antica consistette nel carattere spiccatamente più aristocratico che essa mantenne rispetto a quelle greche. Il Senato romano infatti col tempo non fu più la riunione dei padri di famiglia delle antiche genti, ma i suoi membri furono sempre scelti dal censore fra coloro che avevano già esercitato cariche elevate, e, solo in un'epoca relativamente recente, i comizi centuriati furono riformati in maniera da togliere in essi la preponderanza alle classi altamente censite ed, accanto ai comizi centuriati, furono ammessi quei tributi nei quali prevaleva decisamente il numero sul censo [382]. Ma la legge non poteva essere dai comizi approvata se non quale i magistrati l'avevano proposto e l'autorità del Senato l'avea confermato. Ed in quanto alle cariche elettive il costume più che la legge impedì fino agli ultimi tempi della repubblica che fossero conferite a veri popolani. Infatti il tribunato militare, che era il primo gradino che dovevano salire coloro che aspiravano alla carriera politica, fino alle guerre puniche, non fu praticamente accessibile che ai membri dell'ordine equestre [383], ed il Ferrero fa giustamente rilevare come, anche durante il periodo delle guerre civili, ad eccezione di Caio Mario, che del resto pare fosse di famiglia equestre, gli eserciti furono sempre comandati da membri delle grandi famiglie romane [384].

Inoltre il fatto che molti cittadini abitavano così lontano da Roma che fra la data della convocazione dei comizi e quella della loro riunione doveva intercedere un intervallo di diciassette, o, come altri vogliono, di ventiquattro giorni [385], contribuì ad aumentare le attribuzioni e l'autorità del Senato, che si poteva radunare assai più rapidamente, e che ebbe perciò fino alla fine della repubblica la direzione quasi esclusiva della politica finanziaria e di quella estera.

II. — Nell'ultimo secolo della repubblica, dopo i Gracchi, questa costituzione aristocratica fu modificata o per dir meglio essa non potè più regolarmente funzionare. Poichè si rese manifesta l'impossibilità che uno Stato città organizzato sul tipo ellenico, per quanto modificato ed allargato, potesse diventare un corpo politico mondiale. I comizi, che rappresentavano l'adunanza legale di tutto il popolo sovrano nel foro di Roma, potevano già sembrare una finzione legale quando, nell'ottantotto avanti Cristo, la cittadinanza fu estesa a tutti i popoli italici, ma divennero un'irrisione quando buona parte, se non la maggioranza dei cittadini, risiedeva fuori dell'Italia sparsa per tutto il bacino del Mediterraneo [386]. Nè l'annuale avvicendamento delle cariche pubbliche fu più praticabile una volta che i loro titolari, investiti di potere quasi assoluto, dovevano stare per anni lontani dall'Italia in Provincie remote e che, per la stessa ragione, gli eserciti perdettero il carattere di milizie cittadine, reclutate anno per anno, ed acquistarono gradualmente quello di soldati professionali, legati più al capitano, che per molti anni consecutivi li comandava, che alla repubblica. Sicchè era fatale che l'antica civitas romana si dovesse trasformare in un organismo politico tenuto insieme e governato mercè una burocrazia professionale ed un esercito stanziale.

Questa trasformazione ebbe luogo quando, per usare il linguaggio ora comunemente accettato, alla Repubblica fu sostituito l'impero; si può disputare, e certo si disputerà ancora, sulle intenzioni che ebbero Augusto ed i suoi collaboratori quando inaugurarono il nuovo regime, ed è indiscutibile che essi non vollero sostituire a quello vecchio nè la monarchia assoluta nè la monarchia temperata, come oggi l'intendiamo; ma è pure certo che coi nuovi ordinamenti fu fatto un passo decisivo verso la trasformazione dell'antico Stato città in una nuova forma di organizzazione politica, la quale rendeva assai più agevole di tenere uniti, governare ed assimilare lentamente i vasti domini che Roma aveva saputo conquistare.

È legge forse costante che, nella trasformazione degli organismi politici, quelli susseguenti conservino larghe traccie di quelli immediatamente precedenti, perchè più o meno il nuovo edificio viene costruito sulle rovine del vecchio ed, almeno in parte, coi materiali da esso forniti. Questa legge noi la vediamo chiaramente affermarsi nella riforma augustea, la quale, se non tolse di un tratto la potestà legislativa ai comizi, tanto che essi continuarono ad essere qualche volta convocati ed a funzionare, sia pure in modo intermittente, fino a più di un secolo dopo la battaglia d'Azio, fece in modo che la facoltà di legiferare fosse, poco a poco, intieramente usucapita dal Senato e dal Principe [387].

Quanto a ciò che ora corrisponderebbe al potere esecutivo ed al giudiziario, esso fu diviso quasi intieramente fra il Senato e l'imperatore. Poichè questi fu considerato come un magistrato cittadino, che concentrava in sè molti poteri, ma molti altri ne lasciava al Senato, a Roma, in Italia e nelle provincie senatorie, ma assunse subito le funzioni di sovrano assoluto nelle provincie imperiali, considerate soggette ad un'occupazione militare, e che egli governava a suo talento, per mezzo di una burocrazia i cui dirigenti erano scelti qualche volta fra i senatori ma a preferenza fra i semplici cavalieri [388].

Naturalmente, come sempre accade nei contatti e nelle competizioni inevitabili fra gli avanzi di un regime vecchio ed un regime nuovo più conforme alle necessità dei tempi, i funzionari scelti dal Senato andarono perdendo sempre più terreno, finchè finirono col lasciare poche traccie di sè. Difatti, fin dai primi imperatori della casa Giulia, nella stessa Roma, alla competenza di molti degli antichi magistrati onorari si sostituì quella di nuovi funzionari scelti dall'imperatore, e gradatamente la burocrazia regolare, composta di cavalieri ed anche di liberti del principe, fece sentire sempre più la sua azione in tutto l'impero. Praticamente, dopo i primi imperatori, la competenza del Senato, reclutato sempre fra l'alta burocrazia e fra le grandi famiglie d'Italia e poi del mondo intero, fu ristretta nei limiti che agli imperatori ed ai suoi strumenti piaceva di tracciare [389]. Sicchè, dopo la grave crisi che l'impero ebbe a subire e che potè superare nella seconda metà del terzo secolo, non fu difficile a Diocleziano ed a Costantino di sopprimere quasi tutti i ricordi e le sopravvivenze dell'antica costituzione cittadina, od a ridurle a nomi vani, senza alcun contenuto positivo. I soli concetti provenienti dall'antica costituzione che si salvarono dal naufragio furono quello che l'imperatore riceveva la sua autorità dal popolo, concetto che, in grazia ai giureconsulti, sopravvisse fino a Giustiniano [390], e l'altro che ogni magistrato aveva una sfera di competenza nettamente delimitata e doveva, almeno teoricamente, esercitare la sua autorità conformemente alla legge. Forse a ciò in parte si deve il fatto che l'azione della burocrazia romana fu certo più regolare, e quindi più efficace, di quella degli antichi imperi orientali, e basterebbe a provarlo il modo maraviglioso con il quale riuscì a diffondere la lingua, le leggi ed i costumi di Roma e ad unificare moralmente quasi tutto il mondo civile di allora.

III. — Le cause prime della decadenza della civiltà antica e del disgregamento dell'impero romano d'occidente costituiscono forse il problema più intricato ed oscuro della storia; e, benchè molta luce sopra di esse abbiano apportato gli studi dell'ultimo mezzo secolo, non tutte le tenebre sono ancora scomparse [391]. Ed il punto più oscuro del grande fenomeno storico resta sempre l'inizio di esso: cioè quella povertà di uomini superiori, quella decadenza artistica e letteraria, che già sono manifeste nel terzo secolo dell'êra volgare, quando gli antichi ideali pagani erano già esauriti ed il nuovo ideale cristiano non era ancora, nelle classi còlte, diffuso.

Certo che, nella società romana del basso impero, vi erano molte gravi piaghe: il sistema delle imposte era pesante ed assurdo, esauriva le fonti della ricchezza e colpiva sopratutto le classi medie, ossia la borghesia provinciale che formava il decurionato delle città [392], e la decadenza delle classi medie lasciava di fronte un'aristocrazia di grandi proprietari, fra i quali a preferenza si reclutava l'alta burocrazia, ed una numerosa poveraglia, che tumultuava e viveva in parte a spese dello Stato, e poi della Chiesa, nella capitale e nelle grandi città, o che era ridotta nella semiservitù del colonato nelle campagne. La sicurezza pubblica era molto relativa, il brigantaggio fioriva, i ricchi si difendevano tenendo ai loro servizi delle guardie private, specie di bravi che si chiamavano buccellari, le medie e piccole fortune non avevano modo di difendersi e soccombevano [393]. L'igiene pubblica non era così perfezionata che l'incremento ordinario della popolazione potesse facilmente colmare i vuoti lasciati dalle carestie, dalle pestilenze, dalle incursioni dei barbari o da qualsiasi mortalità straordinaria, e del resto, come accade in tutte le civiltà molto stagionate e non rattenute da freni religiosi, pare che la natalità fosse scarsa [394].

Dopo Diocleziano lo Stato, per porre riparo alla grave crisi, che alla metà circa del terzo secolo aveva colpito l'impero, assunse poteri ed esercitò ingerenze straordinarie ed ebbe la pretesa di disciplinare tutta la vita economica, fissando i salari ed i prezzi delle derrate e, per assicurare la continuità di ciò che ora sarebbero i servizi pubblici, ne proibì l'abbandono a coloro che vi erano addetti e costrinse i loro figli a seguire il mestiere del padre. Infine l'amministrazione era fortemente inquinata dal vizio, che è la maledizione e la fonte di ogni debolezza dei regimi burocratici, cioè dalla venalità. Il funzionario romano del basso impero generalmente badava più al suo interesse privato che all'interesse pubblico che era incaricato di tutelare, e per molte notizie è noto che talora, anche nei gradini più elevati della scala burocratica, nulla era possibile di ottenere senza ricchi presenti [395].

Ma d'altra parte non bisogna dimenticare che non vi è società umana che non abbia le sue piaghe e che, accanto ad esse, vi è quasi sempre una forza naturale riparatrice, la quale tende ad attenuarne gli effetti. L'impero romano d'oriente, che soffriva delle stesse piaghe di quello d'occidente, non solo potè sopravvivere, ma, nel sesto secolo, sotto Giustiniano, e poi nell'ottavo e nono secolo, sotto gli imperatori iconoclasti e la dinastia macedone, ebbe notevoli risvegli di energia e potè allora in gran parte salvare il suo territorio e la sua civiltà assalita dai barbari del settentrione e poi anche dagli Arabi.

Un individuo muore quando, essendo logorati i suoi organi per la vecchiaia, essi non possono più normalmente funzionare, ovvero quando, indebolito per questa o per altre cause, non può resistere ad una infezione che lo assale. A prima vista parrebbe che la vecchiaia non dovesse mai manifestarsi in un popolo, in una civiltà, perchè in essi le generazioni umane sempre si rinnovano ed ogni generazione nuova ha tutto il vigore della giovinezza. Invece ciò che può equivalere alla vecchiaia o alla debolezza organica, si manifesta in un popolo quando vengono meno i legami morali, come sarebbero la religione ed il patriottismo, che formavano la base della sua coesione sociale, e non agisce più quella forza naturale riparatrice, alla quale testè accennavamo, perchè i migliori elementi rimangono paralizzati, avendo rivolta la loro attività ed energia verso fini diversi da quelli che sarebbero necessari per la salvezza dello Stato. E la debolezza interna deve essere tanto maggiore quanto minore è la forza dell'urto esterno che produce la catastrofe, ciò che avviene quando essa ha luogo per l'assalto di popoli inferiori per mezzi offensivi, sapere e disciplina.

Or, come abbiamo già accennato in un precedente lavoro, l'impero romano d'occidente subì la grande irruzione dei popoli germanici, determinata alla fine del quarto secolo dall'urto degli Unni, in un momento critico, quando erano venute meno le concezioni ed i sentimenti, che formavano la base morale della vecchia civiltà classica ed una ondata di misticismo toglieva allo Stato tutti gli elementi migliori, quasi tutti gli individui che si distinguevano per altezza di carattere e d'ingegno, per darli alla Chiesa [396]. Sopravvisse la parte orientale del mondo romano perchè, forse in grazia della sua posizione geografica, ebbe il tempo di superare il momento critico e di restaurare le sue forze, mentre questo tempo mancò alla parte occidentale, già quasi tutta in potere dei barbari alla metà del quinto secolo.

IV. — Dopo che i barbari si furono insediati in tutte le antiche provincie dell'impero d'Occidente, il processo di disgregazione politica e civile, già iniziato nel terzo secolo dell'êra volgare, procedette rapidamente. In principio parecchi dei primi governanti barbari, e segnatamente l'ostrogoto Teodorico, pare che si siano sforzati di conservare per quanto era possibile i quadri dell'antica amministrazione civile romana, riservando agli invasori la difesa militare del paese, ma i nuovi regimi difficilmente potevano adattarsi alla complicata macchina burocratica romana, che presupponeva una esperienza amministrativa ed una cultura giuridica che mancavano ai conquistatori. Inoltre la necessità in cui si trovarono i re barbari, di compensare i loro seguaci colla concessione di buona parte delle terre dei vinti, dovette necessariamente sconvolgere la società d'allora, nella quale le classi alte di origine romana o si adattarono alla vita ed ai costumi dei barbari o scomparvero confondendosi nella plebe, e dovette preparare la trasformazione del grande proprietario terriero in sovrano ereditario locale. Se a ciò si aggiunge che ai primi invasori, già un poco assuefatti alla civiltà ed alle istituzioni romane, spesso si sostituirono, come fu il caso dei Longobardi, altri completamente ignari, si comprende agevolmente come, dopo qualche secolo, quasi nulla dovesse sopravvivere dell'antica macchina statale romana, e come la nuova, modellata sulle istituzioni ed i sentimenti con i quali si soleano reggere le tribù germaniche nella loro patria d'origine, cioè sull'obbligo personale di reciproca fedeltà, che legava il capo supremo della banda guerriera ai suoi sottocapi, siasi alla lunga dimostrata assolutamente insufficiente a mantenere salda sotto unica direzione la compagine di un grande Stato.

Perciò lo sfacelo della grande monarchia barbarica, arrestato durante due o tre generazioni per opera della energica dinastia franca degli Heristal, e sopratutto di Carlo Magno, dopo la morte di questo geniale sovrano, che tentò di far rivivere le tradizioni unitarie ed accentratrici di Roma, si accentuò sempre più, aiutato dalle nuove scorrerie degli Ungheri, dei Normanni e dei Saraceni, tanto che al decimo secolo la indipendenza dei capi locali di fronte al potere centrale era già quasi completa e di fatto era già istituito quel regime che poi si disse feudale.

Il feudalesimo non fu, nè potea essere, un ritorno puro e semplice alle condizioni di tribù o piccole popolazioni nemiche l'una dell'altra, che Roma avea trovato nel mondo occidentale prima che l'avesse conquistato. Poichè certi progressi intellettuali, come l'adozione di un linguaggio comune, e sopratutto quelli materiali, una volta acquisiti, non si perdono più intieramente, anche quando l'organizzazione politica che li ha reso possibili intieramente si dissolve.

Difatti un popolo abituato alla stabilità delle sedi, ad una agricoltura basata sulla proprietà privata, ad una certa differenziazione fra le classi sociali, non perde intieramente queste abitudini caratteristiche anche dopo un lungo periodo di anarchia. Si potrebbe anche aggiungere che alcuni dei materiali con i quali si costruì l'edificio feudale non furono che lo sviluppo e la continuazione di istituti del basso impero. Così ad esempio la servitù della gleba, ossia il vincolo che legava alla terra la numerosa classe addetta al lavoro agricolo, è noto che rimonta già al basso impero, sicchè nelle campagne il nuovo regime non fece che trasformare nel castello fortificato del barone la villa dell'antico grande proprietario romano.

Invece come novità introdotta dal feudalesimo si può riguardare la supremazia politica di una classe esclusivamente guerriera, che abbandonò al clero la cura di mantenere vivi quei bricioli di cultura, che sopravvissero alla catastrofe del mondo antico. Un'altra caratteristica del sistema feudale consistette nell'accentramento di tutte le funzioni direttive e di tutta l'influenza sociale nei capi militari locali, che nello stesso tempo furono i padroni della terra, ossia del quasi unico strumento di produzione che allora vi fosse. E finalmente non bisogna dimenticare che il feudalesimo instituì una sovranità intermedia fra l'organo centrale e coordinatore dello Stato e l'individuo.

Difatti i capi locali più importanti, diventati ereditari, legarono a sè con subconcessioni di terre i capi minori, i quali, stretti dall'omaggio feudale e dall'obbligo di fedeltà verso il concedente, non avevano alcun rapporto diretto col capo di tutta la confederazione feudale, cioè col Re, e si credevano obbligati a combatterlo se il capo al quale erano direttamente legati lo combatteva. E certamente fu questa la causa principale della lunghissima resistenza opposta dal regime feudale all'azione diuturna del potere centrale che mirava a distruggerlo.

V. — Scrisse il Bryce che le due grandi idee che l'antichità morente trasmise all'età che la seguì furono quelle di una monarchia universale e di una religione universale [397]. Difatti fino al secolo decimoquarto si mantenne nelle classi intellettuali, rappresentate dal clero e dai giuristi, vivace il ricordo dell'antica unità di tutte le genti civili e cristiane guidate nelle cose religiose dal pontefice romano, che a poco a poco fu riconosciuto come supremo gerarca della Chiesa cattolica, ed in quelle temporali dal successore dell'antico imperatore romano. Senza la vivacità di queste reminiscenze non si spiegherebbe il tentativo di restaurazione dell'impero, che ebbe luogo per opera di Carlo Magno e di Papa Leone III nell'anno ottocento, nè quello, alquanto più duraturo, di Ottone I di Sassonia nel 962.

Ma un nome ed un'idea, per quanto possano esercitare una grande influenza morale, non bastano alla restaurazione di un sistema politico accentrato e coordinato, quando esso è già disfatto, senza il sussidio di un'organizzazione materiale che si metta al loro servizio, e, per avere questa, occorrono i mezzi necessari a costituirla. E di questi appunto difettavano i successori di Carlo Magno e gli imperatori germanici, che non disponevano nè di una finanza solida, nè di una burocrazia regolare, nè infine di un esercito stanziale adatti a fare rispettare le loro pretese.

Sotto Carlo Magno l'antico bando germanico forniva ancora agli eserciti franchi milizie abbastanza disciplinate ed i signori locali non erano ancora onnipotenti; per la stessa ragione gli imperatori della casa di Sassonia ed i primi due della casa di Franconia poterono contare sulla cooperazione della classe militare tedesca, non ancora saldamente raggruppata attorno a pochi capi [398]; ma, appena il sistema feudale ebbe poste salde radici anche in Germania, questa base divenne pure tentennante. Se poi si tiene conto che la lotta sopravvenuta fra l'Impero e la Chiesa fornì alle sovranità locali, in urto con l'autorità imperiale, il sussidio di una grande forza morale, non desterà maraviglia che il tentativo di ristabilire l'unità politica universale dei popoli cristiani, iniziato da Carlo Magno e ripreso da Ottone I di Sassonia, si possa considerare, dopo la morte di Federico II di Hohenstauffen, come completamente e definitivamente fallito.

Ma, siccome nell'Europa centrale ed occidentale non dovea eternarsi quello stato di semibarbarie che fu la caratteristica dell'epoca più oscura del Medio Evo, siccome in essa la civiltà dovea risorgere, era fatale che il lavorìo di riassorbimento dei poteri locali nell'organo centrale dello Stato dovesse essere ripreso sotto altra forma, e che ciò che era riuscito impossibile al rappresentante dell'antico impero romano dovesse diventare il compito delle diverse monarchie nazionali.

Intanto dopo il mille avea cominciato a sorgere accanto al feudo un'altra forma di sovranità locale, ossia il Comune, costituito dalla confederazione delle ghilde, delle fratellanze vicinali, delle corporazioni di mestiere, di tutte quelle leghe di uomini non nobili e non soggetti a vassallaggio, che, nei periodi più brutti dell'anarchia feudale, si erano formate, affinchè gli individui ad esse appartenenti godessero, mercè la mutua difesa, di una certa sicurezza personale. Ora i Comuni, i quali diventati potentissimi prima nell'Italia settentrionale e poi in Germania ed in Fiandra, furono colà uno degli ostacoli maggiori all'affermarsi del potere del sacro imperatore romano, viceversa, avendo forze più modeste in Francia, in Inghilterra, nei regni iberici e nell'Italia meridionale, appoggiarono in questi paesi il Re contro la feudalità.

In generale le monarchie nazionali si riattaccavano storicamente alle antiche monarchie barbariche, che i Germani invasori aveano formato sulle rovine dell'antico impero romano. Senonchè esse, dopo il periodo di dissoluzione politica che ebbe luogo sotto i primi successori di Carlo Magno, si andarono ricostituendo adattandosi più ai criteri geografici e linguistici anzichè a quelli puramente storici. Sicchè ad esempio la Francia di San Luigi non corrispondeva all'antico paese dei Franchi, ma da una parte abbracciava l'antica Settimania, già dominata dai Visigoti, e dall'altra avea dovuto rinunziare alle Fiandre, alla Franconia, ed alle rive del Reno, paesi germanici e perciò attratti nell'orbita del sacro romano impero.

Certamente poi, per quanto il suo titolo derivasse ufficialmente da quello di cui si erano fregiati gli antichi re barbarici, il re nazionale non fu in origine che il capo, qualche volta nominale, di una confederazione di grandi baroni, primo fra essi, ma primo fra i pari. Come tali furono considerati in Francia Ugo Capeto e Filippo Augusto, come tale appare Giovanni senza terra nel testo della Magna Charta, e tali appaiono i re d'Aragona nella formola del giuramento che essi dovevano prestare davanti le Cortes [399].

Ci vollero più di sei secoli di lotte e di lavorìo, lento ma costante, perchè il Re feudale si trasformasse in Re assoluto, la gerarchia feudale in burocrazia regolare e l'esercito, formato dalla nobiltà in armi e dai suoi vassalli, diventasse un esercito regolare e stanziale; sei secoli durante i quali vi furono anche dei periodi in cui la feudalità, giovandosi dei momenti critici che il paese e la Corona traversavano, potè alle volte riguadagnare qualche parte del terreno perduto. Ma alla fine la vittoria rimase alla monarchia accentratrice, che seppe a poco a poco riunire nelle sue mani una quantità di forze materiali, maggiore di quelle che la nobiltà feudale potea contrapporle, e che contro di essa abilmente si giovò dell'appoggio dei Comuni e di potenti e costanti forze morali, quali furono l'opinione diffusa della missione divina delle dinastie regnanti e la dottrina dei giureconsulti, i quali nei Re ravvisavano il potere sovrano che, a somiglianza dell'antico imperatore romano, creava colla sua volontà la legge e la facea osservare [400].

È importante di rilevare come le cause economiche abbiano esercitato un'azione poco sensibile nella trasformazione dello stato feudale in quello burocratico, trasformazione che è certo uno degli avvenimenti che maggiormente modificarono la storia del mondo; perchè dal secolo decimoquarto al decimosettimo i sistemi di produzione economica non subirono cambiamenti radicali, sopratutto se li paragoniamo a quelli che ebbero luogo dopo che fu costituito lo Stato burocratico assoluto. Viceversa dalla fine del quattrocento alla seconda metà del seicento, nell'epoca cioè in cui il sistema feudale perdeva ogni giorno terreno ed era definitivamente domato, ebbe luogo un gravissimo rivolgimento nell'arte e nell'organizzazione militare, prodotta dal perfezionamento e dal generalizzarsi delle armi da fuoco. Difatti il castello baronale potè essere facilmente e rapidamente espugnato appena si rese comune l'uso del cannone e la cavalleria pesante formata dalla nobiltà, che sola poteva sottoporsi alla lunga esercitazione ed all'ingente spesa che richiedevano l'armamento equestre, non fu più l'arma che decise dell'esito delle battaglie, dopo che l'archibuso fu perfezionato e le fanterie lo ebbero generalmente adottato [401].

VI. — Lo Stato assoluto burocratico si può considerare come definitivamente stabilito e sviluppato in Francia all'inizio del Regno di Luigi XIV, cioè nel 1660; contemporaneamente, o poco dopo, il rafforzamento dell'autorità centrale e l'assorbimento delle sovranità locali si generalizzò, più o meno completamente, in quasi tutta l'Europa; i pochi Stati che, come la Polonia e Venezia, non seppero o non poterono marciare con i tempi e trasformare il loro organismo, perdettero ogni forza ed ogni coesione e scomparvero prima che terminasse il secolo decimottavo.

Ora, data l'origine relativamente recente di quella forma di regime politico che appellavasi ed appellasi monarchia assoluta, uno dei fenomeni storici più interessanti è senza dubbio la rapidità con la quale, nel suo seno ed alla sua ombra, si formarono quelle nuove forze dirigenti e quelle nuove condizioni intellettuali, morali ed economiche, le quali, in un periodo che non è più lungo di circa un secolo e mezzo, resero inevitabile la sua trasformazione nello stato rappresentativo moderno.

Il più importante coefficiente di questa trasformazione fu la rapida creazione di una classe sociale nuova, la quale sorse e si affermò fra il popolo minuto ed i discendenti dell'antica aristocrazia feudale. Fu infatti durante il secolo decimottavo che nacque la borghesia nel senso lato della parola, cioè quella classe numerosa addetta alle professioni liberali, ai commerci, alle industrie, che ad una discreta agiatezza accoppia una cultura tecnica e spesso scientifica assai superiore a quella delle altre classi sociali. Certo che, anche prima di allora, le file della nobiltà non erano impenetrabili; anzi qualche grande giureconsulto aveva potuto esservi ammesso, ed, in alcune grandi città commerciali, alcune grandi famiglie di industriali e di banchieri avevano finito col confondersi con l'antica nobiltà feudale o col sostituirla addirittura. Ma, fino agli inizi del secolo decimottavo, una vera classe media non esisteva, perchè come tale non poteva riguardarsi il modesto artigianato, le cui condizioni economiche ed intellettuali assai poco differivano da quelle del popolo minuto.

Fu il regime assoluto che, assicurando l'ordine ed una pace relativa, ed allontanando la nobiltà dalle sue proprietà terriere [402], rese possibile che dalle classi inferiori della popolazione si staccassero gli elementi più adatti a formare un nuovo strato sociale, quello strato, che, assorbendo anche gli elementi meno doviziosi e più attivi dell'antica nobiltà, formò quella classe, la quale, con vocabolo molto espressivo, in Russia ed in Germania appellasi l'intelligenza. Classe che da un lato, per la sua educazione scientifica e letteraria, per le sue maniere e per le sue abitudini, distinguesi nettamente dai lavoratori manuali, mentre dall'altro, per le sue condizioni economiche, alle volte si confonde con i ceti più agiati, alle volte molto se ne distacca. Come si è già accennato, essa in qualche paese cominciò a formarsi negli ultimi decenni del secolo decimosettimo, ma si sviluppò ed affermò in tutta l'Europa centrale ed occidentale durante il secolo decimottavo ed anche nella prima metà del decimonono. Il suo sviluppo è in certo modo parallelo al diffondersi dell'istruzione secondaria classica e tecnica e dell'insegnamento universitario.

Questa classe, appena ebbe acquistato le sue qualità caratteristiche e la coscienza della propria forza ed importanza, dovette accorgersi che essa era vittima di una grande ingiustizia; la quale consisteva nei privilegi che la nobiltà aveva, più o meno in tutti gli Stati assoluti, ma sopratutto in Francia, conservato. Abbiamo già accennato ad una legge quasi costante della storia, per la quale ogni nuovo edificio politico deve più o meno utilizzare i ruderi di quello che l'ha preceduto. Obbedendo per necessità a questa legge, il regime assoluto, quando si era costituito, aveva tratto quasi tutti gli elementi della nuova burocrazia civile e militare, che reggeva lo Stato, dalla nobiltà e dal clero, ai quali aveva tolto le antiche sovranità territoriali, e sovratutto ai membri della nobiltà aveva riservato tutte le posizioni più elevate e le cariche più lucrose. Tutto ciò parve una cosa naturale finchè al di sotto della nobiltà non vi era che plebe e l'abitudine tradizionale al comando costituiva il migliore e quasi unico requisito per comandare, ma degenerò in parassitismo odioso e dannoso alla società quando la cultura e la preparazione tecnica, nelle quali i ceti privilegiati si lasciarono generalmente sopravvanzare dalla nuova classe media, divennero i requisiti più richiesti per l'esercizio degli uffici pubblici elevati.

Ma la borghesia avrebbe potuto forse prima intaccare e poi distruggere, o ridurre a vana parvenza, i privilegi nobiliari, senza che fosse necessario un cambiamento radicale dell'organizzazione dello Stato, se, nel secolo decimottavo, non si fosse pure formata una mentalità politica profondamente diversa da quella precedente; e se, in un paese europeo nel quale per la sua posizione insulare l'organizzazione politica aveva avuto uno svolgimento assai diverso di quello del continente, non si fosse nel secolo decimottavo stabilita una forma di governo che offriva, almeno apparentemente, un modello pratico adatto all'attuazione di quelle aspirazioni che erano il frutto della nuova mentalità alla quale abbiamo accennato.

Indebolito fortemente il sentimento religioso, che solo poteva fornire una base morale al così detto diritto divino dei principi [403], cadute in completo discredito, come reliquie di un'epoca barbara, tutte le reminiscenze e le sopravvivenze dell'antico regime feudale, distrutta ogni sovranità intermedia fra lo Stato e l'individuo, nel secolo decimottavo gli intelletti si nutrirono più che mai delle classiche dottrine politiche della Grecia e di Roma, e più che mai tornarono in onore gli antichi concetti di libertà, di uguaglianza, di sovranità popolare, che gli scrittori classici, avendo sotto gli occhi il modello dell'antica città greca e romana, avevano formulato. Quel rinnovamento della forma mentale, che era avvenuto durante il Rinascimento nel campo letterario ed artistico mercè lo studio dei modelli classici, avvenne sugli stessi modelli, quasi tre secoli dopo, in quello politico; prima che lo sviluppo del senso storico permettesse di scorgere chiaramente quanto fosse diversa l'organizzazione di quegli Stati sui quali le concezioni politiche dell'antichità greca e romana si erano formate.

Senza questa nuova mentalità, senza questa nuova visione della vita politica, così profondamente penetrata nella coscienza delle classi intellettuali di allora, non si spiegherebbe il rapido successo del Contratto sociale di Gian Giacomo Rousseau. In quest'opera infatti lo scrittore ginevrino, partendo dall'ipotesi di uno stato di natura, che gli uomini avrebbero abbandonato in sèguito ad un patto nel quale erano fissate le basi morali e giuridiche del consorzio politico, ipotesi entrata anche essa nel bagaglio intellettuale del secolo decimottavo, arrivava alla conchiusione che solo patto o contratto legittimo fosse quello che faceva sì che la legge fosse l'espressione della volontà della maggioranza numerica dei consociati e che affidava l'esecuzione della legge a coloro che dalla stessa maggioranza, per un tempo determinato, ne avevano ricevuto il mandato. Concetto, come si vede, perfettamente corrispondente a quello della democrazia classica, colla semplice differenza che gli antichi non ammisero mai nello Stato la massima parte dei lavoratori manuali, cioè gli schiavi, i quali furono sempre esclusi dal voto e dalle cariche pubbliche e tenuti lontani dalle armi.

Senonchè l'assolutismo burocratico del secolo decimottavo aveva in un punto solo preparato il terreno all'applicazione delle nuove teorie democratiche; distruggendo cioè, o riducendo a vana parvenza, ogni sovranità intermedia fra il potere supremo ed i singoli cittadini, facendo sì che fosse possibile concepire la sovranità popolare, come la sovranità della pura e semplice maggioranza numerica di coloro che facevano parte di uno Stato, e non già alla maniera medioevale, che si prolungò del resto fino a tutto il secolo decimosesto ed ai primi decenni del decimosettimo, come l'espressione della volontà dei capi ereditari e naturali del popolo, ossia dei baroni, e dei rappresentanti dei Comuni e delle corporazioni [404]. Ma in tutto il resto il Governo assoluto con la sua complessa ed accentrata organizzazione burocratica, col suo esercito stanziale, con le sue abitudini autoritarie, mal si adattava a trasformarsi in modo da rendere possibile la pratica applicazione di quei principi, che erano stati escogitati avendo avanti il modello della città stato greca e latina. E si può dubitare se l'adattamento sarebbe stato possibile, e se la storia politica dell'Europa continentale non sarebbe stata, nei secoli decimottavo e decimonono, diversa di quella alla quale le generazioni precedenti alla nostra hanno assistito, se l'Inghilterra nel secolo decimottavo non avesse già adottato un regime politico il quale offriva un modello pratico, che rendeva possibile la trasformazione dello Stato assoluto in un altro tipo di organizzazione politica abbastanza conciliabile colle idee ereditate dalla classica antichità e sopratutto, ed era ciò che più importava, col bisogno che aveva la borghesia di partecipare largamente ai poteri sovrani.

VII. — In Inghilterra infatti, a cominciare sopratutto dagli inizi del secolo decimosettimo, le istituzioni politiche avevano avuto uno svolgimento originale e sostanzialmente diverso da quello del vicino continente. Il regime feudale era stato colà trapiantato dalla conquista normanna, ma esso fin dal principio ebbe al di là della Manica alcune caratteristiche speciali, per il fatto che la razza conquistatrice, stando nei primi tempi come accampata in paese nemico, aveva dovuto mantenersi più unita e più disciplinata attorno al Re di quello che fosse la classe dominatrice nel continente. Avvenuta poi, dopo circa un secolo e mezzo, la fusione fra vinti e vincitori, la grande nobiltà aveva strappato colla forza al Re la Magna Charta, vero patto bilaterale fra il Re ed i baroni, nel quale si stabilivano i diritti ed i doveri reciproci dell'uno e degli altri [405]. Si ebbe perciò una delle solite costituzioni feudali che, mano mano sviluppandosi, restrinse sempre più i poteri della Corona di fronte a quelli del Parlamento, dove, accanto alla Camera alta, ossia dei Pari e quasi un'appendice di questa, presto sorse la Camera bassa, dove sedettero i rappresentanti dei piccoli nobili delle Contee e quelli dei Comuni, che colà furono piuttosto gli alleati e gli strumenti dei Pari e dell'alta nobiltà anzichè dei Re.

Mentre nella seconda metà del secolo decimoquinto i monarchi del continente dovevano ancora lottare strenuamente contro i grandi feudatari, in Inghilterra la lunga guerra civile detta delle due rose faceva sì che essi si dividessero in due parti acerbamente nemiche l'una dell'altra, che si sterminarono a vicenda. Sicchè, quando nel 1485, con l'avvento della dinastia dei Tudor, si riebbe la pace interna, la Corona si trovò davanti una Camera alta composta quasi esclusivamente di uomini nuovi, da essa stessa di recente innalzati alla dignità di Pari, che non avevano nè le forze materiali, nè il prestigio e l'autorità degli antichi baroni; mentre nello stesso tempo, non essendo sorta ancora in Inghilterra una borghesia campagnuola e cittadina, docile e poco autorevole rimaneva la Camera dei Comuni.

Fu per queste ragioni che il secolo decimosesto può riguardarsi come quello nel quale massima fu la potenza della Corona inglese. Tanto che un autorevolissimo ed acuto testimonio contemporaneo, ossia Giovanni Botero, nelle sue Relazioni universali, pubblicate verso la fine del cinquecento, a ragione poteva osservare che, sebbene i Re d'Inghilterra continuassero a convocare regolarmente il Parlamento, pure di fatto non avevano poteri meno estesi di quelli dei Re di Francia, dove le convocazioni degli Stati generali si facevano sempre più rare ed andavano in disuso [406].

Ma forse fu appunto questa facilità che ebbero i Tudor, ed i loro cortigiani e funzionari, di dirigere quasi senza opposizione la vita politica del loro paese la causa principale per la quale la Corona inglese trascurò allora la creazione dei due strumenti più sicuri dell'assolutismo monarchico: cioè dell'esercito stanziale e della burocrazia stabile e regolare. Infatti, un po' per economia, un po' perchè la posizione insulare dell'Inghilterra l'assicurava contro le invasioni straniere, come forza armata i Re di quella dinastia stimarono sufficiente una milizia reclutata in ogni Contea fra i nativi del luogo e che era composta d'individui i quali, dopo alcuni giorni di esercitazioni periodiche, ritornavano alle loro ordinarie occupazioni, ed anche probabilmente per economia prevalse pure l'uso di affidare nelle provincie le cariche civili di lord luogotenente, di scerifo, di coroner, ecc., ai notabili del luogo; i quali volentieri servivano senza stipendio, perchè la carica dava lustro alla famiglia ed autorità alla persona che ne era investita, ma la cui fedeltà poteva diventare dubbia o condizionata una volta che l'opinione pubblica si fosse fortemente dichiarata contro il Re e la Corte [407].

Sicchè, quando all'inizio del secolo decimosettimo, la dinastia degli Stuard volle stabilire il regime assoluto, di fronte al ridestarsi dell'opposizione della Camera dei Comuni, dove era rappresentata la borghesia rurale e cittadina, che, per le peculiari condizioni del paese, non depauperato da guerre esterne e civili e meno gravato d'imposte, aveva potuto di là della Manica formarsi qualche generazione prima che nel continente, e che in parte anche per ragioni religiose era avversa all'autorità della Corona, i sovrani inglesi si trovarono privi di quei mezzi materiali che nel continente avevano dato la vittoria alla regalità contro la feudalità [408]. E, dopo più di mezzo secolo di lotte, e dopo che un Re ebbe lasciata la testa sul patibolo, l'influenza delle forze politiche rappresentate nel Parlamento soverchiò definitivamente quella dei sostenitori della regalità.

La consacrazione legale di questa vittoria si ebbe con una serie di atti del Parlamento, debitamente sanzionati dalla Corona, i quali, o miravano come l'Habeas corpus ad assicurare le libertà individuali di tutti gli Inglesi, impedendo efficacemente l'arbitrio dei regi funzionari, oppure, come il secondo atto dei diritti del 1688 e l'atto di stabilimento del 1700, accoppiavano a disposizioni di questo genere altre, in forza delle quali la Corona era indirettamente costretta a governare secondo le leggi approvate dal Parlamento. E valga per tutte ricordare quella appunto compresa nel secondo degli atti citati, per la quale ogni atto di governo aveva valore solo se controfirmato da un membro del Consiglio privato, che era così personalmente responsabile della sua legalità [409]. Coll'avvento poi della dinastia di Hannover, cioè dal 1715 in poi, si accentuò vieppiù la preponderanza politica della Camera elettiva, perchè la Corona prese l'abitudine di scegliere i membri del Gabinetto, ossia del ristretto Consiglio al quale affidava l'esercizio del potere esecutivo, fra le personalità più spiccate della maggioranza della Camera bassa.

In questo modo, se si tiene anche conto della indipendenza della magistratura assicurata dalla sua inamovibilità, delle guarentigie concesse ad ogni inglese contro gli arresti e le condanne arbitrarie e del fatto che la libertà di stampa cominciò in Inghilterra ad affermarsi fin dal secolo decimottavo, si può dire che si ebbe allora colà un regime che, nelle sue linee principali e nei suoi caratteri più appariscenti, rassomigliava ai regimi rappresentativi moderni [410]. E si può anzi osservare che la grande originalità della storia politica inglese consistette nella trasformazione lenta e graduale del regime feudale sancito dalla Magna Charta in un regime rappresentativo moderno, trasformazione che fu poi compiuta nel secolo decimonono, senza che quel paese abbia attraversato quel periodo di assolutismo burocratico e militare, che, più o meno, si ebbe in tutti gli Stati dell'Europa continentale.

Ma non sarà inutile ricordare che la rassomiglianza fra la costituzione inglese, quale era nel secolo XVIII, e le moderne costituzioni rappresentative a base democratica si può constatare più nelle forme che nella sostanza; poichè questa rassomiglianza era grande se guardiamo il funzionamento degli organi principali dello Stato, ma era ben piccola, per non dire inesistente, se teniamo conto della maniera come i detti organi venivano formati, ossia delle forze politiche che essi rappresentavano. Difatti la Camera elettiva inglese era già fin d'allora il potere preponderante dello Stato, ma il diritto elettorale era concesso solo ad una piccola minoranza di cittadini, i quali ne godevano o perchè erano proprietari di immobili rurali nelle Contee, o in virtù di diritti e consuetudini, che spesso rimontavano al Medio Evo, nei borghi, tra i quali erano comprese anche cospicue città. E tutto ciò faceva si che l'elezione di buona parte dei deputati dipendesse da qualche centinaio di grandi proprietari, che spessissimo sedevano inoltre per diritto ereditario nella Camera dei Pari.

Poco più di venti anni prima che Rousseau nel suo Contratto sociale avesse dimostrato, con apparente rigore logico e quasi matematico, che la sola autorità legittima era quella che si basava sul consenso della maggioranza numerica dei consociati, Montesquieu nello Spirito delle leggi, scrutando e direi quasi anatomizzando la Costituzione inglese di allora, era arrivato alla conclusione che la sua superiorità consistesse nella divisione e nella reciproca indipendenza dei tre poteri fondamentali dello Stato; che, secondo lui erano il legislativo, l'esecutivo ed il giudiziario. Un esame sommario dei regimi rappresentativi del secolo decimonono basta a convincerci che essi sono il risultato della fusione dei concetti del filosofo ginevrino, che erano poi molto analoghi a quelli che la classica antichità aveva elaborato, con le idee dell'acuto magistrato francese. E' bastato infatti fare della Camera elettiva l'organo delle forze politiche preponderanti, e farla eleggere mercè un suffragio largo od anche universale, perchè si potesse credere di avere trasformato l'antico stato burocratico ed assoluto in un regime che aveva per base la sovranità popolare, come l'intendevano gli antichi, o, meglio ancora, come l'intendevano Rousseau ed i suoi seguaci. Si ebbero quindi, ci sia lecito il paragone, dei regimi politici paragonabili ad abiti tagliati sul modello della Costituzione inglese dell'epoca degli Hannover, ma confezionati con stoffe che potevano anche essere intessute coi principi della più pura democrazia.

VIII. — Le generazioni, che vissero durante il secolo decimonono, hanno potuto considerare come il massimo dei cataclismi sociali quello che, alla fine del secolo decimottavo, diede un fortissimo crollo all'antico regime assoluto e che, dopo la parentesi napoleonica, inaugurò gradatamente il regime rappresentativo, prima in Francia e poi negli altri paesi del centro e dell'occidente d'Europa. Questa maniera di vedere presenta molta analogia col solito errore di ottica, per il quale gli oggetti vicini ci sembrano più grandi di quelli lontani; ma in verità il cataclisma al quale assistettero i nostri bisnonni, e che fu seguito da altri molto minori, dei quali furono attori e spettatori i padri dei nostri padri, può sembrare relativamente piccolo se lo paragoniamo a quella grande catastrofe della civiltà umana, che precedette e seguì la caduta dell'impero romano d'occidente, o alle terribili invasioni dei Mongoli, che nel secolo decimoterzo misero a durissima prova tanta parte del mondo, poichè dalla China si estesero fino all'Ungheria. E, se fosse possibile prevedere esattamente l'avvenire, si potrebbe forse affermare che le convulsioni occasionate dall'avvento e dal diffondersi delle istituzioni liberali e del regime rappresentativo saranno probabilmente considerate come lievi a paragone di quelle altre, che potranno essere nello stesso tempo causa ed effetto della loro sparizione.

Come si sa, fra le scosse che accompagnarono l'istituzione del regime rappresentativo, la prima, che fu la più violenta, avvenne in Francia nell'ultimo decennio del secolo decimottavo; e quivi allora si ebbe quel grande e subitaneo spostamento della ricchezza a danno di una classe ed a favore di altre, che suole accompagnare tutti i gravi e profondi rivolgimenti politici. Senonchè in Francia il moto, per la grandissima maggioranza dei contemporanei, giunse improvviso e quasi inaspettato, non trovò, per l'impreparazione politica delle vecchie classi privilegiate e di quelle che aspiravano a surrogarle, uomini adatti a dirigerlo ed a moderarlo, e l'ondata rivoluzionaria disciolse quindi l'antica organizzazione statale senza avere pronta l'altra che la doveva sostituire. Sicchè Napoleone dovette poi ricostruirla quasi di sana pianta, adoperando all'uopo gli elementi più adatti, che non mancavano nè nelle antiche classi privilegiate nè sopratutto in quella borghesia che aveva fatto la rivoluzione. Ma nella grande maggioranza degli altri paesi d'Europa, quando s'iniziò il regime rappresentativo, esso era già così aspettato e socialmente così maturo, che potè essere inaugurato senza gravi perturbamenti; se come tali non si vogliono riguardare quelli che nel 1848 e 49 ebbero luogo nella quasi totalità degli Stati europei.

E si ebbe così, poco prima o poco dopo, verso la metà del secolo decimonono, il nuovo tipo di organizzazione politica, che si può definire come lo Stato rappresentativo moderno [411]. Esso, come già si è accennato, è il risultato di nozioni ed idee ereditate dalla classica antichità ed adattate ai bisogni della società del secolo decimonono, così diversa da quella che aveva creato la Città Stato della Grecia e di Roma, ed adattate entro un modello che, quasi empiricamente e per effetto delle circostanze specialissime della sua storia, era stato nei due secoli precedenti tracciato in Inghilterra. Pure i nuovi ordinamenti rispondevano cosi bene alla mentalità ed alle necessità sociali dell'epoca che li adottò che, sussidiati dalle maravigliose scoperte le quali resero possibile un progresso economico mai prima sognato, potettero, durante tutto il secolo decimonono, conservare indiscussa nel mondo la supremazia dei popoli di civiltà europea, già affermatasi nel secolo precedente, e, nel regime interno di questi popoli, hanno potuto mantenere un ordine relativo ed una prosperità materiale, dei quali difficilmente si troverebbero esempi analoghi nella storia di altri tempi e di altre civiltà umane [412].

Certo che fra i presupposti teorici del nuovo regime politico ed il suo pratico funzionamento ci è stata, e non poteva non esserci, una profonda ed insanabile disarmonia. Poichè naturalmente, malgrado l'adozione graduale del suffragio universale, il potere effettivo è rimasto sempre per una parte in mano alle classi più doviziose e per una parte maggiore, specialmente nei paesi così detti democratici, in mano alle classi medie; le quali hanno sempre avuto la prevalenza nelle organizzazioni direttive dei partiti politici e nei comitati elettorali ed hanno in grandissima maggioranza fornito i redattori alla stampa quotidiana, il personale alla burocrazia e l'ufficialità all'esercito [413].

Ma nello stesso tempo, appunto in grazia della combinazione insita nel regime fra l'elemento burocratico e quello elettivo, si è potuta avere una utilizzazione quasi completa nel campo politico ed amministrativo di tutti i valori umani e si è dato il modo a quasi tutti gli elementi più adatti delle classi dirette di entrare in quelle dirigenti.

La specializzazione poi delle diverse funzioni politiche e la cooperazione ed il controllo reciproco fra l'elemento burocratico e quello elettivo, che sono due delle principali caratteristiche dello Stato rappresentativo moderno, hanno fatto sì che esso possa essere riguardato come il tipo di organizzazione politica più complesso, e quindi più delicato, fra tutti quelli che sono ricordati nella storia del mondo. Da questo e da altri lati si può anzi affermare che vi è una quasi perfetta armonia fra il presente ordinamento politico e le condizioni della civiltà del secolo che l'ha visto nascere e vivere. Civiltà che se, nella squisita perfezione delle forme artistiche e letterarie, nella profondità del pensiero filosofico e del sentimento religioso, nel valutare l'importanza di alcuni grandi problemi morali, si è forse rivelata inferiore a qualcuna di quelle che l'hanno preceduto, è stata ed è di molto superiore a tutte le altre nella sapiente organizzazione della produzione economica e di quella scientifica, come anche nell'esatta cognizione e nell'accorto sfruttamento delle forze della natura. Ora indiscutibilmente la vittoria, che quel complesso d'istituzioni, di strumenti, di cognizioni e di attitudini acquisite, le quali formano la cultura e la forza di una generazione, ha ottenuto sulle forze naturali, l'organizzazione politica finora vigente l'ha ottenuto sulle spontanee energie e sulle volontà dei singoli individui umani [414].

Certo che, anche ieri ed oggi, è stato ed è possibile ad interessi particolari di piccole minoranze organizzate di prevalere sull'interesse collettivo, paralizzando l'azione di coloro che dovrebbero tutelarlo. Ma dobbiamo pure riconoscere che la macchina statale è così potente e perfezionata che giammai, come oggi, in Europa e nel mondo si è vista una somma uguale di mezzi economici e di attività individuali convergere per il raggiungimento di un fine collettivo; e l'ultima grande guerra mondiale ce ne ha dato una terribile ma irrecusabile prova. E, se si obietterà che qualche città antica ed anche qualche comune medioevale, proporzionatamente alla loro grandezza, non hanno fatto talora sforzi minori, si può facilmente rispondere che, quanto più piccolo è un organismo tanto più facile riesce di coordinare l'azione delle cellule che lo compongono, e che Atene, Sparta ed anche qualche grosso Comune medioevale avevano un territorio ed una popolazione cento volte minore di quella di uno Stato moderno di media grandezza. Solo Roma, nell'epoca delle due prime guerre puniche, e più ancora quando seppe nei primi due secoli dell'Impero espandere la sua lingua e la sua civiltà in tutta l'Europa occidentale, ottenne risultati paragonabili per l'entità, e forse anche da certi lati superiori, a quelli delle organizzazioni politiche presenti.

Senonchè, come tutti gli organismi, siano essi individuali o sociali, anche lo Stato rappresentativo moderno porta con sè i germi che, sviluppandosi, possono produrne la decadenza e la dissoluzione. Accenneremo per ora soltanto ad alcuni dei principali fra essi, a quelli cioè la cui azione già si può chiaramente percepire.

E prima di tutto faremo presente che in molti paesi d'Europa si nota in questo momento una notevole decadenza economica di quella classe media che, col suo sorgere e col suo prosperare, rese possibile l'avvento del regime rappresentativo. E, se questa decadenza dovesse prolungarsi per la durata di una generazione, essa sarebbe immancabilmente seguita da quella intellettuale. Ora, come la diffusione della media proprietà era, secondo Aristotile, una condizione indispensabile per il retto funzionamento della città greca, così l'esistenza di una media borghesia riesce necessaria per la vita normale del regime rappresentativo moderno. Tanto vero che in quei paesi ed in quelle regioni nelle quali questa classe è poco sviluppata, o non ha i requisiti richiesti per mantenere il suo prestigio e la sua influenza, questo regime ha dato i risultati peggiori [415]. Perciò, se la decadenza accennata dovesse accentuarsi e durare, si potrebbero forse per qualche tempo ancora osservare le forme degli ordinamenti presenti, ma di fatto si avrebbe o una dittatura plutocratica o una dittatura burocratica e militare, oppure una dittatura demagogica di pochi caporioni, che saprebbero lusingare le masse ed appagarne, fin dove sarebbe possibile, e con danno sicuro dell'interesse generale, l'invidia e gli istinti spogliatori [416]. Ovvero, peggio ancora, si potrebbe avere una combinazione di due e magari di tutte e tre le dittature citate.

Ed il pericolo sembra tanto più grande in quanto esso si riconnette ad un altro, il quale è una conseguenza necessaria del sistema d'idee che ha fornito la base morale ed intellettuale al sistema rappresentativo. Intendiamo alludere a quella forma mentale, finora prevalente, che ha reso quasi ineluttabile l'introduzione del suffragio universale.

A dir vero, nei primi decenni del regime rappresentativo la borghesia, transigendo col dogma della sovranità popolare sul quale quel regime era fondato, aveva adottato quasi dappertutto forme di suffragio ristretto; ma in sèguito, vinta più dalla forza della logica che dalla spinta che veniva dagli strati più umili della società, e sopratutto costretta dalla necessità di mostrarsi coerente ai principî che aveva proclamato ed in nome dei quali aveva combattuto ed abbattuto l'assolutismo, adottò il suffragio universale. Il quale fu cominciato ad attuare prima negli Stati Uniti d'America, poi in Francia nel 1848, ed in sèguito in tutti gli altri paesi retti a regime rappresentativo.

Ora giammai i molti, specialmente se poveri ed ignoranti, hanno diretto i pochi, sopratutto se essi sono relativamente ricchi ed intelligenti; e perciò la così detta dittatura del proletariato non potrebbe essere che quella di una classe assai ristretta esercitata a nome del proletariato; e forse la nozione di questa verità, penetrata più o meno chiaramente nella coscienza o nella subcoscienza delle classi dirigenti, ha contribuito a far loro accettare senza molta resistenza il suffragio universale. Ma, una volta che tutti hanno acquistato il diritto al voto, è inevitabile che dalla stessa borghesia si distacchi una frazione, la quale, nella gara per arrivare ai posti migliori, cercherà di appoggiarsi sugli istinti e sugli appetiti delle classi più numerose, insegnando ad esse che l'uguaglianza politica significa presso che nulla se non è accompagnata da quella economica e che la prima può servire benissimo di strumento per ottenere la seconda.

E ciò è avvenuto ed avviene tanto più facilmente in quanto la borghesia, non solo è rimasta in certo modo prigioniera dei suoi principî democratici, ma anche di quelli liberali; e si sa che il liberalismo accetta come verità assiomatica che ogni credenza, ogni opinione ha il diritto di essere senza alcun ostacolo predicata e propagata. Certo che il liberalismo e la democrazia non sono la stessa cosa, ma hanno un certo fondo comune in quella corrente intellettuale e sentimentale formatasi nel secolo decimottavo e che si fondava sopra una concezione ottimistica della natura umana, o meglio dei sentimenti e delle idee che necessariamente avrebbero dovuto prevalere nelle collettività umane. Sicchè, come la democrazia deve ammettere che il governo migliore è quello che emana dal consenso della maggioranza numerica dei consociati, il liberalismo deve credere che basti il buon senso popolare a distinguere la verità dall'errore ed a far giustizia delle idee antisociali e dannose. E, dato che le classi dirigenti hanno informato la loro condotta ai principi accennati, non è da maravigliare se in molti paesi siasi affermata e grandemente diffusa una nuova dottrina, e si potrebbe anzi dire una nuova fede, la quale, se si può presumere e dimostrare inetta a ricostruire un sistema di ordinamento sociale e politico migliore, e sopratutto più morale, di quello esistente, è certamente attissima a distruggerlo [417].

Se a tutto ciò aggiungiamo la grandissima complessità della moderna economia e la conseguente specializzazione delle attività necessarie alla produzione ed alla distribuzione delle derrate e dei servizi più indispensabili alla vita quotidiana dell'intiera società, e quindi dello Stato, ciò che rende possibile a piccole minoranze di causare, incrociando semplicemente le braccia, gravissimi perturbamenti in tutto il corpo sociale, potremo formarci un concetto sommario degli elementi dissolvitori, che corrodono la compagine degli attuali ordinamenti politici e sociali e ne minacciano l'esistenza [418]. Ma di questo argomento crediamo per ora di aver detto abbastanza, tanto più che ce ne dovremo di nuovo occupare nell'ultimo capitolo del presente lavoro.

 


 

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CAPITOLO IV.
Principi e tendenze diverse che si affermano nella formazione e nella organizzazione della classe politica.

I. I due principi e le due tendenze che si possono riscontrare nelle varie classi politiche. — II. Il principio autocratico. — III. I due strati della classe politica e l'autocrazia burocratica. — IV. Il principio liberale. — V. Analisi della tendenza democratica. — VI. Analisi della tendenza aristocratica. — VII. Risultati dell'equilibrio fra i due principi e le due tendenze.

I. — Secondo scrisse Platone in uno dei suoi ultimi dialoghi, la monarchia e la democrazia sarebbero le due forme di governo fondamentali, dalle quali, mercè combinazioni più o meno felici, deriverebbero tutte le altre [419]. Questo concetto, accortamente interpretato e completato, si può anche oggi accettare; perchè realmente in tutte le forme di organizzazione politica o l'autorità viene trasmessa dall'alto verso il basso della scala politica e sociale, in maniera che la scelta del funzionario inferiore viene lasciata a quello superiore, finchè si arriva al supremo gerarca che sceglie i suoi immediati collaboratori, come dovrebbe accadere nella monarchia assoluta tipica, ovvero dal basso viene delegata a coloro che stanno in alto, dai governati ai governanti, come si usava nell'antica Grecia ed in Roma repubblicana.

Bisognerebbe aggiungere che i due sistemi possono essere fusi e contemperati in vari modi, come accade oggi nei governi rappresentativi; e si potrebbe citare in proposito la forma presente di governo degli Stati Uniti d'America, nei quali il Presidente è scelto dalla universalità dei cittadini ed egli alla sua volta nomina tutti i funzionari del governo federale ed i magistrati della Corte suprema.

Il primo tipo di organizzazione politica, quello nel quale l'autorità viene trasmessa dall'alto della scala politica ai funzionari inferiori, e che fu da Platone appellato monarchico, noi crediamo più esatto di chiamarlo autocratico; perchè un monarca nel senso lato della parola, ossia un capo dello Stato, si trova quasi sempre in tutte le forme di regime politico. Più difficile riesce la scelta del vocabolo adatto ad indicare il secondo. Seguendo l'esempio di Platone, si potrebbe chiamarlo democratico, ma, siccome per democrazia s'intende oggi comunemente una forma di regime politico nella quale tutti ugualmente partecipano alla formazione dei poteri sovrani, ciò che non sempre è accaduto nel passato nei regimi nei quali il popolo scieglieva i suoi governanti, perchè spesso per popolo s'intendeva una ristretta aristocrazia, crediamo più opportuno di appellarlo liberale [420]. E questa denominazione ci sembra tanto più appropriata in quanto è prevalso l'uso di ritenere liberi quei popoli nei quali, stando alla legge, i governanti dovrebbero essere scelti da tutti o anche da una parte dei governati e la legge stessa dovrebbe essere una emanazione della volontà generale. Mentre nei regimi autocratici essa o ha un carattere immutabile e sacro, oppure è una espressione della volontà dell'autocrate o meglio ancora di coloro che agiscono in suo nome.

Viceversa ci sembra più adatto di chiamare democratica quella tendenza che, latente o manifesta, agisce sempre con maggiore o minore intensità in tutti gli organismi politici e che mira a rinnovare la classe dirigente, sostituendola con elementi provenienti dalle classi dirette. E naturalmente chiameremo aristocratica la tendenza contraria, anche essa costante sebbene di varia intensità, la quale mira alla stabilizzazione della direzione sociale e del potere politico nei discendenti di quella classe che, in un dato momento storico, se ne è impossessata.

A prima vista parrebbe che la prevalenza di quello che noi denomineremo principio autocratico dovrebbe accoppiarsi a quella che chiameremo tendenza aristocratica; e che al contrario il principio opposto, che chiameremo liberale, dovrebbe accoppiarsi alla tendenza che abbiamo appellato democratica. E realmente dall'esame di molti tipi di organizzazione politica potrebbe trarsi la conclusione che esiste una certa simpatia fra l'autocrazia e l'aristocrazia da una parte ed il liberalismo e la democrazia dall'altra; ma però sarebbe questa una di quelle regole che sono soggette a moltissime eccezioni. Riuscirebbe facile infatti trovare esempi di autocrazie che non hanno ammesso l'esistenza di classi alle quali la nascita conferiva privilegi legali, e si potrebbe citare in proposito l'impero chinese durante lunghi periodi della sua storia; ed anche più facile sarebbe di trovare esempi di regimi elettivi nei quali il popolo elettore era costituito solo dalla classe dirigente ereditaria, come avveniva a Venezia e nella repubblica polacca.

Ad ogni modo, tenendo anche conto che riesce difficile assai di trovare un regime politico nel quale si possa constatare l'esclusione assoluta di uno dei due principî, o di una delle due tendenze, ci sembra certo che la forte prevalenza dell'autocrazia o del liberalismo, della tendenza aristocratica o della democratica, possa fornire un criterio sicuro e fondamentale per determinare il tipo al quale l'organizzazione politica di un dato popolo, in una data epoca, appartiene. Ed è perciò che ora ci sembra molto utile di iniziare un breve studio sui vantaggi e gli inconvenienti che ad ognuno e ad ognuna di esse si possono attribuire.

II. — Pare indiscutibile che l'autocrazia abbia formato la base della organizzazione politica dei primi grandi aggregati umani. Tutti gli antichi grandi imperi dell'Asia e l'antico Egitto erano organizzati autocraticamente, come pure secondo il principio autocratico erano organizzati il nuovo impero persiano dei Sassanidi ed i califfati arabi [421]. Fino a pochi anni fa erano autocratici i regimi politici del Giappone, della China e della Turchia, che, per la natura della sua civiltà, potea essere considerata come paese asiatico. In Europa si può considerare come autocratico il governo dell'impero romano dopo Diocleziano e quello dell'impero bizantino e fu retta da una pura autocrazia la Russia di Ivano IV il terribile e di Pietro il grande e quella di Alessandro III e dei primi tempi di Niccola II. Abbiamo visto come, anche nell'Europa occidentale, la formazione del grande Stato moderno, mercè la distruzione di tutte le sovranità intermedie che caratterizzavano il regime feudale, abbia dato luogo alla creazione di governi autocratici; che poi si trasformarono nei regimi rappresentativi moderni. Finalmente anche in America erano autocraticamente organizzati il Messico ed il Perù, ossia i soli due grandi Stati che gli Europei trovarono nel nuovo continente [422].

È evidente che un sistema di organizzazione politica così diffuso e così duraturo fra popoli di civiltà diversissima, e che spesso nessun contatto nè materiale nè intellettuale avevano avuto fra di loro, deve, se non sempre, spessissimo corrispondere alla natura politica dell'uomo, perchè ciò che è artificioso od eccezionale non sussiste lungamente. L'autocrazia infatti, sia che il capo supremo che sta al vertice della piramide politica eserciti la sua autorità in nome di Dio e degli Dei, sia che egli la riceva dal popolo o da coloro che presumono di rappresentarlo, fornisce una formola politica, ossia un principio d'autorità ed una giustificazione del potere, chiara, semplice e che tutti facilmente comprendono. Non ci può essere una organizzazione umana senza una gerarchia, e qualunque gerarchia necessariamente richiede che alcuni comandino e gli altri ubbidiscano; e, poichè è nella natura degli uomini che molti di essi amino il comandare e che quasi tutti si adattino ad ubbidire, riesce assai utile una istituzione, la quale dà a coloro che stanno in alto la maniera di giustificare la loro autorità e nello stesso tempo aiuta potentemente a persuadere coloro che stanno in basso a subirla.

Si potrebbe obiettare che se l'autocrazia è un regime molto adatto alla formazione di grandi organismi politici, come furono gli antichi imperi mesopotamici e l'antica Persia, ed in tempi più recenti la China, la Turchia e la Russia, e ad assicurarne la durata per parecchi ed alle volte per molti secoli, essa non consente ai popoli che l'hanno adottato, e sopratutto alle loro classi dirigenti, di raggiungere tutta quella elevazione morale ed intellettuale di cui l'umanità civile è capace. Difatti l'arte ed il pensiero della Grecia e di Roma furono in complesso superiori a quelli degli imperi orientali e nessuna delle civiltà asiatiche antiche e recenti ha avuto una vita intellettuale così intensa da potere sostenere il confronto con quella delle grandi nazioni dell'Europa centrale ed occidentale e dell'America del secolo decimonono. Ma l'epoca splendida di Atene durò circa un secolo e mezzo, perchè iniziatasi colla battaglia di Platea, che ebbe luogo il 479 avanti Cristo, si protrasse tutto al più fino alla guerra lamiaca, cioè fino al 323 a. C. Ed anche Roma potè cominciare ad essere considerata come un grande Stato ed un centro di cultura alla fine della seconda guerra punica, cioè al 203 a. C.; ma già al 133 s'iniziarono con Tiberio Gracco le lotte civili, ed al 31 a. C, dopo un secolo di tumulti quasi continui, di proscrizioni, di guerre intestine, l'antico Stato città dovette tramutarsi nell'impero d'Augusto.

Fra le grandi nazioni moderne l'Inghilterra ed il Nord-America sono quelle che da più lungo tempo si reggono secondo il principio liberale, ma abbiamo già visto che la prima lottò contro l'assolutismo fino al 1689, e sappiamo che la data della nascita degli Stati Uniti può essere fissata al 1783. E l'Inghilterra del 1689 era per potenza, ricchezza e valore intellettuale assai diversa da quella di oggi; come pure è noto che la grande repubblica nord-americana, fin quasi alla metà del secolo decimonono, era un paese quasi esclusivamente agricolo, sobrio, ristretto in se stesso, attaccato alle antiche tradizioni, molto lontano dalla opulenza e dalla importanza mondiale che oggi ha raggiunto. Sicchè parrebbe quasi che il principio liberale facilmente prevalga in quei periodi eccezionali della vita dei popoli durante i quali alcune delle più nobili facoltà dell'uomo si manifestano con tutta la loro intensità ed energia e maturano i germi che produrranno a breve scadenza un notevolissimo aumento di potenza politica e prosperità economica. Ma sembra pure che a questi periodi, i quali segnano alcune delle tappe più importanti raggiunte nel cammino della civiltà, altri ne seguano, durante i quali le società umane sentono quasi il bisogno di un lungo riposo, che politicamente trovano adagiandosi in un autocratismo più o meno larvato, e più o meno adattato al grado di sviluppo e di cultura raggiunto.

Il regime autocratico naturalmente presuppone l'esistenza di un autocrate, di un uomo cioè che personifichi l'istituzione in nome della quale agiscono tutti coloro che sono investiti di una parte o di una particella qualsiasi della pubblica autorità. Ora l'autocrate può essere ereditario, nel quale caso si ha una combinazione del principio autocratico colla tendenza aristocratica, o elettivo, nel quale caso la combinazione avverrebbe colla tendenza democratica. Non bisogna però dimenticare che gli autocrati a vita tendono sempre a trasformarsi in ereditari e che, come avveniva a Roma durante l'impero, l'autocrate, il quale nominalmente ha ricevuto il mandato dal popolo, molto spesso viene creato dalle classi dirigenti, o meglio da quella frazione delle classi dirigenti che ha i mezzi più efficaci per imporsi alle altre, ovvero finalmente da quel gruppo di alti funzionari che tengono in mano le fila colle quali si dirige la macchina dello Stato [423].

L'eredità, quando è regolata in maniera che non possano nascere dubbi sui diritti dell'erede al trono, presenta certamente il vantaggio di assicurare meccanicamente la stabilità e la continuità del potere e di evitare che ogni successione fornisca facili occasioni a guerre civili e ad intrighi di Corte a favore o contro i vari pretendenti. Da questo lato il sistema adottato dalle monarchie europee, nelle quali la famiglia legale è stata ed è sempre monogama e la successione è toccata sempre al maschio primogenito, ha dato risultati migliori di quello usato nelle monarchie orientali, che non hanno mai regolato il diritto di successione in modo così chiaro e preciso e hanno sempre ammesso che il sovrano regnante possa cambiarlo. Ciò che naturalmente ha aperto la porta agli intrighi della sultana favorita, degli alti funzionari ed anche del basso personale di Corte, che col sovrano ha quotidiani contatti [424].

La prima origine delle dinastie autocratiche è dovuta molto spesso ad una individualità forte ed energica, la quale, dopo che è arrivata al potere supremo, ha saputo acquistare tale prestigio nella classe politica ed anche fra le masse popolari ed ha saputo costituire tale una rete intessuta d'interessi e di devozione fra gli alti funzionari, da fare sembrare molto opportuno, e quasi naturale, che la successione venga trasmessa ai suoi discendenti. Sappiamo infatti che in China le nuove dinastie sono state generalmente fondate da avventurieri energici e fortunati che, ponendosi a capo di una rivolta vittoriosa, rovesciavano la dinastia precedente. Origine simile ebbe nel Giappone la dinastia degli Shogun Tokugava e si sa pure che in India il turco Baber, postosi a capo di una grossa banda di avventurieri suoi compatriotti, riuscì a fondare, nei primi decenni del secolo decimosesto, l'impero del Gran Mogol. In Europa simili casi sono avvenuti assai più raramente; Napoleone non potè trasmettere il trono al re di Roma, ed il figlio di Oliviero Cromwel potè occupare la carica di lord protettore soltanto per meno di un anno. Un caso tipico, che si potrebbe in proposito ricordare, fu quello di Gustavo Wasa che, figlio di un nobile svedese, ma ridottosi nella sua gioventù a fare il pastore ed il minatore nella Derecarlia, si pose poi a capo di una rivolta dei suoi compatriotti contro i Danesi, e fu il fondatore di una dinastia che, dai primi decenni del secolo decimosesto, regnò nella Svezia fino all'avvento dei Bernadotte. Invece più di frequente è avvenuto fra noi che una dinastia, nata piccola e debole, siasi a poco a poco fortificata ed ingrandita mediante il lavorìo costante di una serie di generazioni. E basterebbe citare l'esempio dei Capetingi, dei Savoia, degli Hohenzollern e forse anche degli Habsburgo.

In una autocrazia ereditaria è assai difficile che la persona destinata dalla nascita ad occupare la difficilissima carica di capo supremo di un grande Stato abbia le qualità necessarie per effettivamente e bene disimpegnarla. A dir vero l'eredità familiare e l'educazione possono contribuire molto a far sì che un sovrano ereditario riesca ad acquistare il contegno esteriore e le forme che più convengono alla posizione che occupa. Ma, benchè le forme abbiano la loro importanza, sopratutto quando ogni gesto ed ogni parola possono attirare l'attenzione di un intero popolo, esse non bastano a supplire alla deficienza delle qualità più sostanziali: quali sarebbero la capacità di lavoro, l'energia, la volontà di dominio, la conoscenza degli uomini ed anche una certa insensibilità affettiva tanto utile per i regnanti, che non dovrebbero troppo commuoversi per i dolori altrui, ma dovrebbero invece sapere reprimere gli slanci del cuore ed evitare studiosamente quei momenti critici nei quali l'animo umano è irresistibilmente spinto a rendere palesi i sentimenti ed i pensieri più intimi [425].

Alla deficienza accennata si ripara nella maggior parte dei casi affidando a due diversi personaggi le funzioni autocratiche; all'autocrate titolare resta la parte rappresentativa e decorativa della carica, mentre il potere effettivo viene affidato ad un'altra persona, che si può chiamare maestro di palazzo, primo ministro o vizir. Spesso però quest'ultimo compito è affidato, anzichè ad una persona sola, ad un Consiglio formato di un piccolo gruppo di maggiorenti, come sarebbero stati il Consiglio dei Ministri, che assisteva il principe in Europa sotto l'antico regime, il Tsong-li-yamen in China, il Divano in Turchia, il Ba-ku-fu nel Giappone dei Tokugava [426]. Ma ordinariamente in questo piccolo gruppo vi è un individuo il quale ad una maggiore capacità di lavoro accoppia una più forte e più ferma volontà di dominio e che perciò predomina sugli altri. Quando il principe titolare regna ed il primo ministro governa, e le circostanze esigono un cambiamento radicale d'indirizzo politico, esso si può effettuare cambiando il ministro e lasciando in piedi la dinastia ed il sovrano regnante. Naturalmente di fronte a questo vantaggio sorge il pericolo che il sovrano di fatto, cioè colui che effettivamente governa, si sforzi di conservare il potere per tutta la vita e cerchi anche di trasmetterlo ai suoi figli; come accadde in Francia all'epoca dei maestri di palazzo ed è accaduto replicatamente nel Giappone, dove, assai prima che s'istituisse lo Shogunato dei Tokugava, il potere del Mikado era diventato nominale ed era di fatto esercitato dal capo di qualche grande famiglia feudale [427].

Non è facile di teorizzare sul come e sul quando diventa necessaria la divisione accennata del potere autocratico. Certo è che essa si rende inevitabile quando la dinastia autocratica è invecchiata ed ammollita, sicchè l'autocrate legale, chiuso nel suo palazzo e spesso snervato dai piaceri sensuali, perde ogni contatto coi grandi e col popolo e non conosce più l'arte di fare agire le ruote della macchina statale. Ma non mancano, specialmente in Europa, numerosi esempi di discendenti di antiche dinastie, che come Carlo V e Filippo II di Spagna, Luigi XIV di Francia, Vittorio Amedeo II di Savoia, Pietro il grande di Russia e Federico il grande di Prussia, hanno saputo dirigere effettivamente il governo dei loro Stati. Studiando uno ad uno i personaggi indicati, e quegli altri che si potrebbero indicare, facilmente si potrebbe constatare che, malgrado la varietà dei caratteri individuali, essi avevano comuni due qualità fondamentali: cioè una grande capacità di lavoro fisico ed intellettuale ed una forte volontà di dominio.

È naturale che in origine, e si potrebbe anche dire a caso vergine, la scelta dell'autocrate coadiutore, che esercita il potere effettivo, spetti all'autocrate titolare, e che il primo perciò debba essersi saputa accaparrare la fiducia del secondo. Ma col tempo un carattere forte può acquistare tale ascendente sopra un carattere debole che questo non oserà più revocare ciò che una volta ha liberamente concesso; sicchè il mandatario volontariamente scelto può diventare un tutore che si subisce. Si aggiunga che la prima e la più urgente cura del vice-principe è quasi sempre quella di mettere in tutte le cariche elevate persone legate a lui da vincoli di famiglia, di riconoscenza, o, meglio ancora, da complicità in azioni basse od in vere ribalderie. Poichè cosi facendo egli può contare sulla fedeltà della camarilla che ha contatti frequenti col principe e tenere da lui studiosamente lontani tutti coloro che ad essa non appartengono.

Del resto la formazione di un gruppo di persone, che, secondo i casi, può comprendere due o tre dozzine o anche un centinaio d'individui, i quali monopolizzano la direzione dello Stato e occupano, alle volte a turno, le cariche più importanti, è un fatto che avviene in tutte le autocrazie, anzi in tutte le forme di regime politico. Variano soltanto i criteri con i quali questo gruppo, che forma il primo strato della classe dirigente, viene selezionato, a seconda che il regime è autocratico o liberale o che prevale la tendenza democratica o quella aristocratica. Ma, in tutti i casi ed in tutti i regimi, un criterio costante, e che ha sempre grande importanza, consiste nel gradimento di coloro che del gruppo già fanno parte. In tempi normali, quando si tratta di arrivare ad uno dei posti che permettono di disporre effettivamente di una parte delle forze di uno Stato, e quindi della sorte di molti individui, quasi sempre sono necessari il consenso o almeno la simpatia e l'acquiescenza di coloro che ai posti accennati sono già arrivati. Non per nulla dice il proverbio che non si entra in Paradiso a dispetto dei santi.

Nei paesi nei quali prevale nello stesso tempo il principio autocratico e la tendenza aristocratica, il gruppo al quale abbiamo accennato viene formato a preferenza dai membri della più alta nobiltà, i quali dalla nascita sono destinati ad occupare gli uffici e le mansioni più importanti dello Stato. La Corte allora suole spesso essere il teatro dove si svolgono le gare di preminenza fra le più grandi famiglie del reame, come avveniva in Francia all'epoca delle lotte fra il conte di Armagnac ed il duca di Borgogna, in Sicilia nella seconda metà del secolo decimoquarto ed in Spagna sotto il debole Carlo II. Ma, quando il sovrano titolare ha ingegno e forza di volontà, riesce alle volte a rompere il cerchio delle camarille aristocratiche, che lo servono e nello stesso tempo lo padroneggiano, e spesso lo padroneggiano più di quanto lo servano, e lo rompe portando a posti molto elevati persone di nascita mediocre, che, dovendo tutto a lui, sono strumenti più efficaci e più fedeli della sua politica. Si sa infatti che i due principali ministri di Luigi XIV, Colbert e Louvois, non appartenevano all'alta nobiltà francese, e che Pietro il Grande di Russia affidò spesso cariche elevate ad avventurieri di origine straniera o anche a Russi di bassa estrazione. Nelle autocrazie orientali non era neppure inaudito il caso di persone di origine molto bassa che arrivavano prima alle cariche più elevate e poi al potere supremo, e si potrebbero citare gli esempi di Basilio il Macedone nel secolo nono a Bisanzio e di Nadir Scià nella Persia del secolo decimottavo [428]. Non occorre dire che queste carriere eccezionali erano dovute ad una straordinaria assistenza della fortuna, a doti eccezionali d'intelletto e sopratutto all'arte di valersi di tutte le circostanze propizie per salire in alto; la quale arte consiste sopratutto nel sapersi rendere utili, e meglio ancora necessari, a coloro che già si trovano in alto, sfruttandone tutte le qualità buone e cattive.

III. — Al di sotto del primo strato della classe dirigente ve ne è sempre, e quindi anche nei regimi autocratici, un altro molto più numeroso, che comprende tutte le capacità direttrici del paese. Senza di esso qualunque organizzazione sarebbe impossibile, perchè il primo strato non basterebbe da solo ad inquadrare e dirigere l'azione delle masse. Sicchè dal grado di moralità, d'intelligenza e di attività di questo secondo strato dipende in ultima analisi la consistenza di qualunque organismo politico, la quale suole essere tanto più grande quanto maggiore è la pressione che il senso degli interessi collettivi della nazione o della classe, riesce ad esercitare sulle cupidigie individuali di coloro che ne fanno parte. Perciò le deficienze intellettuali e morali di questo secondo strato rappresentano per l'organismo politico un pericolo più grave e più difficilmente rimediabile di quello nel quale si incorre quando le stesse deficienze si riscontrano nelle poche dozzine di persone che tengono in mano i meccanismi della macchina statale [429].

Nei regimi autocratici primitivi, ed in generale in quelli più antichi, questo secondo strato della classe politica era quasi sempre formato dai sacerdoti e dai guerrieri. Cioè da quello due categorie di persone che disponevano della forza materiale e della direzione intellettuale e morale della società e che, come conseguenza più che come causa, del predominio intellettuale e morale, avevano anche quello economico; e, date queste condizioni della società, era naturale che al regime autocratico si accoppiasse quasi sempre il prevalere della tendenza aristocratica. Ma, col decorrere del tempo, colla fusione completa della razza conquistatrice colla conquistata, là dove la differenziazione delle classi era dovuta in origine all'invasione di popoli stranieri, coll'aumento della civiltà e quindi della ricchezza e della cultura, e colla conseguente necessità di una preparazione tecnica per bene disimpegnare le cariche pubbliche, le autocrazie aristocratiche si sono quasi sempre più o meno trasformate in autocrazie burocratiche. Tali erano infatti l'impero romano, specialmente dopo Diocleziano, e quello bizantino, l'impero chinese, almeno negli ultimi secoli della sua esistenza, la Russia dopo Pietro il Grande, i principali Stati europei nel secolo decimottavo e, con qualche riserva, poteva anche essere considerato come un'autocrazia burocratica il Giappone dopo la creazione dello Shogunato dei Tokugava [430].

Perchè un'autocrazia inizi la burocratizzazione di un grande Stato è senza dubbio necessario che l'organizzazione politica sia già così salda da potere regolarmente prelevare una parte delle entrate dei privati sufficiente a fornire un trattamento ai pubblici funzionari ed a potere mantenere una forza armata permanente. Ma, come spesso avviene nei fenomeni sociali, alla sua volta una burocratizzazione già bene iniziata permette di accrescere grandemente l'efficacia coercitiva della macchina statale e rende quindi possibile alla classe dirigente, e sopratutto al gruppo che la guida, di esercitare un'azione sempre più forte sulle masse governate, orientandone gli sforzi verso i fini voluti dai governanti. In altre parole, un'autocrazia burocratizzata è un'autocrazia perfezionata, con tutti i vantaggi e gli inconvenienti dovuti al perfezionamento. Tra i primi si possono enumerare la possibilità di affidare le diverse funzioni dirigenti agli specialisti, e quella di aprire le porte alle capacità provenienti dagli strati meno elevati della società e di fare così largo al merito personale. Rendendo con ciò omaggio ad un canone di giustizia distributiva, che ha avuto sempre presa nel cuore degli uomini, e che ne ha sopratutto oggi; canone che vorrebbe stabilire un rapporto esatto e quasi matematico fra il servizio che ogni individuo rende alla società ed il grado che egli raggiunge nella gerarchia sociale.

Ma, come scrive il Ferrero, il merito personale, è una delle cose che le passioni e gli interessi degli uomini sanno meglio falsificare [431]. E si potrebbe forse aggiungere che nei regimi autocratici, dove il successo dipende dal giudizio di una o di poche persone, può bastare per falsificare l'intrigo; mentre in quelli liberali, sopratutto quando prevale anche la tendenza democratica, ed occorre quindi per farsi avanti anche la stima e la simpatia attiva di molti, all'intrigo bisogna accoppiare una buona dose di ciarlataneria. Ad ogni modo, anche prescindendo da questa obiezione pregiudiziale, e, se si vuole, troppo pessimista, è certo che ogni giudizio sul merito e sulle attitudini di una persona sarà sempre più o meno subbiettivo e che perciò ogni giudice apprezzerà maggiormente, ed in piena buona fede, nei candidati, quelle qualità intellettuali e morali che egli stesso possiede. Ed è questa certamente una delle ragioni principali di quel conservatorismo cieco, di quell'incapacità a correggere i propri vizi e le proprie debolezze che spesso si riscontra nei regimi esclusivamente burocratici [432].

E per evitare questo grave inconveniente non basta che i funzionari superiori, dai quali dipende l'ammissione e la carriera di quelli inferiori, siano persone di alto intelletto, ma bisogna pure che abbiano il cuore molto generoso ed elevato. Difatti alle volte anche le persone dotate delle qualità più rare ed eccelse dell'intelletto umano prediligono coloro che hanno le qualità più comuni e secondarie, le quali danno meno ombra al superiore e lo completano meglio. Poichè coloro che le posseggono fanno ciò che egli non sa fare, o disdegna di fare, e sono quasi sempre più insinuanti, non avendo, o sapendo meglio dissimulare, quella baldanza giovanile, che spesso può sembrare od anche essere presunzione, e che di frequente si riscontra negli uomini di verde età e d'ingegno vivace; i quali riescono spesso a vedere subito ciò che gli altri, anche vecchi, o non vedono affatto o vedono molto tardi.

Che se poi, diffidando della umana imparzialità, alla scelta ed all'indicazione dei superiori si vogliono sostituire regole di avanzamento meccaniche, le quali non possono essere basate che sulla anzianità, avviene infallibilmente che uguale è la carriera del pigro e del solerte, dell'intelligente e del mediocre, e che quindi il funzionario, persuaso che far meglio e più degli altri non serve a nulla, farà solo quel minimo che è indispensabile per non perdere il posto o la promozione. Allora le carriere burocratiche tendono a diventare l'asilo dei mediocri o di coloro che hanno urgenza assoluta di avere un posto rimunerato per potere provvedere alla propria sussistenza, ed un uomo intelligente che entra nella burocrazia consacra al suo ufficio solo una parte, e spesso non quella migliore, della propria attività e del proprio ingegno.

Va da sè che, per quanto una burocrazia possa essere legalmente aperta a tutte le classi sociali, di fatto essa viene quasi sempre reclutata nella classe media, cioè in quel secondo strato della classe dirigente di cui abbiamo parlato; perchè i nati in questa classe trovano assai più facilmente i mezzi di procacciarsi l'istruzione necessaria e nello stesso ambiente familiare acquistano la nozione pratica dei modi più adatti per entrare nella carriera e per fare carriera; e non occorre neppure dire quanto possano a ciò giovare la guida e la protezione del padre o di parenti ed amici di famiglia altolocati. Perciò si può in genere affermare che, sia nel regime autocratico puro, sia in quello combinato con il regime liberale, quasi identico è il livello morale della burocrazia e della classe dirigente del paese. Quindi è più elevato dove questa classe ha tradizioni radicate di probità e di onore, perchè da più lungo tempo formata e raffinata e da molte generazioni si è consacrata al servizio dello Stato, tanto nelle carriere civili che in quella militare. Ed è più basso quando essa è di data più recente, e proviene o da avventurieri procaccianti e fortunati o da famiglie di contadini e piccoli commercianti, appena digrossate, nelle quali, sebbene abbiano acquistato una certa agiatezza, molto spesso ancora perdurano la mancanza di ogni idealità e la inveterata e sordida avidità del grosso ed anche del piccolo guadagno.

È in questi casi che l'organizzazione burocratica dà i frutti peggiori: che sarebbero il favoritismo sfacciato dei superiori, la bassa servilità dei subalterni, in tutti la tendenza a barattare con favori di qualsiasi genere quel tanto d'autorità che la carica mette a loro disposizione. Nei casi più gravi il baratto si converte in vendita, ed allora si ha quella corruzione pecuniaria che, quando diventa comune nei gradi alti e bassi della scala burocratica, disgrega e paralizza ogni azione dello Stato. Difetto poi comune a tutte le burocrazie, e quindi anche a quelle moralmente più elevate, è la convinzione della propria infallibilità; per la quale sono sempre oltremodo restie ad accogliere quelle critiche e quei suggerimenti che provengono da persone estranee alla loro carriera.

IV. — Abbiamo già visto nelle pagine precedenti come il principio liberale abbia uno stato di servizio più brillante, ma certo più ristretto e più breve, di quello autocratico. Agli esempi di Stati liberali antichi e moderni che allora abbiamo addotto, si potrebbero aggiungere quelli della Polonia, dell'Olanda, delle città anseatiche, di Genova, di Firenze e della Svizzera, paesi nei quali il regime liberale durò più o meno lungamente, e finalmente di Venezia, dove un regime liberale, nel senso da noi attribuito al vocabolo, e nello stesso tempo oligarchico, prevalse per molti secoli. Ma anche quasi tutti gli altri Stati che abbiamo menzionato, ad eccezione di qualche piccolo cantone della Svizzera, erano governati da aristocrazie più o meno ristrette, ed in Polonia, cioè in quello che raggiungeva la massima estensione, l'aristocrazia presto degenerò in una turbolenta anarchia.

Come abbiamo pure accennato, le caratteristiche del regime liberale consistono nel fatto che la legge è basata sul consenso della maggioranza dei cittadini, i quali però possono anche essere una esigua frazione degli abitanti dello Stato, e che i funzionari i quali la applicano sono nominati direttamente od indirettamente dai loro subordinati e sono temporanei e responsabili della legalità dei loro atti. Nei grandi Stati liberali generalmente i cittadini, anzichè esercitare personalmente il potere legislativo, lo delegano ad assemblee direttamente od indirettamente da loro nominate, e l'azione dei funzionari elettivi viene completata ed integrata da una vera e propria burocrazia. Inoltre, dove prevale il principio liberale, lo Stato suole riconoscere certi limiti ai suoi poteri nei suoi rapporti coi singoli cittadini e coi sodalizi da essi formati. Questi limiti, non completamente ignoti alla Grecia classica ed a Roma antica, sono quasi sempre sanciti nei moderni Statuti e riguardano la libertà di religione, di stampa, d'insegnamento, di associazione e riunione e le guarentigie per la libertà personale, per la proprietà privata e l'inviolabilità del domicilio.

Anche negli Stati nei quali prevale il principio liberale troviamo quei due strati della classe dirigente, il primo molto piccolo, il secondo molto più largo e profondo, dei quali abbiamo parlato a proposito del regime autocratico. Il sistema elettivo non esclude infatti che si formino dei gruppi più o meno chiusi, i quali si contendono le cariche più elevate dello Stato e fanno capo ciascuno ad un pretendente alla carica più elevata, che potrebbe essere quella di Presidente della Repubblica o di Presidente del Consiglio dei Ministri; gruppi che corrispondono alle camarille di Corte, fra le quali nelle autocrazie si scelgono i coadiutori immediati del supremo gerarca. Naturalmente i metodi usati sono diversi, perchè nelle autocrazie per arrivare basta influire sopra di uno o di pochi uomini, sfruttandone tutte le passioni buone e cattive; mentre nei regimi liberali bisogna guidare la volontà di almeno tutto il secondo strato della classe dirigente, il quale, se non costituisce da solo il corpo elettorale, fornisce i quadri che ne formano le opinioni e ne determinano l'azione. Perchè dal suo seno escono i comitati che dirigono le associazioni politiche, gli oratori dei comizi ed i redattori dei giornali, ed infine quel piccolo numero di persone capaci di formarsi una opinione propria sugli uomini e sugli avvenimenti del giorno e che perciò esercitano una grande influenza sui moltissimi incapaci, e preparati quindi, senza saperlo, ad accogliere sempre quella degli altri.

Molto diversi sono i risultati che dà l'applicazione del principio liberale a seconda che il corpo elettorale, dal quale dipende la scelta di coloro che occupano le cariche pubbliche più elevate, è molto ristretto, ovvero molto largo.

Nel primo caso è evidente che una buona parte della classe politica, o di coloro che avrebbero le attitudini a farne parte, ne resta esclusa. Questa esclusione fa sì che il regime liberale diventi molto somigliante ad un'autocrazia larvata di una classe ristrettissima, che alle volte si riduce a poche famiglie potenti e quasi onnipotenti, come accadeva in Polonia negli ultimi decenni anteriori alla sua spartizione. Inoltre quando il corpo elettorale è molto ristretto, quasi tutti gli elettori sono o possono credersi effettivamente eleggibili, e quindi quasi tutti diventano candidati, ossia giudicabili, senza che resti un numero sufficiente di giudici [433].

Ordinariamente perciò nei corpi elettorali ristrettissimi o si forma una cricca unica, composta dai titolari delle cariche e dai loro consorti e cointeressati, o se ne formano due, delle quali una sta al potere e l'altra fa un'opposizione astiosa e sistematica. I pochi che si mantengono al di fuori delle due cricche ordinariamente restano isolati e vengono lasciati in disparte; e riescono ad esercitare un'azione efficace solo nei momenti critici, quando una serie di gravi scandali o di grandi insuccessi rendono inevitabile o facile la caduta della cricca che stava al potere.

Nel secondo caso, cioè quando tutti o quasi tutti sono elettori, lo studio principale delle diverse organizzazioni di partito in cui si divide la classe dirigente diventa quello di captare i suffragi delle classi più numerose, che sono necessariamente le più povere ed indotte. La prima e la più spontanea e naturale aspirazione di queste classi, costrette a subire un governo che spesso non amano e del quale ancora più spesso non capiscono gli scopi e gli ingranaggi, sarebbe quella di esser governata il meno possibile, ossia di fare per lo Stato il minor numero possibile di sacrifizi; la seconda, che si sviluppa sopratutto coll'esercizio del suffragio, sarebbe quella di trarre da esso profitto per migliorare la propria situazione economica e per sfogare quel risentimento compresso e quell'invidia che spesso, non sempre, l'uomo che sta in basso sente per colui che sta in alto, e specialmente per colui che è il suo superiore immediato.

Or, quando nella lotta fra le diverse frazioni della classe dirigente il successo dipende dall'appoggio e dalla simpatia delle masse popolari, è inevitabile che quella frazione, la quale dispone di mezzi d'influenza meno efficaci, si valga delle due aspirazioni accennate, e sopratutto della seconda, per trascinare con sè gli strati più umili della società. A questa frazione si uniscono di frequente, per sentimento o per interesse, quegli individui che, nati nelle classi meno elevate, hanno saputo da esse sollevarsi, in grazia della loro speciale intelligenza ed energia, ovvero per la loro eccezionale furberia [434]. Ma, qualunque sia la loro origine, i metodi seguiti da coloro che vogliono monopolizzare e sfruttare la simpatia delle plebi sono stati e sono sempre identici: essi consistono nel porre in luce, naturalmente esagerandoli, l'egoismo, l'insipienza ed i godimenti materiali dei ricchi e dei potenti, nel denunziare i loro vizi ed i loro errori reali ed immaginari e nel promettere di soddisfare quel senso così comune e diffuso di grossolana giustizia, che vorrebbe abolita ogni gerarchia sociale fondata sui vantaggi che conferisce la nascita e vorrebbe nello stesso tempo raggiungere l'uguaglianza assoluta dei godimenti e delle pene.

Accade poi spesso che i partiti ai danni dei quali si rivolge la propaganda demagogica per combatterla usino mezzi assai analoghi a quelli dei loro avversari. Anche essi perciò fanno promesse impossibili a mantenere, adulano le masse, ne lusingano gli istinti più rozzi e sfruttano e fomentano tutti i loro pregiudizi e tutte le loro cupidigie, quando stimano di poterne trarre vantaggio. Ignobile gara, nella quale coloro che ingannano volontariamente abbassano il loro livello intellettuale fino a renderlo uguale a quello degli ingannati, e moralmente scendono ancora più in basso [435].

Tutto sommato quindi il principio liberale trova le condizioni migliori per la sua applicazione quando il corpo elettorale è composto in maggioranza da quel secondo strato della classe dirigente che forma la spina dorsale di tutte le grandi organizzazioni politiche. Quando perciò esso è abbastanza numeroso perchè la maggior parte degli elettori non possa aspirare alle candidature, sicchè i candidati possono trovare in essi dei giudici e non già dei rivali o dei compari, e nello stesso tempo abbastanza ristretto perchè non diventi necessario per riuscire di rendere omaggio alla mentalità ed ai sentimenti delle classi più incolte, allora soltanto può diventare, non diciamo completa, ma non del tutto illusoria, quella responsabilità dei mandatari verso i mandanti, che è uno dei principali presupposti del regime liberale [436].

Come è noto, e come abbiamo accennato, altro suo vantaggio, presunto od effettivo, sarebbe la pubblica discussione degli atti dei governanti, sia nelle assemblee politiche e nei consigli amministrativi, che per opera della stampa periodica. Ma, perchè questo ultimo ed efficacissimo mezzo di controllo potesse realmente illuminare la pubblica opinione, bisognerebbe che i giornali non fossero l'organo di camarille politiche o finanziarie, o gli strumenti ciechi di una fazione, e, quando lo sono, bisognerebbe che il pubblico lo sapesse e potesse tenerne conto.

V. — La tendenza democratica, cioè verso il rinnovamento delle classi dirigenti, si può affermare che agisce costantemente, con maggiore o minore intensità, in tutte le società umane. Alle volte il rinnovamento avviene in modo rapido e violento, più spesso, anzi normalmente, mercè la lenta infiltrazione di alcuni elementi provenienti dagli strati più umili nelle classi elevate.

Nel passato i rinnovamenti violenti avvenivano non raramente in seguito ad invasioni straniere, quando un popolo veniva conquistato da un altro popolo che si stabiliva nello stesso paese e, senza distruggerli o cacciarli, si sovrapponeva agli antichi abitanti. Così avvenne nell'Europa occidentale dopo la caduta dell'impero romano, nella Persia dei Sassanidi dopo l'invasione araba, in Inghilterra dopo la vittoria di Guglielmo il conquistatore, nell'India dopo l'invasione dei Maomettani ed in China dopo l'invasione dei Mongoli e poi dopo quella dei Tartari Mandchù. Però in questo caso, quasi sempre, frammenti dell'antica aristocrazia paesana sono entrati in quella nuova di origine straniera. E forse, in tutti i casi summentovati, uno studio attento delle condizioni dei popoli conquistati ci farebbe constatare che la conquista straniera è stata quasi sempre agevolata da un principio di dissolvimento interno, che aveva già indebolito e disgregato la classe dirigente indigena, o l'aveva moralmente separato dal resto della popolazione.

In tempi più recenti si sono talora avuti rinnovamenti violenti e molto larghi delle antiche classi politiche in seguito a gravi rivolgimenti interni. Essi corrispondono alle vere e proprie rivoluzioni, ed avvengono quando fra la organizzazione politica ufficiale ed i costumi, le idee ed i sentimenti di un popolo si determina una grande disarmonia ed artificiosamente vengono tenuti in condizione subordinata molti elementi che sarebbero attissimi a partecipare alla direzione politica. Un esempio classico di questo genere si ebbe colla grande rivoluzione francese; un altro si sta svolgendo sotto i nostri occhi in Russia [437].

Ma le crisi violente, che cambiano radicalmente i criteri in base ai quali si reclutano le classi dirigenti e che ne mutano o modificano profondamente nel giro di pochi anni il personale, possono essere considerate come un fatto piuttosto eccezionale, il quale caratterizza alcune epoche storiche; fatto che qualche volta ha dato un energico impulso al progresso intellettuale, morale e materiale, e qualche altra volta è stato l'inizio o la conseguenza di un periodo di decadenza e dissoluzione di una civiltà. Viceversa, anche in tempi normali, possiamo quasi sempre constatare che un lento e graduale rinnovamento della classe politica avviene mediante infiltrazioni di elementi provenienti dagli strati inferiori in quelli superiori della società. Senonchè questa tendenza, che noi abbiamo chiamato democratica, alle volte prevale ed agisce in modo più efficace e più rapido, alle volte invece più copertamente, attraverso mille ostacoli creati dalle leggi, dalle consuetudini e dai costumi, e perciò in modo assai più blando.

Come abbiamo già osservato nella prima parte di questo lavoro, la tendenza democratica prevale più facilmente nei tempi agitati, quando una mentalità nuova riesce a scalzare le antiche concezioni sulle quali si basava l'edificio della gerarchia sociale, quando i progressi scientifici e tecnici hanno creato nuove fonti di guadagno o hanno prodotto un cambiamento negli ordinamenti militari, o anche quando un urto esterno ha costretto una nazione a fare appello a tutte le sue energie e ad attitudini che, in tempi quieti, sarebbero rimasti allo stato potenziale [438]. Perciò in generale i cambiamenti di religione, le nuove dottrine filosofiche e politiche, la scoperta di armi nuove o di nuovi strumenti di guerra, l'applicazione di nuovi ritrovati alla produzione economica e lo stesso aumento di essa, le lunghe guerre, sono tutti elementi che favoriscono il rapido scambio delle molecole che compongono i vari strati sociali. Aggiungiamo che questo scambio avviene sempre più agevolmente nei paesi nuovi, dove abbondano ancora le ricchezze naturali poco sfruttate, che danno modo agli uomini energici ed intraprendenti di arrivare più facilmente, o almeno meno difficilmente, alla ricchezza e quindi alla notorietà. Gli esempi dei diversi Stati americani e dell'Australia ci sembrano a questo riguardo abbastanza calzanti e persuasivi.

Non si può negare che la tendenza democratica, sopratutto se contenuta in limiti moderati, sia in certo modo indispensabile a ciò che si chiama, e spesso è realmente, il progresso delle società umane. Infatti, se tutte le aristocrazie fossero rimaste sempre chiuse ed immobili, il mondo non sarebbe mai cambiato e l'umanità si sarebbe fermata nello stadio raggiunto all'epoca delle monarchie omeriche o degli antichi imperi orientali. La lotta fra coloro che stanno in alto e coloro che, nati in basso, aspirano a salire è stata, è, e sarà sempre il fermento che ha costretto gli individui e le classi ad allargare i proprii orizzonti ed a cercare quelle vie nuove che ci hanno condotto fino al grado di civiltà raggiunto nel secolo decimonono. A quel grado che ha reso possibile nel campo politico la creazione del grande stato rappresentativo moderno, il quale, come abbiamo visto nel precedente capitolo, fra tutti gli organismi politici è quello che è riuscito a coordinare una somma maggiore di energie e di attività individuali verso fini d'interesse collettivo.

Si può aggiungere che la tendenza democratica, quando la sua azione non tende a diventare eccessiva ed esclusiva, rappresenta ciò che in linguaggio volgare si chiamerebbe una forza conservatrice. Perchè essa permette di rinsanguare continuamente le classi dirigenti mercè l'ammissione di elementi nuovi, che hanno innate e spontanee le attitudini al comando e la volontà di comandare, ed impedisce così quell'esaurimento delle aristocrazie della nascita, che suole preparare i grandi cataclismi sociali.

Però, come abbiamo già accennato, a cominciare dalla fine del secolo decimottavo e durante il decimonono, e forse anche oggi, da quando cioè il dogma dell'uguaglianza umana, rimodernato secondo la mentalità dei tempi, ha acquistato nuovo vigore, e si è riputato possibile che esso possa avere completa applicazione nel mondo terreno, molti hanno creduto, e non pochi hanno finto di credere, che ogni vantaggio proveniente dalla nascita debba, col tempo con opportuni ordinamenti, venire eliminato e che l'avvenire potrà vedere dei consorzi umani nei quali vi sarà una corrispondenza completa fra il reale servizio reso alla società ed il grado occupato nella gerarchia sociale [439].

Ma, sebbene questa aspirazione mai forse come ora sia stata diffusa e nettamente formulata, sarebbe assurdo credere che sia nata soltanto poco meno di duecento anni fa; poichè essa invece ha sempre costituito la base morale di ogni attacco che mirava al rinnovamento o al rinsanguamento della classe dirigente. Ogni volta che si è voluto forzare la barriera, che separava un'aristocrazia, di diritto o di fatto ereditaria, dal resto della società, si è sempre fatto appello in nome della religione o dell'uguaglianza naturale degli uomini o almeno di quella dei cittadini, ai diritti del merito individuale contro il privilegio della nascita. Su questo riguardo le democrazie della Grecia e di Roma, i contadini inglesi guidati da Wat Tyrel, i Ciompi di Firenze e gli Anabattisti di Münster, senza avere in mano la dichiarazione dei diritti dell'uomo, pensavano ed operavano come i riformatori francesi del secolo decimottavo e come i comunisti di oggi [440].

Senonchè, ogni volta che il movimento democratico ha potuto parzialmente o totalmente trionfare, abbiamo visto costantemente la tendenza aristocratica risorgere per opera di coloro stessi che l'avevano combattuta e talora ne avevano proclamato la soppressione. A Roma i plebei ricchi, dopo avere forzato le porte che precludevano loro l'accesso delle cariche più elevate, si fusero coll'antico patriziato e formarono una nobiltà nuova, nella quale l'accesso agli estranei, legalmente permesso, era di fatto molto difficile. A Firenze alle famiglie nobili, delle quali si volle distruggere l'influenza politica mercè i famosi ordinamenti di giustizia, si sostituì l'oligarchia dei popolani grassi. In Francia la borghesia del secolo decimonono sostituì in parte la nobiltà dell'antico regime. Dappertutto, appena si è abbattuta l'antica barriera, se ne è edificata un'altra, talora forse più bassa e meno irta di triboli e di spine, ma tale che presentava sempre un ostacolo abbastanza efficace a coloro che la volevano superare. Dappertutto gli arrivati ai primi gradini della scala sociale hanno costituito una difesa per sè e per i loro figli contro coloro che volevano arrivare [441].

Si dirà che ciò è un prodotto necessario della proprietà individuale, che rende ereditaria la ricchezza e facilita grandemente, a coloro che la ereditano, le vie per arrivare al potere e per restarci. Ed è certo che in questa obiezione vi è una gran parte di verità, e non diciamo tutta la verità perchè le cognizioni e le relazioni dei padri possono essere trasmesse parzialmente ai figli anche quando la famiglia non ha un patrimonio vero e proprio. Ma pochi si rendono oggi conto che in uno stato collettivista l'inconveniente accennato, che ora ha per base la proprietà privata, non sparirebbe, anzi si presenterebbe in forma più grave. Perchè, come abbiamo già dimostrato nell'ultimo capitolo della prima parte di questo lavoro, e come attualmente accade in Russia, coloro che reggono uno Stato organizzato secondo i principi collettivisti avrebbero facoltà e mezzi d'azione molto maggiori dei ricchi e dei potenti di oggi. Infatti in uno Stato collettivista i reggitori cumulerebbero il potere politico con quello economico e, disponendo così della sorte di tutti gli individui e di tutte le famiglie, avrebbero mille modi di distribuire favori e castighi e sarebbe strano che di queste facoltà non si valessero per procacciare ai loro figli i posti migliori.

Per abolire intieramente il privilegio della nascita bisognerebbe dunque abolire anche la famiglia ed adottare la Venere vaga, facendo discendere l'umanità fino al livello della più bassa animalità [442]. E crediamo per giunta che neppure questo provvedimento così radicale sarebbe sufficiente a stabilire nel mondo quella giustizia assoluta che, mai attuata, sarà sempre invocata da coloro che vogliono rovesciare il sistema vigente delle gerarchie sociali. Perchè abbiamo visto che, quando il clero cattolico, il quale non poteva legalmente avere figli, disponeva di una grande potenza economica e politica, è sorto il nepotismo; e, quando non ci saranno neppure i nipoti, l'uomo è così fatto che saprà trovare sempre qualcuno dei suoi simili che amerà e proteggerà a preferenza degli altri.

E resta poi a vedere se sarebbe sempre vantaggioso per la collettività che fosse tolto ogni vantaggio alla nascita nella lotta per entrare a far parte della classe dirigente e per arrivare ai gradi più elevati della gerarchia sociale. Poichè, quando tutti gli individui potessero prendervi parte a condizioni uguali, questa lotta diverrebbe senza dubbio acuta fino al parossismo e produrrebbe quindi un enorme dispendio di forze e di energie dirette a raggiungere un fine individuale, senza che, nella maggior parte dei casi, vi fosse un corrispondente profitto per l'organismo sociale [443]. Mentre potrebbe benissimo darsi che certe qualità intellettuali e sopratutto morali, le quali sono utili e forse anche necessarie affinchè una classe dirigente mantenga il suo prestigio e disimpegni bene la sua funzione, richiedano, per svilupparsi ed affermarsi, che per parecchie generazioni le stesse famiglie possano conservare una posizione sociale abbastanza elevata. Ma di questo argomento ci dovremo intrattenere a preferenza nel susseguente paragrafo e durante il seguito del nostro lavoro.

VI. — Scrivendo nel primo quarto del secolo ventesimo, quando ben pochi sono coloro che in pubblico non si dichiarano partigiani entusiasti della democrazia, potrebbe sembrare superfluo di esporre i danni e gli svantaggi del soverchio prevalere della tendenza aristocratica, ossia della stabilizzazione del potere politico e dell'influenza sociale in determinate famiglie. Però, siccome questa stabilizzazione, tanto comune nelle civiltà tramontate ed in quelle rimaste estranee alla presente cultura europea, anche oggi fra noi di fatto è attenuata ma non distrutta, siccome lo spirito aristocratico non è morto, e probabilmente non morrà mai, non crediamo superfluo di consacrare qualche pagina a questo argomento.

Parlando poco fa di alcuni vantaggi della tendenza democratica abbiamo indirettamente accennato ad alcuni svantaggi di quella aristocratica. Aggiungeremo ora che, quando un popolo è retto lungamente da un'aristocrazia chiusa o semichiusa, è quasi inevitabile che in essa nasca e si accentui uno spirito di corpo o di casta per il quale i suoi membri si credono infinitamente superiori al resto dell'umanità. Quest'orgoglio, che spesso si accompagna ad una certa frivolezza di spirito e ad un culto eccessivo per le forme esteriori, fa sì che facilmente coloro che stanno in alto stimino che tutto sia loro spontaneamente dovuto, senza che essi abbiano doveri precisi verso coloro che sono fuori della loro casta, che considerano quasi come destinati ad essere ciechi strumenti delle loro mire, delle loro passioni e dei loro capricci [444].

Questa maniera di pensare e di sentire, la quale si forma quasi spontaneamente negli individui che fin dalla nascita sono destinati ad occupare cariche più o meno elevate e che fin dall'infanzia godono di molti privilegi e ricevono molti omaggi, impedisce che essi generalmente comprendano, e quindi compatiscano, i dolori e le pene di quegli altri che stanno negli ultimi gradini della scala sociale e gli stenti e gli sforzi di coloro che hanno saputo coll'opera propria salire qualcuno dei gradini della scala accennata. Inoltre l'esagerazione dello spirito aristocratico fa si che si evitino i contatti con gli strati più umili della società e che quindi si trascuri di studiarli attentamente. E questa trascuratezza produce spesso una completa ignoranza delle loro reali condizioni psicologiche; che alle volte vengono raffigurate, attraverso la letteratura ed i romanzi, come assai vicine alla semplicità e bontà primitiva dell'uomo, alle volte invece vengono assimilate senz'altro a quelle dei bruti. Naturalmente tutte e due le esagerazioni hanno il comune risultato di togliere alla classe dirigente qualunque influenza sulla formazione della mentalità e dei sentimenti delle masse e di renderla perciò inetta alla loro direzione.

Raramente nella storia troviamo esempi di classi elevate ereditarie che, avendo coscienza, come debbono averla, della loro superiorità intellettuale e morale, abbiano spontaneamente avuto un'uguale coscienza dei doveri che questa superiorità imponeva loro verso le classi inferiori. E più raramente ancora fra gli individui appartenenti alle classi dirigenti ereditarie si è diffuso quel sentimento di vera e reale fratellanza e solidarietà universale, che forma la base e l'onore delle tre grandi religioni mondiali, il Buddismo, il Cristianesimo e l'Islam; sentimento il quale fa si che l'uomo più elevato riconosca e comprenda che anche l'uomo più basso fa parte integrante di quella umanità alla quale tutti e due appartengono. Ciò che in fondo corrisponde a quel tanto di vero che può essere contenuto in tutta quella grande congerie di sogni e di menzogne che oggi appellasi democrazia.

Il più insidioso nemico di tutte le aristocrazie della nascita è senza dubbio l'ozio, che genera la mollezza e la sensualità, fomenta la frivolezza e produce l'aspirazione ad una vita nella quale i piaceri non sono accompagnati dai doveri. E bisogna confessare che, quando manca la necessità quotidiana dell'obbligo ad un determinato lavoro, e quando non si è già contratta nei primi anni della giovinezza l'abitudine di lavorare, è difficile sfuggire alle insidie di questo terribile nemico. Ma le aristocrazie che da esso non sanno sufficientemente difendersi decadono rapidamente, giacchè, se pure nominalmente conservano per qualche tempo il loro rango e le loro funzioni, queste vengono di fatto esercitate dai subalterni, che presto diventano i padroni effettivi; essendo impossibile che chi fa e sa fare non riesca pure col tempo a comandare.

Senonchè non bisogna dimenticare che l'esenzione dei lavori materiali, la sicurezza di potere vivere e conservare la propria posizione sociale senza che ad essa corrisponda la necessità impellente di un'occupazione grave e quotidiana, può dare in certi casi ottimi risultati dal lato dell'interesse collettivo, e che l'essersi un certo numero di uomini trovati nelle condizioni accennate è una delle cause precipue dei progressi intellettuali e morali della umanità.

Uno scrittore spagnuolo contemporaneo, Miguel de Unamuno, ha scritto l'elogio della fannulloneria. Egli ha voluto dimostrare che il mondo molto deve agli oziosi, perchè, se fra i nostri antenati non ci fosse stato un certo numero di persone, che non dovevano lavorare colle proprie braccia e che potevano interamente disporre del loro tempo, non sarebbero nate nè la scienza, nè l'arte, nè la morale [445].

La tesi è ardita e contiene molta parte di vero, ma la quistione non ci sembra posta nei suoi veri termini. Nel caso contemplato ciò che i non iniziati, i quali possono appartenere tanto alle classi superiori che alle inferiori, chiamano ozio, molto spesso, lungi dall'esser tale, è la forma più nobile di lavoro umano. Quella forma cioè che non si propone una utilità immediata per l'individuo che vi si dedica, o anche per altri determinati individui, ma cerca di rendersi conto delle leggi che regolano l'universo, del quale facciamo parte, e dello svolgimento del pensiero e delle istituzioni umane, senza altra spinta che la passione disinteressata di allargare un poco i confini del noto a spese dell'ignoto, senza altro fine che quello di chiarire alquanto, e nei limiti del possibile, quei problemi gravi ed angosciosi, che travagliano l'anima e l'intelletto umano e gli danno quell'impronta caratteristica che lo solleva al di sopra dell'animalità. Or è evidente che questi istinti hanno avuto la maggiore facilità, e diremmo quasi la possibilità di affermarsi, solo fra uomini, che appartenevano ad una classe dirigente così raffermata nel suo dominio da rendere possibile che alcuni dei suoi membri fossero esenti dalle cure materiali della vita e dalla preoccupazione di difendere giorno per giorno la propria posizione sociale. Ed è perciò che si deve ammettere che la scienza e la morale sociale sono state originariamente elaborate in seno alle aristocrazie e che anche oggi trovano in esse a preferenza i loro cultori più devoti [446].

Si potrebbe obiettare che le grandi scoperte nel campo scientifico e le grandi affermazioni nel campo morale sono dovute ad uomini dotati di ciò che comunemente si dice il genio, cioè di una capacità d'intelletto e di sentimento e di una forza di volontà eccezionali, e che il genio raramente è ereditario. E ciò è vero; ma il genio suole a preferenza manifestarsi in individui che appartengono a quei popoli ed a quelle classi nelle quali il livello medio dell'intelligenza è più elevato, ed è notorio che le qualità intellettuali, le quali, senza essere straordinarie, sono superiori alla media, facilmente si tramandano dai genitori ai figliuoli. Or non è arrischiato supporre che in origine le classi elevate, qualunque sia stato il criterio con il quale vennero costituite, dovettero attirare nel proprio seno molti degli individui più intelligenti e, quando esse non sono ermeticamente chiuse, continuamente si rinsanguano cogli elementi più intelligenti che provengono dagli strati inferiori della società [447].

Certamente poi più spiccato è il fenomeno dell'eredità familiare per quel che riguarda le qualità morali, nello sviluppo delle quali grande è l'influenza dell'educazione, e sopratutto di quella educazione indiretta che proviene dall'ambiente in cui si nasce e si vive. Non senza una profonda ragione in tutti i tempi e in tutti i luoghi si è pregiata l'antichità di una famiglia, ossia il fatto che per una lunga serie di generazioni essa ha potuto conservare una posizione sociale elevata. Perchè è relativamente facile di arrivare in alto, quando i tempi e la fortuna aiutano, ed un individuo possiede una certa dose d'intelligenza, di attività, di perseveranza e sopra tutto ha una grande e ferma volontà di farsi avanti; ma nelle cose umane l'immobilità è artificiale ed il cambiamento naturale, sicchè occorrono una prudenza costante ed una vigile e durevole energia per conservare, attraverso i secoli e per una lunga serie di generazioni, ciò che si è acquistato per il merito, o per un colpo di fortuna, e qualche volta anche per la mancanza di scrupoli, di un lontano antenato.

Perciò le famiglie, che hanno potuto resistere lungamente a questa prova, sono soltanto quelle nelle quali la maggioranza almeno di coloro che ne facevano parte hanno saputo conservare il senso del limite e della misura ed hanno saputo resistere alla tentazione di cedere a desideri ardenti, che si aveva la possibilità di immediatamente soddisfare; che in altre parole hanno conosciuto e praticato l'arte di comandare a se stesso, più difficile di quella di comandare agli altri, che alla sua volta è più difficile di quella di obbedire [448]. Avviene quindi naturalmente una selezione per la quale tutti i casati nei quali fanno difetto le virtù accennate presto ricadono nell'oscurità e perdono il rango che avevano acquistato. Or è evidente che, perchè la selezione accennata abbia luogo, è necessario che la classe dirigente abbia una certa stabilità e che non venga perciò ad ogni generazione rinnovata; ed è forse questa necessità che spiega la grande persistenza della tendenza aristocratica e costituisce la sua migliore giustificazione.

Uno degli organismi più saldi e duraturi che ricordi la storia è senza dubbio la Chiesa cattolica, la quale ha sempre ammesso nelle file del clero individui provenienti da tutte le classi ed all'occorrenza ha saputo portare al posto più insigne della gerarchia ecclesiastica uomini provenienti dagli strati più umili della società, e si potrebbero facilmente citare in proposito i nomi dei Papi Gregorio VII, Sisto V e Pio X. Si sa che il celibato dei preti ha impedito che si formasse nella Chiesa una vera aristocrazia ereditaria, ma è pure notorio che parecchie furono nel passato le grandi famiglie che avevano quasi sempre uno dei loro membri nel Sacro Collegio, e che la maggioranza dei Papi e dei Cardinali provenivano nei secoli scorsi, e forse provengono ancora, dalla classe elevata e da quella media. Ed oggi forse una delle maggiori difficoltà con la quale il Cattolicesimo deve lottare sta nel fatto che la vecchia aristocrazia e l'alta e la media borghesia in molti paesi non danno più alle file del clero un numero sufficiente di adepti.

Or, se da questo esempio, e da altri analoghi che si potrebbero facilmente portare, si potesse trarre una regola, diremmo che la penetrazione degli elementi provenienti dalle classi più umili in quelle elevate riesce utile quando avviene in proporzione e con criteri tali che i nuovi venuti si assimilano presto le qualità migliori dei vecchi dominatori, e riesce dannosa quando questi vengono in certo modo assorbiti ed assimilati dai nuovi compagni. Perchè in questo caso l'aristocrazia non si rinsangua ma anche essa diventa plebe.

Una delle qualità più essenziali delle classi dirigenti è, o dovrebbe essere, la lealtà nei rapporti coi propri subordinati. Infatti la menzogna, schermo molto usato dall'inferiore verso il superiore, dal debole contro il forte, diventa doppiamente ripugnante e vile quando il forte l'usa a danno del debole. Essa toglie perciò a chi comanda ogni rispettabilità e lo rende spregevole di fronte al subordinato, e si può aggiungere che, appunto perchè gli uomini vi ricorrono troppo spesso, acquista un grande prestigio colui che se ne astiene. Or l'aborrimento dalla menzogna è una qualità che di solito si acquista in seguito ad una lunga ed accurata, e diremmo quasi tradizionale, educazione morale; ed è naturale perciò che si trovi a preferenza in quelle classi dirigenti nella formazione delle quali l'elemento ereditario ha una parte preponderante.

Altro requisito importantissimo, e diremmo quasi indispensabile dei ceti dirigenti, anche in tempi relativamente pacifici e mercantili, è il coraggio personale. Appunto perchè gli uomini ordinariamente scansano il pericolo e temono la morte, ammirano coloro che sanno all'occorrenza esporre intrepidamente la vita; perchè, quando non lo si fa per incoscienza o frivolezza, ciò richiede una gran forza di volontà ed un gran dominio sopra se stesso, che fra tutte le qualità morali è forse quella che più impone il rispetto e l'obbedienza. Perciò quando si farà una storia dettagliata della maniera come si formarono, vissero e decaddero molte classi dirigenti, si potrà constatare che quelle che avevano un'origine ed una tradizione militare sono state più salde ed in generale hanno durato più a lungo di quelle che avevano soltanto una base industriale e plutocratica [449]. Ed ancora oggi nell'Europa occidentale e centrale una delle migliori difese della classe dirigente consiste nel coraggio personale che gli ufficiali, i quali uscivano dal suo seno, hanno in generale dimostrato davanti i propri soldati.

È assurdo il pregiudizio che considera le classi dirigenti come economicamente improduttive, perchè esse, mantenendo l'ordine e tenendo unita la compagine sociale, creano le condizioni nelle quali il lavoro produttivo può meglio esplicare la sua azione, ed inoltre forniscono ordinariamente alla produzione il personale tecnico e direttivo. Però su questo riguardo sarebbe interessante di esaminare se una classe dirigente di origine recente si contenta nella ripartizione della ricchezza di una parte minore di quella che è sufficiente per una classe dirigente di antica data, nella quale perciò prevale la tendenza aristocratica. Ciò che in altri termini equivale a giudicare se la democrazia sia per una società più economica della aristocrazia [450].

Il giudizio è molto difficile e potrebbe assai variare secondo i tempi ed i popoli. Perciò ci limiteremo a far notare che in generale i grandi sogliono ostentare un lusso chiassoso a preferenza nelle nazioni barbare o in quelle di recente arricchite. E si sa che qualche cosa di simile avviene fra i singoli individui delle classi dirigenti, nelle quali coloro che più si distinguono per lo spreco insensato dei frutti del lavoro umano sono appunto quelli che più di recente sono arrivati ai fastigi della ricchezza e del potere.

Ciò premesso, non bisogna però dimenticare, che nella distribuzione della produzione economica fra le varie classi sociali è necessario che alla classe politicamente dirigente sia attribuita una parte sufficiente a far sì che essa possa dare ai propri figli una educazione lunga ed accurata, e quindi costosa, e che possa conservare un tenore di vita decoroso. Tale insomma che le permetta di non mostrarsi troppo attaccata ai piccoli guadagni ed ai piccoli risparmi, a quelle lesinerie che pur troppo, talora più di qualche cattiva azione, abbassano l'uomo agli occhi dei propri simili.

VII. — Platone nel suo dialogo sulle leggi, che già abbiamo ricordato e nel quale egli espose il pensiero della sua età matura, sostenne che la migliore forma di governo era quella nella quale l'autocrazia e la democrazia, che, come abbiamo già visto, erano per lui le due forme tipiche di regime politico, venivano fuse e contemperate [451]. Aristotile, nella sua immortale Politica, dopo avere obiettivamente descritto le sue tre forme fondamentali di governo, cioè la monarchia, l'aristocrazia e la democrazia, mostra la sua preferenza per un'aristocrazia temperata, e più ancora per una democrazia temperata, nella quale, non diciamo gli schiavi ed i metechi, ma neppure gli artigiani, avrebbero dovuto essere ammessi alle cariche pubbliche [452]. Quasi due secoli dopo Polibio giudicava ottima la costituzione politica di Roma perchè secondo lui in essa i tre tipi fondamentali della costituzione aristotelica trovavano contemporaneamente la loro applicazione [453]. Circa un secolo dopo Polibio presso a poco analogo era il concetto esposto da Cicerone nel suo libro sulla repubblica e, più di dodici secoli dopo Cicerone, quando la scienza politica accennava a rinascere, San Tommaso nella Summa dimostrava pure la sua preferenza per i governi misti [454]. Come si sa, Montesquieu si emancipava dalla classificazione aristotelica e divideva i governi in dispotici, monarchici e repubblicani, ma prediligeva la monarchia temperata, nella quale i tre poteri fondamentali, cioè il legislativo, l'esecutivo ed il giudiziario, erano affidati ad organi diversi indipendenti l'uno dall'altro, e quindi si accostava anche egli al concetto di un equilibrio, necessario fra le diverse forze ed influenze politiche [455]. E finalmente ricorderemo che anche Cavour in politica si dichiarava partigiano del juste milieu, del giusto mezzo, che equivale in fondo ad equilibrio e contemperanza fra le diverse forze o correnti politiche [456].

Sembra perciò che tutti questi grandi pensatori abbiano avuto una intuizione comune: cioè che la saldezza delle istituzioni politiche dipenda da una opportuna fusione o contemperanza di principî e tendenze diverse, ma costanti, che agiscono immancabilmente in tutti gli organismi politici. E crediamo per ora prematuro formulare una legge, ma ci pare che si possa senz'altro avanzare l'ipotesi, che la stabilità degli Stati e la rarefazione di quelle crisi politiche violente, che, come avvenne alla caduta dell'impero romano, e come avviene oggi in Russia, procacciano a tanta parte dell'umanità sofferenze inenarrabili, ed interrompono, alle volte per lunghi secoli, il progredire della civiltà, provengano principalmente dalla prevalenza quasi assoluta di uno dei due principî o di una delle due tendenze che abbiamo testè esaminato. Questa ipotesi, che potrebbe già essere corredata di un numero considerevole di esperienze storiche, si appoggia sopratutto sul fatto che solo l'opposizione, e diremmo quasi la concorrenza, del principio o della tendenza contraria, può impedire l'accentuazione dei vizi congeniti a ciascuno di essi od a ciascuna di esse, vizi che abbiamo tentato di rapidamente descrivere.

Questa conclusione corrisponderebbe presso a poco all'antica dottrina del giusto mezzo che trovava ottimi i governi misti, dottrina che verrebbe rinnovata in base ad una conoscenza più esatta e profonda delle leggi naturali che agiscono sulle organizzazioni politiche. Rimarrebbe però sempre la difficoltà di trovare dove sia il giusto mezzo, il quale è un punto assai difficile a precisare, sicchè ognuno facilmente lo può porre là dove meglio conviene alle sue passioni ed ai suoi interessi.

Dopo averci molto pensato non troviamo in proposito che un solo metodo pratico da suggerire alle persone di buona volontà, le quali hanno la mira esclusiva del bene e della prosperità generale, indipendentemente da qualsiasi interesse personale e da qualsiasi preconcetto sistematico; e questo metodo consiste nell'osservare, per dir così, le vicende atmosferiche dei tempi e dei popoli, fra i quali e nei quali si vive.

Quando, per esempio, regna una calma glaciale, nella quale non spira alito di discussione politica, ovvero quando quasi tutti inneggiano a qualche grande personalità che ha restaurato l'ordine e la pace, allora si può star sicuri che troppo prevale il principio autocratico su quello liberale; ed il contrario accade quando quasi tutti maledicono i tiranni e propugnano la libertà. Similmente quando romanzieri e poeti vantano le glorie delle grandi famiglie ed imprecano contro il volgo profano, si può sicuramente ritenere che soverchia è la prevalenza della tendenza aristocratica; e finalmente quando spira un vento furioso di uguaglianza sociale e tutti si dichiarano teneri degli interessi degli umili, è evidente che la tendenza democratica è in forte rialzo e quindi assai pericolosa. In fondo non si tratta che di seguire la regola contraria a quella adottata, consciamente od inconsciamente, dagli arrivisti di tutti i tempi e di tutti i paesi; e ciò facendo, quel piccolo nucleo di intelletti saldi e di anime elette, che in ogni generazione impediscono all'umanità di intieramente corrompersi, potranno alle volte rendere un grande servizio ai loro contemporanei e sopratutto ai figli dei loro contemporanei. Perchè nella vita politica gli errori di una generazione sono quasi sempre scontati da quella susseguente.

 


 

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CAPITOLO V.
Schiarimenti e Polemiche.

I. Rapporti fra il valore intellettuale e morale dei capi degli Stati e quello della classe politica. — II. Rapporti fra il valore intellettuale e morale della classe politica e quello dei governati. — III. Confutazione del materialismo storico. — IV. Se sia possibile il governo dei migliori e quali siano politicamente i migliori. — V. La giustizia assoluta e la giustizia relativa nelle organizzazioni politiche. — VI. Se i progressi della scienza politica potranno in avvenire evitare le grandi crisi sociali.

I. — È innegabile che vi debba essere uno stretto rapporto fra il valore intellettuale e morale di tutto il secondo e maggiore strato della classe dirigente e quello di colui che effettivamente sta a capo di tutta l'organizzazione politica e del piccolo gruppo di persone che direttamente lo coadiuvano. Giacchè gli uomini che occupano i posti più elevati devono necessariamente essere più o meno imbevuti delle idee, dei sentimenti, delle passioni, e perciò del modo di vedere, degli strati sociali che vengono immediatamente dopo di loro, con i quali strati sono in continuo ed immediato contatto e senza l'aiuto dei quali non potrebbero governare.

Ma, così complicata è la storia delle società umane e così diversi sono i fattori materiali, morali ed intellettuali i quali contribuiscono a determinarne lo svolgimento, che non è stato e non è raro il caso di classi politiche, che avevano la capacità di una salda organizzazione ed erano ancora abbastanza ricche di elementi energici e devoti al pubblico bene, le quali hanno avuto od hanno alla loro testa, anche in momenti difficili, duci mediocrissimi e qualche volta corrotti, e che perciò, in altre parole, hanno dovuto sopportare o sopportano il rex fatuus di cui parla la Bibbia, come di uno dei flagelli dei quali Dio si serve per castigare i popoli.

Per spiegare questo fatto si possono addurre molte ragioni e principalmente questa che una classe politica nella scelta dei suoi duci supremi è in certo modo prigioniera delle idee e dei criteri che in proposito essa ha adottato; idee e criteri che sono un risultato della sua storia e del grado di maturità intellettuale alla quale essa è pervenuta, e che perciò non si possono da un giorno all'altro mutare. Tali sarebbero, ad esempio, il criterio ereditario ed anche quello elettivo, quando i meccanismi elettorali si cristallizzano e diventano uno strumento comodo in mano di piccole cricche di politicanti, che se ne servono per arrivare al potere e per restarvi il più lungamente possibile.

Ciò premesso, si deve però constatare che, quando una civiltà od una nazione hanno avuto una classe dirigente vitale ed energica, il danno prodotto dalla fatuità, ed anche dalla malvagità dei suoi duci supremi, è stato assai minore di quanto si potrebbe aspettare. Difatti, malgrado che qualche storico abbia tentato di riabilitarli, crediamo che si possa sicuramente ammettere che Caligola, forse anche Claudio, e certamente Nerone, non erano per le loro qualità personali uomini adatti a stare a capo di un organismo politico così importante come l'impero romano. Eppure si sa che, se della loro stravaganza e nequizia e di quella degli uomini che erano i loro immediati strumenti ebbero molto a soffrire le grandi famiglie romane, che stavano a contatto diretto con l'imperatore, viceversa il resto del mondo, durante il loro governo, continuò a godere della pace romana e ad assorbire quella cultura che un'amministrazione relativamente saggia ed ordinata sapeva diffondere per tutte le provincie. Come pure è notorio che Giorgio III d'Inghilterra fu uomo di poco ingegno, testardo ed afflitto inoltre da frequenti accessi di vera follia e che, ciò non ostante e malgrado che l'influenza funesta della regale volontà siasi alle volte fatta sentire in modo pernicioso per la cosa pubblica, durante il suo lunghissimo regno la Gran Bretagna conquistò l'India ed il Canada, vinse Napoleone, gettò le basi salde del suo impero mondiale e diventò la padrona assoluta dei mari [457].

E se vogliamo poi approfondire di più l'argomento, facilmente possiamo constatare che l'opera più duratura ed efficace di tutti i grandi capi di stato, le cui gesta sono ricordate dalla storia, consistette in una felice trasformazione della classe politica della quale resero migliore il reclutamento e perfezionarono gli ordinamenti; con questa riserva che alle volte l'opera accennata era stata iniziata e condotta a buon punto dai loro immediati predecessori.

Infatti gli storici hanno molto disputato, e forse ancora molto disputeranno, sulle vere intenzioni di Augusto, ma tutti concordano nel riconoscere che egli compì la trasformazione della antica organizzazione repubblicana in un'altra più adatta ai bisogni dei tempi e che rinsanguò la vecchia classe politica romana, decimata da quasi un secolo di guerre civili, introducendovi molti elementi nuovi; concetto che poi fu ripreso e completato da Vespasiano, il quale fece entrare in Senato i rappresentanti di molte fra le più illustri famiglie italiche. Si sa che in Francia la formazione dello Stato assoluto burocratico fu il principale risultato dell'opera costante ed assidua di Richelieu, Mazarino e Luigi XIV e dei suoi ministri Louvois e Colbert; i quali tutti seppero a poco a poco creare un'amministrazione salda ed efficace, una finanza corrispondente ai nuovi bisogni dello Stato ed un forte esercito stanziale. Analogamente nell'Europa orientale la trasformazione dell'antica e debole Moscovia in quell'impero degli Czar, che tanto pesò sui destini dell'Europa e dell'Asia, avvenne mediante le successive riorganizzazioni della classe politica dovute agli sforzi di Ivano IV il terribile, di Pietro il Grande e di Caterina II [458]. Ed infine non bisogna dimenticare che Alessandro Magno non avrebbe potuto conquistare la Persia e diffondere la cultura ellenica per tanta parte del mondo asiatico se suo padre Filippo non avesse riorganizzato di sana pianta la Macedonia e non avesse saputo creare l'esercito macedone [459]. Ed una analoga riflessione si potrebbe fare a proposito di Federico il Grande di Prussia e del suo immediato predecessore.

E se dopo la prova vogliamo fare la controprova, facilmente possiamo constatare che, quando il caso o la disperazione hanno fatto sì che un uomo superiore arrivasse a capo di un organismo politico in completa dissoluzione, i suoi sforzi sono stati quasi sempre impotenti a salvare lo Stato od a ritardarne notevolmente la fine. L'infelice imperatore Magioriano, di cui tutti gli storici lodano concordemente l'energia, l'alto intelletto e le ottime intenzioni, non riuscì a ritardare forse neppure di un anno la caduta dell'Impero romano d'occidente [460]. L'impero di Bisanzio potè essere rinvigorito dalla dinastia isaurica nell'ottavo secolo e potè acquistare nuova vitalità nel nono e decimo secolo sotto la dinastia macedone poichè le sue classi dirigenti conservavano ancora, nelle epoche accennate, notevoli riserve di forza intellettuale e di patriottismo e le popolazioni potevano ancora fornire larghe entrate all'erario e numerosi soldati. Ma, alla fine del secolo decimoquarto, la civiltà bizantina era così esaurita che i cronisti contemporanei poterono scrivere che l'imperatore Manuele IV avrebbe salvato l'impero se questo avesse potuto ancora essere salvato; ed è noto poi come, qualche generazione dopo, la condotta energica e la morte eroica dell'ultimo imperatore Costantino Dragases non abbia ritardato che di poche settimane la caduta della capitale e la fine dello Stato [461].

II. – Senonchè, molti, che crederanno forse facilmente che vi possa essere un rapporto abbastanza stretto fra le qualità morali ed intellettuali del capo supremo di uno Stato e del gruppo dei suoi immediati coadiutori e quello dell'intiera classe politica, sarebbero molto restii ad ammettere l'esistenza di un identico rapporto fra l'intiera classe politica e la grande massa dei governati. Mentre noi opiniamo al contrario che questo secondo rapporto sia più sicuro e costante del primo; perchè molti elementi occasionali, che agiscono solo in dati momenti, quali sarebbero la prevalenza di alcune dottrine politiche, la volontà dei pochi uomini che già occupano le cariche supreme e quelli che si chiamano i casi fortuiti, perchè imprevedibili, e fra questi si potrebbe mettere anche la nascita, hanno un'azione assai più efficace quando si tratta di determinare la scelta di coloro che arriveranno ai primissimi posti anzichè nello stabilire i criteri in base ai quali si esplica quella grande e continua selezione da cui viene fuori tutta la classe dirigente.

Nei tempi nei quali abbiamo vissuto ci è capitato spesso di sentire affermare che il popolo è naturalmente buono e virtuoso e che la classe dirigente è viziosa e corrotta, e non diciamo che questa affermazione non possa avere talvolta una qualche parvenza di verità. Ma coloro che la fanno quasi sempre non tengono conto che è facile di conservare certe virtù quando è materialmente impossibile di acquistare certi vizi, che ad esempio la prepotenza non può essere praticata dai deboli e che il lusso, lo spreco insensato ed il soverchio amore dei godimenti sono inaccessibili ai poveri. Volendo fare quindi un paragone esatto fra il senso morale di due classi sociali diverse, sarebbe necessario di osservare i costumi e le tendenze di coloro che dalla classe più bassa riescono ad innalzarsi e ad entrare in quella più alta, e solo se essi ed i loro figli fossero realmente migliori dei loro nuovi compagni di classe si potrebbe con qualche sicurezza proclamare la superiorità morale della classe diretta rispetto a quella dirigente. Non sembra che un'indagine di questo genere dia in generale risultati favorevoli per i nuovi arrivati.

Si potrà obiettare che fra le classi dirette solo i peggiori riescono a farsi avanti e ad entrare nelle classi dirigenti; ma l'obiezione ci sembra fondata sopra una concezione incompleta e confusa, e quindi inesatta, dei criteri secondo i quali è regolata la lotta per la preminenza sociale, criteri nei quali bisogna rintracciare la causa prima del "per che una gente impera ed altra langue". Senza dubbio vi sono alcune qualità che in tutti i tempi ed in tutti i luoghi devono esser possedute da coloro che dal basso riescono a salire in alto, qualità che anche i loro discendenti devono fino ad un certo punto conservare, se non vogliono ricadere nella condizione dei loro padri o dei loro antenati, e tali sarebbero la capacità di lavoro e la costante volontà di innalzarsi e di restare in alto; ma ve ne sono altre variabili assai secondo i tempi ed i luoghi e che rispondono appunto ai bisogni ed alla natura delle varie epoche ed alle tendenze dei vari popoli. Ed in generale si può dire che in ogni società il successo, a parità di circostanze, è a preferenza riservato a quegli individui che posseggono in modo eminente le doti che in quella società sono più comuni, e quindi più apprezzate.

Infatti è evidente che per riconoscere ed apprezzare il valore di una qualità intellettuale o morale nei nostri simili bisogna in qualche modo possederla: è questa una regola che crediamo di potere enunciare basandoci sull'esperienza della vita, e di cui ognuno, guardandosi attorno, può constatare la verità. Si sa che per sentire il fascino di un grande artista bisogna fino ad un certo punto possedere il senso dell'arte, e nello stesso modo per ammirare sinceramente un gran coraggio od una grande rettitudine bisogna essere coraggiosi e retti; poichè non è possibile di comprendere le qualità più nobili dell'intelligenza e del carattere umano se esse sono totalmente estranee alla nostra natura. Viceversa, dove la furberia, l'intrigo e la ciarlataneria sono molto comuni e pregiate, i più furbi, i più intriganti ed i più ciarlatani, a parità di condizioni, faranno fortuna; dove la maggioranza crede che l'inganno sia la via migliore per raggiungere il successo, lo conseguiranno preferibilmente coloro che raggiungeranno l'eccellenza nell'arte dell'ingannare.

Naturalmente in tutti i paesi ed in tutti i tempi l'uomo che vuole farsi avanti dove avere un certo grado di quella che comunemente si chiama abilità; cioè deve possedere l'attitudine a far valere le proprie doti e ad imporsi all'attenzione, e qualche volta all'ammirazione, dei propri simili, rendendoli persuasi della propria superiorità [462]. Ma il genere di abilità necessario alla riuscita varia molto secondo i tempi ed i luoghi. Si sa che vi è la magia bianca e quella nera, la prima basata sulle qualità superiori dell'ingegno e del carattere, la seconda sulle inferiori. Forse in nessun paese ed in nessun luogo la magia bianca è riuscita e riesce veramente efficace se non è mescolata ad un poco di quella nera, o quanto meno all'arte di mettere in mostra i lati migliori del proprio carattere e della propria intelligenza, tenendo nella penombra quelli peggiori; ma le dosi della mescolanza possono variare assai da una nazione ad un'altra e nella stessa nazione secondo le epoche. Variano perchè generalmente quando, in un dato ambiente sociale, la quantità di magia nera è soverchia, il gusto del pubblico non la tollera, e l'individuo che di questa mescolanza fa uso resta squalificato, come succede al giocatore che bara. Ora riesce evidente che, in un ambiente di gusto più raffinato, si faranno avanti a preferenza coloro che meglio sanno e possono usare le arti della magia bianca, mentre precisamente il contrario accadrà in quegli altri nei quali più comuni, e quindi più tollerate, sono quelle della magia nera.

Studiando la storia dei popoli noi possiamo facilmente constatare che ve ne sono stati e ve ne sono di quelli che hanno lungamente subito e subiscono la dominazione straniera, o che sono stati lungamente governati da aristocrazie di origine straniera. Tale è stato, ad esempio, il caso dell'Egitto dopo la dominazione persiana, dell'India, dopo le prime invasioni maomettane, avvenute verso il mille dell'era volgare, e fino ad un certo punto della Russia [463]; nella quale la formazione del primo impero si dovette ad un gruppo di avventurieri scandinavi e dove, dopo Ivano IV e sopra tutto dopo Pietro il Grande, elementi stranieri entrarono in gran numero nella sua classe dirigente.

Ed alle volte è avvenuto che, fino a quando la classe dominatrice di origine straniera si è mantenuta abbastanza pura, lo Stato ha conservato la sua forza ed il paese la sua prosperità; ma poi, a misura che la detta classe si andava fondendo e confondendo con gli elementi indigeni, la compagine politica si è indebolita o la nazione è ricaduta nell'anarchia od in un'altra dominazione straniera.

Or questi fatti, quando si sono costantemente ripetuti ed hanno durato per lungo volgere di secoli, dimostrano che l'elemento indigeno di quelle nazioni nelle quali sono accaduti non possedeva le attitudini, le virtù necessarie a cavare dal proprio seno una classe dirigente degna di dirigere e che, se in origine queste virtù aveva posseduto, come fu il caso dell'Egitto e dell'India, le aveva in seguito perdute. Abbiamo già detto quanto il comandare sia più difficile dell'obbedire e, quando un popolo od una razza non possiedono elementi atti al comando, o quando questi elementi intisichiscono e non possono svilupparsi, perchè soffocati dalla generale mediocrità intellettuale e morale, allora questo popolo o questa razza sono destinati ad obbedire agli stranieri, o ad elementi dirigenti di origine straniera.

Questa ultima osservazione, insieme a quelle che già abbiamo fatto in questo e nel precedente capitolo, permettono di fare meglio rilevare la grande importanza pratica che è destinata ad assumere la nuova dottrina, la quale mira a concentrare gli sforzi degli studiosi nell'indagine relativa alla formazione ed organizzazione delle varie classi politiche.

Infatti le antiche e viete classificazioni di Aristotile e di Montesquieu mettevano in fondo un'etichetta comune a vasi il cui contenuto era quanto mai disparato; per la prima, ad esempio, potevano senz'altro essere classificate come democrazie quella di Atene e quella che attualmente è in vigore nella Svizzera o negli Stati Uniti d'America; e per la seconda potevano essere messe fra le repubbliche quella di Roma antica e quella di Venezia, o anche quelle dell'Argentina e del Brasile. Mentre la nuova dottrina non ha saputo ancora trovare delle etichette ma costringe a studiare il contenuto dei vasi, ad indagare ed analizzare i criteri che prevalgono nella formazione di quelle classi dirigenti dalle quali dipende, come si è visto, la forza o la debolezza degli Stati, e nelle quali si può sempre trovare l'immagine fedele delle virtù e delle manchevolezze politiche di ogni popolo e di ogni razza. Il nuovo metodo è certamente più difficile e richiede sopratutto uno spirito di osservazione, una esperienza della vita politica ed una cultura storica infinitamente superiori a quelle che potevano bastare coi metodi antichi; ma esso è indiscutibilmente più positivo, e può condurre, se usato con discrezione e con la dovuta preparazione, a risultati più sicuri; e finalmente è più corrispondente a quel grado di maturità intellettuale che gli elementi più colti della presente generazione hanno già quasi raggiunto.

III. – Ma anche il nuovo metodo potrà dare tutti i suoi frutti solo quando saranno distrutti certi preconcetti che rappresentano i residui della mentalità dei secoli decimottavo e decimonono, preconcetti i quali impediscono che esso sia efficacemente applicato allo studio dei fatti politici o che almeno ne ostacolano e conturbano l'applicazione. Abbiamo già ricordato nella prima parte di questo lavoro che il disimparare è cosa assai più difficile dell'imparare; aggiungeremo ora che il maggiore ostacolo alla prevalenza di un'idea o di un metodo più conformi alla verità si riscontra quando l'intelletto umano è già abituato ad un'altra idea o ad un altro metodo meno perfetti, che lo ingombrano e impediscono che in esso concetti nuovi possano agevolmente penetrare.

Or precisamente uno dei sistemi d'idee oggi molto diffusi e che rendono difficile la retta visione del mondo politico è quello che viene comunemente chiamato materialismo storico, il quale non è soltanto un articolo di fede per i moltissimi seguaci del Marxismo, ma ha eziandio più o meno influenzato molti di coloro che alle dottrine marxistiche completamente non aderiscono. Ed il pericolo maggiore della diffusione del cennato sistema e della grande influenza intellettuale e morale che esercita consiste nella piccola parte di verità che esso contiene; perchè nella scienza, come in generale nella vita, le bugie più pericolose sono quelle mescolate con una certa dose di verità, che serve a meglio mascherarle ed a colorirlo in modo da renderle facilmente credibili. Sicchè, sebbene tanto nella prima che nella seconda parte di questo lavoro, non manchino molti accenni diretti ed indiretti alla fallacia della detta dottrina, crediamo indispensabile di tornare di proposito sull'argomento.

Il materialismo storico si può riassumere in due proposizioni che ne costituiscono, per dir così, gli assiomi fondamentali, sui quali si basa la dimostrazione di tutti i teoremi che ne derivano.

Secondo il primo assioma, tutta l'organizzazione politica, giuridica e religiosa di una società sarebbe costantemente subordinata al tipo prevalente di produzione economica ed alla natura dei rapporti che esso crea fra i detentori dei mezzi di produzione ed i lavoratori manuali. Perciò, cambiando il sistema di produzione economica, dovrebbero necessariamente cambiare la forma di Governo, la legislazione che regola i rapporti fra gli individui e fra questi e lo Stato e finalmente anche quelle concezioni religiose e politiche che forniscono la base morale all'organizzazione dello Stato; come sarebbero, ad esempio, il concetto del diritto divino dei Re o quello della sovranità popolare. Il fattore economico sarebbe quindi la causa unica ed esclusiva di tutti i mutamenti materiali, intellettuali e morali che avvengono nelle società umane e tutti gli altri fattori non sarebbero tali, ma dovrebbero essere considerati come semplici effetti e conseguenze di esso.

Il secondo assioma, che sarebbe in certo modo un postulato del primo, afferma che ogni epoca economica racchiude i germi i quali, mano mano maturandosi, rendono necessario l'avvento di quella successiva con la conseguente trasformazione di tutta l'impalcatura politica, religiosa e legislativa della società. Perciò, durante la presente epoca borghese, sopratutto mediante l'accentramento progressivo della ricchezza in pochissime mani, si andrebbero preparando quelle condizioni economiche e sociali, che quanto prima dovrebbero rendere inevitabile e fatale il collettivismo. Quando poi si sarà arrivati a quest'ultima fase dell'evoluzione storica, sparirà per sempre ogni disuguaglianza fondata sulle istituzioni sociali, sarà reso impossibile il predominio e lo sfruttamento esercitato da una classe a danno delle altre e verrà inaugurato un nuovo sistema basato, non già sull'egoismo individuale, ma sulla fratellanza universale [464].

Ora riguardo al primo assioma faremo anzitutto osservare che si potrebbero addurre moltissimi esempi storici per dimostrare che nelle società umane sono avvenuti cambiamenti importantissimi, i quali ne hanno mutato radicalmente gli ordinamenti politici, ed alle volte anche le concezioni fondamentali sui quali questi ordinamenti erano fondati, senza che vi sia stata una contemporanea, o quasi contemporanea, modificazione nei sistemi di produzione economica e nei rapporti fra i detentori degli strumenti di produzione ed i lavoratori. La repubblica romana, ad es., si trasformò nell'impero di Augusto e dei suoi successori, e perciò lo Stato città classico diventò un organismo politico a base burocratica, senza che i sistemi di produzione si fossero minimamente modificati e senza che le leggi che regolavano la proprietà e la distribuzione della ricchezza si fossero alterate. Il solo cambiamento che avvenne, e che non fu certamente generale, fu quello delle persone dei proprietari, perchè, sopratutto dopo la seconda guerra civile, molti beni dei privati furono confiscati e distribuiti ai soldati dei triumviri [465]. Il trionfo del Cristianesimo apportò nel mondo antico un grande rivolgimento intellettuale e morale; molte idee fondamentali, molti sentimenti, e per conseguenza molte istituzioni, e basterebbe in proposito ricordare il matrimonio ed altri rapporti di famiglia, furono dalla nuova religione modificati; ma non consta, anzi si può escludere, che lo stesso sia avvenuto nel quarto e quinto secolo dell'era volgare nei rapporti fra coloro che possedevano gli strumenti della produzione economica, dei quali principalissimo era allora a terra, ed i lavoratori manuali.

È difficile citare un rivolgimento di tutta una società paragonabile per la sua importanza alla caduta dell'impero romano di occidente, all'inabissarsi della splendida civiltà antica in tanta parte d'Europa [466]; eppure noi vediamo che il sistema di produzione economica restò identico prima e dopo le invasioni dei barbari; giacchè oggi è notorio che il colonato, e quindi la servitù della gleba, non trassero origine dalle invasioni barbariche, ma erano già istituzioni generalizzate nel Basso Impero. Si potrebbe invero citare come uno dei coefficienti della caduta dell'impero d'Occidente l'esaurimento economico della società di quell'epoca, dovuto alla diminuzione della produzione e quindi della ricchezza; ma, esaminando attentamente il fenomeno, si vede che il generale impoverimento fu piuttosto un effetto anzichè una causa della decadenza politica, perchè esso fu in gran parte dovuto alla cattiva amministrazione finanziaria [467].

E, se dall'antichità veniamo a tempi meno remoti, vediamo in Italia, verso la fine del secolo decimoterzo e durante il secolo decimoquarto, i Comuni trasformarsi generalmente in Signorie senza che i sistemi di produzione, e quindi i rapporti fra i lavoratori ed i detentori delle terre e dei capitali si fossero sensibilmente modificati. Analogamente vediamo in Francia costituirsi lo Stato moderno assoluto e cominciare a formarsi il medio ceto, durante il secolo decimosettimo, senza che fosse contemporaneamente avvenuta nessuna importante modificazione nei sistemi di produzione e nei rapporti economici che ne derivano; perchè la servitù della gleba era in quell'epoca quasi dappertutto scomparsa e non ne restavano che quelle poche traccie, che durarono fino alla grande rivoluzione francese.

Nè si deve credere che vi sia un perfetto sincronismo fra il sorgere della grande industria moderna e l'adozione del sistema di governo rappresentativo, con la conseguente diffusione delle idee liberali, democratiche ed anche socialiste. Infatti in Inghilterra gli inizi della grande industria si ebbero nella seconda metà del secolo decimottavo, quando il governo parlamentare funzionava già da circa mezzo secolo, ma la classe dirigente conservava ancora le sue antiche basi aristocratiche. In Francia, in Germania, negli Stati Uniti d'America ed in tutto l'occidente d'Europa, lo sviluppo della grande industria ed il grande accentramento di capitali e di operai, che ne è la conseguenza, ebbe luogo in generale dopo il 1830; perchè allora soltanto cominciò ad essere diffusa l'applicazione del vapore alle navi ed ai trasporti terrestri ed il carbon fossile acquistò un'importanza capitale come fattore materiale della produzione. Tutto quello che in proposito si può concedere è che la grande fabbrica, con le grandi agglomerazioni di lavoratori manuali che essa ha reso necessarie, ha contribuito fortemente allo sviluppo ed alla popolarizzazione delle idee comuniste, che erano state già precedentemente enunciate e che sono in fondo il corollario naturale di quelle democratiche, già formulate da Rousseau [468].

Con ciò non si vuole negare che il sistema prevalente di produzione economica, coi particolari rapporti che esso determina fra coloro che la produzione dirigono e che ne posseggono gli strumenti ed i loro coadiutori, non sia uno dei fattori che maggiormente influiscono nel modificare gli ordinamenti politici di una società e che questo fattore non abbia il suo necessario contraccolpo anche nelle concezioni che servono di fondamento morale agli ordinamenti accennati. L'errore del materialismo storico sta nel credere che il fattore economico sia l'unico degno di essere considerato come causa e che tutti gli altri debbono essere riguardati come suoi effetti; mentre ogni grande esplicazione dell'umana attività nel campo sociale è nello stesso tempo causa ed effetto dei mutamenti che avvengono nelle altre: causa, perchè ogni sua modificazione influisce sulle altre; ed effetto, perchè sente l'influenza delle loro modificazioni [469].

Nessuno ha mai affermato, e speriamo che nessuno mai affermerà, che le mutazioni che avvengono negli ordinamenti politici abbiano come causa unica quelle che il cambiamento delle armi, della tattica e dei sistemi di reclutamento hanno già introdotto negli ordinamenti militari. Eppure abbiamo già ricordato, nel corso del presente lavoro, quali effetti politici abbia avuto nella città greca la sostituzione degli opliti, come arma decisiva, agli antichi carri da guerra ed alla cavalleria e come la vittoria definitiva della regalità sulla feudalità, vittoria che ebbe luogo nel periodo che corre fra la metà del secolo decimoquinto e la metà del decimosettimo, sia stata in gran parte dovuta all'introduzione ed al perfezionamento continuo delle armi da fuoco [470]. Aggiungeremo ora che un esame attento della storia dell'ultimo secolo della Repubblica romana potrebbe mettere in luce gli effetti politici della modificazione introdotta nel reclutamento delle legioni da Caio Mario, il quale arruolò anche i nullatenenti ed i figli dei liberti, che prima, tranne in momenti eccezionalissimi, come ad esempio verso la fine della seconda guerra punica, erano esclusi dal servizio militare [471]. E, quando si potrà con mente serena fare la storia del secolo decimonono e del ventesimo, facilmente si potranno mettere in evidenza gli effetti politici del servizio militare obbligatoriamente esteso a tutti i cittadini, che, introdotto già dalla rivoluzione francese, venne poi adottato e perfezionato prima dalla Prussia e poi dagli altri Stati del continente europeo.

E diremo pure che ci sembra assurdo di annoverare fra i semplici effetti, senza dar loro mai la dignità di causa, quelle dottrine politiche e quelle credenze religiose, che forniscono agli organismi statali la base morale e che, penetrando profondamente nella coscienza delle classi dirigenti e delle masse, legittimano e disciplinano il comando e giustificano l'obbedienza e creano quegli speciali ambienti intellettuali e morali, che tanto contribuiscono a determinare i fatti storici ed a dirigere perciò il corso degli avvenimenti umani. Senza il Cristianesimo e la forza che esso acquistò nella coscienza delle masse e delle classi dirigenti e senza il tenace ricordo dell'unità che il mondo civile avea conseguito sotto Roma, non si spiegherebbe la lotta secolare fra il Papato e l'Impero, che fu uno degli avvenimenti principali della storia medioevale. Come senza Maometto ed il Corano non sarebbe sorto il grande Stato musulmano, che tanta parte ha avuto ed ha ancora nella storia del mondo e che, dove ha potuto impiantarsi e durare, ha introdotto uno speciale tipo di civiltà. E, se noi non avessimo ereditato dai nostri lontani antenati Greci e Latini la concezione della libertà politica e la dottrina della sovranità popolare, che fu poi adattata ai tempi nuovi e modificata da Rousseau e dagli altri scrittori politici del secolo decimottavo, non sarebbe sorto lo Stato rappresentativo moderno e l'organizzazione politica europea del secolo decimonono non si sarebbe così profondamente differenziata da quella del secolo decimottavo [472].

Ed è inutile discutere se le forze morali hanno preponderato su quelle materiali più di quanto queste abbiano messo al loro servizio quelle morali. Come crediamo di avere già dimostrato nella prima parte di questo lavoro, ogni forza morale cerca, appena può, d'integrarsi creando a suo vantaggio una base d'interessi costituiti, ed ogni forza materiale procura di giustificarsi appoggiandosi a qualche concezione d'ordine intellettuale e morale [473].

In India le popolazioni di razza ariana aveano certo da parecchi secoli sottomesso e relegato negli strati inferiori della società gli indigeni di razza dravidica quando gli scrittori dei Vedas insegnarono che i Bramini uscirono dalla testa di Brama, i Ksiatria dalle braccia e le caste inferiori, ossia i Vaisia ed i Sudra, dalle gambe e dai piedi del Dio. Il Cristianesimo nacque come forza puramente intellettuale e morale, eppure, appena fu molto diffuso, si tramutò in forza anche materiale; acquistò ricchezze, seppe premere sui pubblici poteri ed infine i suoi vescovi ed i suoi abati divennero anche sovrani. Nel Maomettismo la concezione religiosa si integrò subito coll'esercizio del potere sovrano, ma, senza la conversione disinteressata e sincera dei suoi primi seguaci, ciò non sarebbe stato possibile. Infine anche il moderno socialismo nacque come pura forza intellettuale e morale, ma oggi, dove può e quanto può, cerca di creare tutta una rete d'interessi materiali, la quale serve mirabilmente a mantenere fedeli i gregari ed a rimunerare la classe dirigente che in esso si è costituita. E d'altra parte oggi anche le influenze puramente materiali della plutocrazia cercano di mascherarsi, sovvenendo largamente giornali di tinta spiccatamente democratica, influendo sui comitati elettorali, chinando la cervice al battesimo della sovranità popolare e mandando spesso nei Parlamenti i propri rappresentanti a sedere fra le file dei partiti più avanzati.

La verità è dunque che i grandi fattori della storia umana sono così complessi ed intrecciati fra di loro che qualunque dottrina semplicista, che voglia determinare quale sia fra essi il principale, quello che non è mosso giammai ma muove sempre gli altri, conduce necessariamente a conclusioni e ad applicazioni errate; specialmente quando essa intende spiegare, seguendo il metodo cennato e guardandoli da un solo punto di vista, tutto il passato ed il presente dell'umanità. E peggio ancora accade quando, seguendo lo stesso sistema, se ne vuole predire il futuro.

Dovremmo ora occuparci del secondo degli assiomi sui quali si fonda il materialismo storico, ma, come abbiamo già accennato, esso può essere considerato come una conseguenza del primo e quindi perde ogni importanza quando questo è distrutto. Ad ogni modo faremo rilevare come l'affermazione generica che ogni epoca storica contiene i germi, i quali poi sviluppandosi la trasformeranno in quella immediatamente successiva, equivale ad enunciare una verità così evidente e di tanto facile percezione per coloro che hanno una certa pratica della storia da potere essere considerata quasi come un luogo comune; e ricorderemo incidentalmente che alla regola accennata abbiamo già parecchie volte dovuto fare allusione nel corso del presente lavoro. Senonchè per il Marx questi germi sarebbero soltanto quelli d'indole economica, mentre noi crediamo di aver dimostrato che sono molto più numerosi e complessi.

E questa limitata visione del fenomeno sarebbe già sufficiente a far respingere l'affermazione, che è uno dei capisaldi della dottrina marxista, secondo la quale la presente epoca borghese starebbe maturando, o secondo altri avrebbe già maturato, quei germi che renderanno inevitabile l'avvento del collettivismo. Ma, anche astraendo da questa considerazione, è noto che omai la statistica ha dimostrato che quella concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione in pochissime mani, che avrebbe dovuto preludere alla loro collettivizzazione ed avrebbe reso facile all'infinita falange dei proletari l'espropriazione dei pochissimi proprietari, non era prima della grande guerra avvenuta e neppure era incamminata verso una sua prossima attuazione [474]. E, se la guerra ha recentemente dappertutto più o meno peggiorato la condizione delle classi medie, ciò è dovuto ad altre cause non preannunziate nè previste dal materialismo storico; ed anche oggi se la compagine dello Stato borghese è stata in qualche paese distrutta, ed in altri si dimostra molto scossa, ciò non avviene per la concentrazione della ricchezza in pochissime mani, ma per ben altre ragioni alle quali avevamo già accennato nella prima parte di questo lavoro e sulle quali dovremo ancora tornare nel capitolo seguente.

Assolutamente fantastica poi ci sembra la conclusione del secondo assioma e di tutta la dottrina del materialismo storico: cioè che, una volta attuato il collettivismo, esso sarà l'inizio di un'era di uguaglianza e di giustizia universale, durante la quale lo Stato non sarà più l'organo di una classe e quindi non ci saranno più sfruttati e sfruttatori. Non ci attarderemo a confutare ancora una volta questa vera utopia, perchè, insieme a tanti altri scrittori, anche noi l'abbiamo già confutato durante tutto il presente lavoro. Ricorderemo soltanto che essa è la conseguenza naturale e necessaria di quella concezione ottimistica della natura umana che, nata nel secolo decimottavo, non ha ancora compiuto, ma è forse prossima a compiere, il suo ciclo storico. Concezione in base alla quale l'uomo nasce buono e la società, o meglio le istituzioni sociali, lo renderebbero malvagio; sicchè, cambiando queste, la stirpe di Adamo, come liberata da una ferrea compressione, avrebbe potuto esplicare tutta la sua naturale bontà. Ed è ovvio che i seguaci di questa scuola dovessero indicare la proprietà privata come origine prima ed unica dell'egoismo umano, anzichè ammettere, come già aveva fatto Aristotile, che l'egoismo fosse la causa che rendeva inevitabile la proprietà privata [475].

Difatti a cominciare da Morelly, da Mably e da Babeuf, venendo fino a Luigi Blanc, a Proudhon ed a Lassalle, tutti gli scrittori che hanno voluto tracciare un piano completo di rigenerazione umana hanno sempre messo nel loro programma l'attuazione parziale e graduale, ovvero completa ed immediata, del comunismo e l'abolizione della proprietà privata. Il Marx, invece, seguendo in certo modo le indicazioni di Pietro Léroux, sostituì al piano concepito da un individuo il fatale corso della storia, che, secondo lui, doveva condurre allo stesso risultato. E senza dubbio il metodo da lui adottato si è dimostrato in pratica assai più efficace di quello dei suoi predecessori; perchè non si può criticare e demolire ciò che si presume che debba fatalmente avvenire, come si critica e si demolisce un progetto di riforme fondamentali, che poggia soltanto sull'autorità di un uomo; e perchè, fra tutti gli argomenti a favore di una dottrina, il più convincente di tutti è quello che ne vuole dimostrare inevitabile il più o meno prossimo trionfo.

IV. — Un'altra concezione, che, dal tempo in cui Platone scrisse i suoi dialoghi, ha preoccupato, più o meno, le menti di coloro che hanno meditato sopra argomenti politici, è quella secondo la quale al Governo di un paese dovrebbero arrivare i migliori; e conseguenza di questa aspirazione è stato, e forse è, lo studio di trovare un sistema politico il quale faccia sì, o almeno renda possibile, che tale concetto diventi una realtà. Naturalmente, negli ultimi decenni del secolo decimottavo e durante la prima metà del secolo decimonono, e magari anche per qualche decennio ancora, la cennata aspirazione si è intensificata, perchè essa ha trovato alimento in quella opinione ottimista sulla natura umana della quale abbiamo fatto tante volte parola; opinione la quale rendeva facile supporre che, cambiando le istituzioni, si sarebbero senz'altro soppressi od atrofizzati tutti gli istinti meno nobili che travagliano la povera umanità.

Or, per esaminare quel tanto di vero e di falso che ci può essere nell'idea accennata, conviene anzitutto stabilire chi siano coloro che meritano di essere appellati migliori. 

Ed anzitutto ci sembra evidente che, nel linguaggio comune, essendo la parola migliore il comparativo ed, usata in senso assoluto, anche il superlativo di buono, essa dovrebbe servire ad indicare quelle persone che, rispetto al comune degli uomini, possono essere giudicate di eccezionale bontà. I migliori dovrebbero perciò essere i più altruisti, i più inclinati a sacrificare se stessi agli altri, anzichè gli altri a se stessi, coloro che nella vita molto danno e poco ricevono, che, secondo Dora Melegari, sono più faiseurs de joie anzichè faiseurs des peines [476]; e nei quali quindi più compressi e domati sono gli istinti che mirano soltanto a superare od a sopprimere gli ostacoli che si frappongono alla soddisfazione delle proprie passioni e dei propri interessi.

Ma si dovrebbe omai sapere che la bontà, intesa in questo senso, che è poi quello letterale, è una qualità la quale serve molto agli altri e quasi sempre assai poco a coloro che la posseggono. Essa tutto al più riesce poco nociva quando si ritrova in persone nate od arrivate, quasi per caso, in posizione sociale talmente elevata da togliere ogni tentazione a coloro che vorrebbero abusarne. Ma, anche in questo caso, l'individuo, al quale si può legittimamente applicare l'aggettivo buono, deve sapere rinunziare a salire in alto tanto quanto per le sue altre qualità gli sarebbe possibile. Perchè per sollevarsi nella scala sociale, anche in tempi calmi e normali, il primo requisito è senza dubbio la costante capacità di lavoro, ma, immediatamente dopo, viene l'ambizione, la volontà decisa di farsi avanti, di primeggiare sui propri simili, e questa mal si concilia con una soverchia sensibilità e, diciamolo pure, con la bontà. La quale non può restare indifferente alle sofferenze di coloro che, per farsi avanti, bisogna spingere indietro, e che, quando è veramente profonda e sentita, si fa scrupolo di calcolare i meriti, i diritti ed i dolori degli altri infinitamente meno dei proprî.

E può sembrare a prima vista strano che gli uomini, i quali in generale vorrebbero che i loro governanti avessero le qualità morali più elevate e squisite e che pensassero molto all'interesse pubblico e ben poco al proprio, poi, quando sono essi stessi in ballo, e sopratutto quando cercano di farsi avanti e di arrivare, se possono, ai posti più eminenti, non si curano generalmente di osservare quei precetti che vorrebbero fossero guida costante dei loro superiori. Mentre tutto quello che giustamente si potrebbe a costoro richiedere è di non riuscire inferiori al livello morale medio della società che governano, di identificare fino ad un certo punto il loro interesse con quello pubblico e di non commettere azioni troppo vili, basse e ripugnanti, di quelle che squalificano, nell'ambiente in cui vive, l'uomo che le ha compiute.

Senonchè l'espressione migliore applicata alla vita politica può anche significare, ed anzi ordinariamente significa, che l'uomo reputato tale possiede i requisiti che lo rendono più atto a governare i proprî simili. Inteso in questo senso l'aggettivo può essere sempre, in tempi normali, applicato alle classi dirigenti, perchè il fatto che sono tali dimostra che in una data epoca, ed in un dato paese, esse contengono gli elementi più atti a governare; ciò che non sempre significa che siano gli elementi più elevati intellettualmente e sopratutto moralmente [477]. Perchè, per governare gli uomini, più del senso della giustizia e molto più dell'altruismo, e anche più della vastità delle cognizioni e delle vedute, giovano la perspicacia, la pronta intuizione della psicologia degli individui e di quella delle masse e sopratutto la confidenza in se stessi e la forza di volontà. E non per nulla poi Machiavelli metteva in bocca a Cosimo dei Medici la famosa frase che abbiamo citato nella prima parte di questo lavoro: che gli Stati cioè non si governano coi paternostri.

Ed a questo proposito occorre analizzare una distinzione, che già comincia ad entrare nella mentalità comune, cioè quella fra uomo di Stato e uomo di Governo. Uomo di Stato è colui che per la vastità delle sue cognizioni e per la profondità delle sue vedute acquista una coscienza chiara e precisa dei bisogni della società in cui vive e che sa trovare la via migliore per condurla, con le minori scosse e le minori sofferenze possibili, alla meta alla quale dovrebbe, o almeno potrebbe, arrivare. Uomini di Stato in questo senso furono Cavour, Bismark e Stolypine, il Ministro russo che nel 1906 comprese che in Russia, dato l'aumento della popolazione e la necessaria intensificazione dell'agricoltura, il sistema della proprietà collettiva indivisa fra i contadini non poteva più durare e promosse provvedimenti tali che, in mezzo secolo circa, avrebbero creato colà una classe di contadini proprietari individuali ed una vera borghesia rurale [478]. Mentre l'uomo di governo è colui che ha le qualità richieste per arrivare ai posti più elevati della gerarchia politica e per sapervi restare. È una vera fortuna per i popoli quando alla loro testa vi sono persone che alle qualità eminenti e rare dell'uomo di stato sanno accoppiare quelle secondarie dell'uomo di governo, ed è una fortuna meno grande, ma pure ragguardevole, quando i suoi uomini di governo sanno trarre profitto delle vedute degli uomini di Stato.

Platone nella conchiusione del suo dialogo sulle leggi, ribadendo un concetto che può considerarsi come quello che appare fondamentale nei suoi studi politici, dice che una città non potrà essere bene governata finchè i Re, ossia i governanti, non saranno filosofi, od i filosofi non saranno Re. Egli naturalmente per filosofi intendeva i sapienti, coloro che possedevano le cognizioni necessarie all'uomo di Stato e che erano nello stesso tempo al disopra delle passioni basse e volgari [479]. Ora qualche volta l'eredità od il caso hanno fatto sì che a capo di uno Stato vi fosse un filosofo come l'intendeva Platone, ma non sempre il filosofo Re è passato alla storia come il modello di un buon reggitore di popoli [480]. Ed è difficile assai poi che, in tempi normali, nella lotta per la preminenza, che avviene fra coloro che aspirano ad arrivare ai posti supremi, riportino la vittoria i filosofi come Platone li concepiva. Prima di tutto perchè molto spesso la vera saggezza non eccita l'ambizione ma la smorza, e poi perchè le alte qualità del carattere e dell'intelletto non li avvicinano, ma piuttosto li allontanano, dalle cariche più elevate; sopratutto quando non sono integrate dalle qualità dell'uomo di governo e quando l'individuo non ha abbastanza senso pratico per mettere, almeno per qualche tempo, a dormire le prime e fare agire le altre [481].

Come abbiamo già accennato si può esser quindi contenti se al potere ci stanno uomini di governo il cui intelletto e la cui moralità non sono al di sotto di quella media della classe dirigente. Ed aggiungeremo che, quando il livello intellettuale e morale di essa è abbastanza elevato per comprendere ed apprezzare le concezioni dei pensatori che studiano a fondo i problemi politici, non è necessario che questi ultimi arrivino al potere per attuare i loro programmi; perchè la pressione intellettuale della intiera classe politica, ciò che comunemente appellasi la pubblica opinione, farà sì che gli uomini di governo debbano più o meno conformare la loro azione alle vedute di coloro che rappresentano quanto di meglio l'intelligenza politica di un popolo sa e può produrre.

V. — Il fatto che coloro i quali occupano ordinariamente le cariche elevate non sono quasi mai i migliori in senso assoluto, ma piuttosto gli individui che posseggono le qualità più adatte a dirigere ed a padroneggiare i propri simili, dimostra già come sia arduo e quasi impossibile, nei casi ordinari, di applicare negli ordinamenti politici la giustizia assoluta, quale l'uomo sa e può concepirla. Ma, siccome l'attuazione di questo concetto è stato, da Platone in poi, il sogno di molte anime nobili e di molte menti elevate e, diciamolo pure, anche il comodo pretesto invocato da tanti ambiziosi, più o meno volgari, per mettersi al posto di coloro che stavano in alto, ci sembra opportuno di intrattenerci alquanto sopra di esso.

La giustizia assoluta negli ordinamenti politici naturalmente dovrebbe significare che in ogni individuo il successo, il grado che occupa nella scala politica, corrisponde perfettamente alla reale utilità del servizio che egli ha reso o rende alla società. In fondo si tratta dell'applicazione del concetto che fu formulato in modo preciso forse per la prima volta da Saint-Simon, concetto al quale abbiamo già accennato e che fornì la formola famosa colla quale i sansimonisti riassunsero il loro programma [482].

La prima obiezione che sorge in proposito è quella relativa alla difficoltà di valutare esattamente, e con una certa sollecitudine, il valore esatto del servizio che ogni individuo ha reso o rende, alla società di cui fa parte; e diciamo con sollecitudine perchè, se la valutazione dovesse avvenire dopo qualche secolo, o dopo alcune dozzine di anni, il guiderdone od il castigo tarderebbero tanto che l'uomo al quale converrebbe di dare l'uno o l'altro, sarebbe già nella tomba, o almeno in età molto avanzata. Or, a farlo apposta, le benemerenze o gli errori d'indole politica, dai più grandi ai più piccoli, sono quelli i cui risultati si veggono ordinariamente a più lunga scadenza. Difatti solo dopo un tempo ordinariamente abbastanza lungo si può, con serenità e con una certa sicurezza, giudicare se l'opera di un funzionario, un voto dato in una Camera, o una deliberazione presa in un momento grave da un Consiglio dei Ministri corrispondano o no agli interessi di un paese. A dir vero gli uomini quasi sempre non aspettano tanto per giudicare gli atti accennati, ma appunto perciò il loro giudizio è tanto spesso influenzato dalle passioni e dagli interessi, od artificiosamente sviato dalle arti dell'intrigo e della ciarlataneria.

Ed alle volte, anche dopo che l'ala del tempo e le generazioni trascorse hanno fatto tacere gli interessi e spento le passioni, e che, insieme agli interessi ed alle passioni, sono venute meno le opere dell'intrigo e della ciarlataneria, anche quando non vi sono più turbe che applaudono perchè a ciò ammaestrate, scrittori o giornali che in piena malafede vi esaltano o vi deprimono, l'uomo per lo più è così fatto che, pur essendo dedito agli studi, non riesce ad essere obiettivo ed imparziale. Abbiamo già accennato come l'indagine storica dia sempre risultati più o meno incerti quando essa vuole giudicare le grandi personalità del passato, mentre le sue deduzioni e le sue conclusioni sono assai meno incerte quando essa rievoca e chiarisce le istituzioni, le idee, le opere delle grandi civiltà tramontate [483]. Or l'incertezza accennata dipende in buona parte dalla passionalità degli scrittori, i quali non riescono ad esprimere la loro ammirazione per una grande personalità vissuta quasi venti secoli prima di noi, senza deprimerne un'altra che fu ad essa contemporanea; che non sanno, ad esempio, scrivendo nel secolo decimonono, esaltare Cesare, senza contemporaneamente deprimere il povero Cicerone. Ciò che dimostra come, anche quando tacciono gli interessi e le cupidigie personali, possano bastare le antipatie e le simpatie, nel senso classico della parola, cioè le affinità o le disaffinità della mente e del carattere, a renderci ingiusti verso coloro che sono da tanti secoli scomparsi dalla terra.

Appare quindi evidente che lo stabilire un rapporto esatto ed infallibile fra i meriti ed il successo, fra le opere di ogni individuo ed il premio od il castigo che gli spettano, è opera cosi sovrumana che solo un Essere onnisciente ed onnipossente, che sa sollevare i veli che ricoprono tutte le coscienze, e che non ha nessuna delle nostre ignoranze, nessuna delle nostre debolezze, nessuna delle nostre passioni, vi potrà riuscire. Ed è perciò che quasi tutte le grandi religioni, a cominciare da quella degli antichi Egiziani, hanno rimandato il giudizio definitivo sull'operato dell'uomo alla fine della sua vita terrena e l'hanno affidato agli Dei od a Dio.

Una certa equivalenza fra il servizio reso e la ricompensa ricevuta si potrebbe rinvenire nelle libere contrattazioni che avvengono nella vita privata; ma questa equivalenza non è fondata sopra un principio morale, come dovrebbe esser quella che si vorrebbe stabilire nella vita politica, ma semplicemente sulla domanda e sull'offerta; ossia sul bisogno relativo dei due contraenti, il quale fa sì che si apprezzi di più il servizio quando esso è molto richiesto, e si apprezzi più la ricompensa quando l'offerta di questa scarseggia e quella del servizio sovrabbonda. Ed aggiungeremo che questa equivalenza puramente economica, che non tiene conto, come la morale vorrebbe, del sacrifizio che il servizio ha costato, non funziona più quando i servizi non sono resi a determinati individui od a determinati gruppi d'individui, ma a tutta intiera la collettività. Tutti sanno infatti che le grandi scoperte scientifiche, sia nel campo delle scienze fisiche che in quello delle scienze morali, non hanno fatto sì che i loro autori fossero investiti delle cariche eminenti dello Stato o arrivassero ai fastigi della ricchezza; esse anzi quasi mai hanno fornito agli inventori i parasoli dorati e gli elefanti folli d'orgoglio che, secondo gli antichi scrittori dei Vedas, spettavano ai potenti della terra. Viceversa le applicazioni pratiche di queste scoperte, che hanno potuto essere sfruttate da determinati individui, hanno quasi sempre arricchito e reso influenti i loro autori. Veramente, almeno nei paesi di antica e solida cultura, dovrebbe essere uno degli uffici dei governanti il dare ricompense morali e materiali a quegli scienziati, che, come Copernico, Galileo, Volta e Champollion hanno fatto scoperte utili all'umanità intiera, ma non direttamente utilizzabili da singoli individui; e qualche volta i governanti hanno più o meno bene adempito a questo dovere, generalmente quando ciò poteva loro riuscire utile perchè corrispondeva al voto di un'opinione pubblica molto illuminata.

Ma se, fino a quando l'umanità non sarà realmente plasmata ad immagine e somiglianza di Dio, non vi sarà mai nel mondo una giustizia assoluta, nelle società più o meno bene ordinate vi è stata, vi è e vi sarà sempre una giustizia relativa; cioè un insieme di leggi, di consuetudini, di norme imposte dalla pubblica opinione, tutte variabili secondo le epoche ed i popoli, in base alle quali viene regolata quella che noi abbiamo chiamato la lotta per la preminenza; cioè lo sforzo che ogni individuo fa per migliorare e conservare la propria posizione sociale [484]. Secondo questa giustizia relativa quasi sempre per ottenere il successo è necessaria una certa quantità di lavoro, ciò che generalmente corrisponde ad un vero e reale servizio reso alla società, ma il lavoro viene quasi sempre più o meno coadiuvato dall'abilità, cioè dall'arte di farlo valere, e naturalmente anche da ciò che comunemente appellasi la fortuna, cioè da quelle circostanze imprevedibili che sopratutto in certi momenti possono molto aiutare e molto danneggiare un uomo; e ricorderemo in proposito che, in tutti i paesi ed in tutti i tempi, spesso la migliore delle fortune, o la peggiore delle sfortune, è quella di nascere figlio del proprio padre e della propria madre [485].

Accade in fondo nella vita quello che avviene ordinariamente nei giuochi di carte, nei quali il vincere dipende in parte dalla cieca sorte, in parte dall'abilità del giocatore o dagli errori dei suoi avversari. Però come il gioco si convertirebbe in truffa se venisse tollerata la sostituzione delle carte, così non dovrebbe essere mai permesso, nella grande partita che ogni uomo gioca nella sua vita, di violare le norme stabilite, ossia di barare; e misera e disordinata sarà sempre quella società nella quale è quasi tacitamente ammesso che il giocatore abile possa anche correggere la fortuna [486].

Spesso, ed oggi molto spesso, coloro che più e meglio sanno mettere in evidenza le contraddizioni, alle volte stridenti, fra la giustizia assoluta e quella relativa sancita dalle leggi e dalle consuetudini, sono uomini che hanno in mano carte cattive e che desidererebbero di averle migliori, e che quindi bramerebbero che fosse sospesa la partita e rimescolato il mazzo, e forse anche che questo carico fosse loro affidato. Perchè quasi sempre gli individui più altruisti, e che più sinceramente abborriscono la menzogna e la frode, coll'esperienza della vita finiscono coll'acquistare la persuasione che il raggiungimento della giustizia assoluta è impossibile, e che quindi la lealtà e la bontà vera e cosciente devono essere necessariamente accompagnate dalla generosità, che sa donare senza speranza di nulla ricevere in cambio.

VI. — Prima di terminare questo capitolo dobbiamo fare cenno di una grave quistione, che forse praticamente è la più importante di tutte quelle che la scienza politica può e deve trattare. Si tratta cioè di esaminare se i progressi di questa scienza potranno un giorno eliminare, o rendere più rare e meno gravi, le grandi catastrofi che di tanto in tanto interrompono il corso della civiltà e ricacciano nella barbarie, sia pure relativa e temporanea, popoli che avevano acquistato un posto glorioso nella storia dell'umanità. Volendo aggiungere qualche elemento nuovo, che possa riuscire utile alla soluzione di questo intricato problema, occorre di porlo anzitutto nei suoi termini precisi.

Le catastrofi accennate si dice generalmente che avvengano quando un popolo è invecchiato e quando, come conseguenza naturale della vecchiaia, avviene la sua morte. Or ci sembra evidente, e l'abbiamo già accennato nel primo capitolo della prima parte di questo lavoro, che, quando si parla della vecchiaia e della morte di un popolo, o di una civiltà, si usa una metafora la quale, non dà, sopratutto a coloro che non si sono approfonditi negli studi storici, un'idea precisa del fenomeno che si vuole studiare. L'individuo infatti invecchia fatalmente e muore quando le sue forze vitali sono esaurite, o quando un'infezione od una causa violenta sopprimono od impediscono la funzione di un organo necessario alla continuazione della vita; mentre in una società l'invecchiamento materiale non si concepisce, perchè ogni generazione nuova deve avere tutto il vigore della gioventù, nè la morte materiale è possibile, perchè a ciò occorrerebbe che almeno una generazione intera si astenesse dalla procreazione [487].

Sarebbe facile invero citare il caso di genti scomparse senza lasciare una discendenza. È noto che sono così spariti gli indigeni della Tasmania, che sono in via di sparizione quelli dell'Australia, che forse pochi sopravvivono fra i discendenti dei Guanchi delle Canarie, che molte tribù indigene dell'America sono scomparse ed altre in via di scomparire. Ma, si tratta, o si trattava, di popolazioni rade, che vivevano o vivono di caccia e di pesca, alle quali la colonizzazione bianca avea tolto o va togliendo i mezzi di sussistenza e che, quando vennero in contatto coi Bianchi, erano troppo arretrate per adattarsi alla vita agricola e per potere adottare i loro metodi di produzione [488].

Ben diverso è il caso quando ci troviamo davanti a popolazioni già pervenute allo stadio agricolo, che hanno costituito nazionalità numerose, ordinate e potenti e creato o fecondato una civiltà. Allora quella che sarebbe la morte materiale, lo spegnersi della razza per mancanza di discendenti, forse mai è avvenuta. Un popolo arrivato allo stadio di cultura accennato, potrà perdere la sua fisonomia originale, essere assorbito da altri popoli, da altre civiltà, cambiare la sua religione e qualche volta la sua lingua, potrà infine subire un'intiera trasformazione intellettuale e morale, continuando a sopravvivere materialmente [489].

E la storia è piena di queste trasformazioni e di queste sopravvivenze. Sopravvissero i discendenti degli antichi Galli e degli antichi Iberi, sotto lo strato di civiltà latina dalla quale furono plasmati, e sopravvissero i discendenti delle antiche popolazioni mesopotamiche e siriache, sebbene abbiano adottato la lingua e la religione degli Arabi, che nell'ottavo secolo le conquistarono; e lo stesso è avvenuto in Egitto, dove la massa della popolazione così detta araba conserva ancora i caratteri fisici dei suoi veri antenati, che crearono e fecero durare per più di quaranta secoli la civiltà dei Faraoni, Gli Italiani moderni sono ancora prevalentemente i discendenti degli antichi Italici e nelle vene dei Greci moderni, per quanto molto commisto ad altro sangue, scorre ancora quello degli Elleni contemporanei di Pericle e di Aristotile e quello dei Bizantini del nono e del decimo secolo.

Ciò premesso, e non tenendo conto dei popoli assimilati per opera di una dominazione straniera di origine ma apportatrice di una cultura superiore, come avvenne nel caso citato dei Galli, degli Iberi e delle altre genti più o meno barbare che la virtù di Roma antica seppe fondere in una gente sola, è evidente che la morte di un popolo, il quale ha saputo creare e mantenere per un lungo corso di secoli una propria civiltà, può avvenire ed avviene sopratutto per due cause, che lo minano e corrodono internamente e che fanno sì che il minimo urto esteriore basti ad ucciderlo; cause che del resto sono quasi sempre fatalmente accoppiate. Muoiono infatti i popoli quando manca alle loro classi dirigenti la capacità di riorganizzarsi secondo i bisogni dei tempi e di attingere negli strati più bassi e profondi della società elementi nuovi che le rinsanguino, e, come abbiamo già accennato, sono pure destinati a morire i popoli, quando vengono meno in essi quelle forze morali che li tenevano uniti e facevano sì che una quantità importante di sforzi individuali potesse essere riunita, disciplinata e diretta verso scopi d'interesse collettivo [490]. In altre parole, la vecchiaia, che è prodromo della morte, si aggrava sugli organismi politici in seno ai quali perdono ogni prestigio, senza che esse siano sostituite, quelle idee e quei sentimenti che li rendono capaci dello sforzo collettivo necessario a mantenere intatta la propria personalità.

E ciò spiega quel cieco attaccamento alla tradizione, ai costumi ed agli esempi degli antenati, che costituiva il fondo delle religioni e della mentalità politica di tutte le grandi nazioni dell'antichità, a cominciare dalle vecchie civiltà della Mesopotamia e dell'Egitto venendo fino a Roma; attaccamento che si è mantenuto fortissimo, fino a qualche generazione fa, nel Giappone e nella China, e che, malgrado le apparenze contrarie, non è del tutto ignoto alle moderne nazioni di civiltà europea, e specialmente a quelle di razza anglo-sassone. Pare che l'anima nazionale istintivamente senta che per non morire deve restare fedele a certi principî, a certe idee fondamentali e caratteristiche, che impregnano tutti gli atomi dalla unione dei quali è formata, e che solo a questa condizione essa può conservare la propria personalità e mantenere intatto il proprio edificio sociale, facendo sì che ogni pietra che lo compone non perda il cemento che la unisce a tutte le altre [491].

Disgraziatamente, o fortunatamente, il culto del passato, quando è eccessivo ed esclusivo, ha per conseguenza necessaria la immobilità, e perchè fosse permesso ad una nazione di restare impunemente immobile bisognerebbe che non si muovessero tutte le altre; la China ed il Giappone che, durante i secoli decimosettimo, decimottavo e parte del decimonono, hanno cercato di adagiarsi nell'immobilità, pur non essendovi completamente riusciti, hanno poi dovuto subire dei bruschi risvegli [492]. Ed è ovvio che ciò sia avvenuto, perchè l'immobilità completa è in una società umana artificiale, mentre il cambiamento continuo nelle idee, nei sentimenti e nei costumi, il quale non può non avere il suo contraccolpo nella organizzazione politica, è naturale. Per impedirlo bisognerebbe distruggere gli effetti dello spirito d'osservazione e d'indagine, dell'allargarsi delle cognizioni, della maggiore esperienza, che rendono inevitabili il maturarsi di una mentalità nuova e l'affermarsi di nuovi sentimenti, i quali necessariamente corrodono la fede negli insegnamenti dei maggiori e nei concetti tradizionali, che formavano la base dell'edificio politico.

Un Greco, ad esempio, contemporaneo di Platone e di Aristotile, assai difficilmente potea credere negli Dei, quali li concepiva l'infantile antropomorfismo omerico, e molto meno ammettere che essi fossero soliti di aiutare coi loro consigli e la loro assistenza quei capi ereditari delle città, che il sommo poeta della Grecia soleva chiamare pastori di popoli; come un francese contemporaneo di Voltaire assai difficilmente si sarebbe persuaso che Luigi XV avesse avuto da Dio il mandato di governare la Francia; e come oggi un Chinese od un Giapponese, che abbiano frequentato una Università europea od americana, stentano a conservare la convinzione che nei libri di Confucio sia contenuta la più perfetta e completa espressione della saggezza umana.

Così stando le cose, risulta evidente che l'unico metodo per evitare ciò che si chiama la morte di uno Stato o di una grande nazione, ossia uno di quei periodi di crisi acuta che talvolta producono o rendono possibile la sparizione di un tipo di civiltà e sono causa di sofferenze inenarrabili per le generazioni che vi assistono, come fu ad esempio quella che determinò e che seguì la caduta dell'impero romano d'Occidente, e come è quella che oggi travaglia la Russia, consiste nella lenta ma continua modificazione della classe dirigente e nella lenta e continua assimilazione di nuovi elementi di coesione morale, che gradatamente si vanno sostituendo ai vecchi. Forse anche in questo caso la giusta contemperanza fra due tendenze naturali diverse e contrarie, la conservatrice cioè e la innovatrice, finisce col dare i risultati praticamente migliori. In altre parole quindi un organismo politico, un popolo, una civiltà possono essere a rigor di termine immortali, purchè sappiano continuamente trasformarsi senza mai dissolversi [493].

E se la morte dei popoli, lo sfasciamento completo degli organi politici, le crisi sociali durature e violente, che interrompono il corso della civiltà e ricacciano l'uomo verso la bestialità, fossero a rigore evitabili, il sorgere e l'affermarsi di una vera scienza politica potrebbe certamente molto contribuire ad evitarle.

Noi crediamo che nel passato più d'una delle crisi accennata sia stata alle volte notevolmente ritardata dal semplice empirismo politico, purchè non sviato da false dottrine ed illuminato dal lampo del genio [494]. Ci sembra evidente che opera assai più efficace si potrà svolgere mercè la conoscenza esatta delle leggi che regolano la natura sociale dell'uomo; la quale conoscenza se non altro insegnerebbe a distinguere ciò che può avvenire da ciò che non può e non potrà mai avvenire, evitando così che molti intenti generosi e molte buone volontà si disperdano improficuamente, ed anche dannosamente, nel volere conseguire gradi di perfezione sociale che sono irraggiungibili, e renderà inoltre possibile di applicare alla vita politica lo stesso metodo che la mente umana mette in pratica quando vuole padroneggiare le altre forze naturali. Metodo che consiste precisamente nel comprenderne il meccanismo mediante un'attenta osservazione e nel saperne dirigere l'azione senza mai brutalmente violentarle [495].

Abbiamo già accennato come sia nostra opinione che il secolo decimonono ed i primi decenni di quello presente abbiano già elaborato, mercè i progressi delle indagini storiche e quelli delle scienze sociali descrittive, tale quantità di dati, di fatti accertati, di materiale scientifico da rendere possibile alla generazione presente ed a quelle immediatamente successive ciò che è stato impossibile alle passate, cioè la creazione di una vera politica scientifica. Ma è assai difficile precisare quando essa potrà affermarsi e sopratutto quando potrà diventare un fattore attivo capace d'integrare e modificare gli altri, che finora hanno determinato il corso degli avvenimenti umani [496]. Infatti, perchè un sistema d'idee possa diventare una forza politica attiva bisogna che esso plasmi la coscienza della maggioranza almeno della classe dirigente, e che diventi preponderante nel determinare il suo modo di pensare e quindi di sentire; or le idee veramente scientifiche sono a ciò le meno adatte, perchè sono le meno adattabili, e quindi poco o nulla si prestano all'eccitamento delle passioni del giorno ed alla soddisfazione immediata degli interessi del momento.

 


 

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CAPITOLO VI.
Conclusione.

I. Quale è il periodo storico che corrisponde al secolo decimonono. — II. Programma politico del detto secolo. — III. Risultati pratici dell'esecuzione di questo programma. — IV. Germi di dissoluzione politica che esso conteneva e contiene. — V. Pericoli e danni che presentano le tre soluzioni radicali possibili della crisi che ora traversa il regime rappresentativo. — VI. Opportunità di una restaurazione del detto regime e modi più adatti per effettuarla.

I. — Un'epoca spesso viene indicata mediante il secolo che ad essa corrisponde, perchè generalmente cento anni sono uno spazio di tempo sufficiente per modificare sensibilmente la mentalità, i costumi e le istituzioni di un popolo o di una civiltà. Però, volendo precisare l'anno nel quale questi cambiamenti riescono più sensibili e nel quale è possibile stabilire che un'epoca finisce ed un'altra comincia, difficilmente accade che fra l'epoca ed il secolo vi sia una corrispondenza perfetta, anche perchè spesso vi sono dei periodi di transazione, più o meno laboriosi, e qualche volta accompagnati da crisi violente, fra la fine di un periodo storico e l'inizio di un altro.

Così, ad esempio, ci sembra che, volendo stabilire il momento preciso in cui terminò l'epoca che corrisponde al secolo decimottavo, l'anno più indicato sarebbe il celebre 1789 e non già il 1800; e, se la stessa indagine vogliamo fare sul periodo successivo, pare che si possa stabilire che una nuova êra si iniziò nell'anno 1815 e che terminò precisamente quasi cento anni dopo nel 1914. Lo spazio di ventisei anni, che corre fra il 1789 ed il 1815, corrisponderebbe ad una di quelle parentesi contrassegnate da crisi violente che spesso, ma non sempre, accompagnano le grandi trasformazioni delle società umane [497].

Volendo quindi esaminare quale sia stata in Europa l'opera politica del secolo decimonono, bisogna evidentemente studiare gli avvenimenti compresi fra il 1815 ed il 1914, anno che forse potrebbe corrispondere all'apertura di una nuova parentesi, che si dovrebbe poi chiudere coll'inizio di un'epoca nuova, che prenderebbe il nome dal secolo ventesimo. Or, trovandoci in un momento storico, che potrebbe essere decisivo per l'avvenire della nostra civiltà, sarebbe forse opportuno che la generazione presente, e sopratutto la parte più giovine di essa, prima di agire si raccogliesse per qualche ora in se stessa per fare ciò che la Chiesa chiama un esame di coscienza. E se i viventi di oggi, e sopratutto i giovani, a quest'esame non volessero assoggettarsi, attribuendo ogni eventuale peccato alle tre generazioni che li hanno preceduto, siccome essi ad ogni modo hanno dai loro padri ricevuto un'eredità alla quale non possono rinunziare, sarebbe molto utile che almeno ne facessero l'inventario.

II. — Come si sa, durante il secolo decimonono i popoli di civiltà europea si sforzarono di attuare in politica il programma idealmente tracciato dal secolo precedente, programma che si può riassumere in tre concetti fondamentali, che vennero espressi con tre magiche parole: libertà, uguaglianza e fratellanza.

Abbiamo già visto come il concetto di libertà, nel senso che alla parola viene dato nella vita politica, gli Europei moderni l'abbiano ereditato dai Greci e dai Romani antichi. Confusamente ed imperfettamente inteso nel Medio Evo, ed in modo assai più chiaro e preciso dopo il Rinascimento, questo concetto fu popolarizzato ed interpretato conformemente alle condizioni della società del secolo XVIII da Rousseau e da altri scrittori a lui contemporanei [498]. Però, siccome era impossibile la trasformazione dello Stato assoluto burocratico, che vigeva nel secolo decimottavo, in uno Stato-città come erano state Atene, Sparta ed anche Roma all'epoca di Fabrizio e di Attilio Regolo, il concetto ereditato dagli antichi dovette subire un ulteriore adattamento e si cercò di attuarlo prendendo come modello quel tipo di organizzazione politica, che già nel secolo decimottavo funzionava in Inghilterra ed i cui vantaggi erano stati assai bene illustrati da un altro celebre scrittore, ossia da Montesquieu.

Quindi invece delle Assemblee della Grecia classica e dei Comizi di Roma, nei quali tutti i cittadini potevano intervenire e si approvavano le leggi e si eleggevano i titolari di quasi tutte le cariche pubbliche, si ebbero dei Parlamenti, quasi sempre di due Camere, con preponderanza morale più che legale di quella che più direttamente proveniva dal suffragio popolare, alle quali furono affidati il potere legislativo, l'approvazione delle imposte e delle spese ed un controllo generale su tutta l'amministrazione dello Stato. Inoltre, allontanandosi anche qui dagli esempi della classica antichità, non si estese l'applicazione del sistema elettivo nè all'organizzazione amministrativa dello Stato, nè, in generale, a quella giudiziaria. L'importanza delle mansioni, che già sulla fine del secolo decimottavo l'organismo statale europeo esercitava, e la tecnicità quasi sempre indispensabile per l'esercizio di queste funzioni resero necessario che esse continuassero ad essere affidate, anzichè a funzionari elettivi e temporanei, come era avvenuto nell'antico Stato-città, ad impiegati stabili e di carriera; reclutati generalmente in seguito a concorsi o scelti liberamente da coloro che stavano ai sommi gradi della loro gerarchia [499].

Quindi l'impalcatura burocratica degli antichi regimi assoluti, lungi dall'essere soppressa, venne mano mano sempre più sviluppandosi ed affermandosi per le nuove mansioni che durante il secolo decimonono veniva assumendo lo Stato, ed essa in fondo venne a costituire due dei poteri fondamentali dei moderni regimi politici, cioè il potere esecutivo ed il giudiziario. Parvero provvedimenti sufficienti a temperarne le esorbitanze l'affidare, come abbiamo ricordato, ai Parlamenti il controllo delle entrate e delle spese ed il diritto di sindacare tutta l'amministrazione dello Stato e, nei paesi retti a governo parlamentare, il preporre ai diversi rami della macchina burocratica dei capi scelti a preferenza fra i membri della Camera elettiva e perciò indirettamente provenienti dall'elezione popolare.

In quasi tutti i paesi di civiltà europea gli ordinamenti militari sono stati poi quella parte dell'organizzazione dello Stato che, pure enormemente sviluppandosi e notevolmente modificandosi, ha conservato a preferenza, durante il moderno regime rappresentativo, quella fisonomia che ad essa avevano impresso gli antichi regimi assoluti.

Infatti si è a dir vero quasi dappertutto adottato il servizio militare obbligatorio esteso a tutte le classi dei cittadini, in maniera che ora è possibile in caso di guerra di mobilizzare tutta la popolazione valida di un paese, e si sono aboliti i privilegi che conferivano all'antica nobiltà il monopolio dei gradi superiori della milizia, sebbene traccie dei privilegi cennati siano rimaste in alcuni eserciti europei fino a tempi molto recenti [500]. Ma la forza armata conservò un ordinamento strettamente autocratico, perchè l'avanzamento nella carriera militare restò sempre esclusivamente dipendente dal criterio di coloro che occupano i gradi superiori, e perchè sopratutto si mantenne, più o meno rigorosamente, ma sempre abbastanza notevole, l'antica distinzione fra gli ufficiali e gli uomini di truppa. I primi generalmente militari di professione e provenienti dalle classi alte e medie, e quindi per la loro origine e per la loro istruzione ed educazione ad esse legati; i secondi quasi sempre reclutati mercè il servizio militare obbligatorio e che hanno perciò in grande maggioranza la mentalità ed i sentimenti degli operai e dei contadini.

Questa distinzione, che è la base della disciplina e dell'organizzazione militare, unita alla maggiore cultura generale e militare degli ufficiali, fa sì che gli uomini di truppa diventino ordinariamente uno strumento sicuro nelle loro mani. Ed è sopratutto mercè di essa che la moderna società europea ha potuto raggiungere il risultato mirabile di affidare le armi ai proletari senza che questi se ne potessero servire come mezzo di dominio. Ed è sempre grazie alla distinzione stessa che l'esercito è rimasto quasi dappertutto una forza conservatrice, un elemento di ordine e di stabilità sociale [501].

Ma il concetto di libertà politica non si è, nella moderna Europa, ed in generale in tutti i paesi di civiltà europea, attuato soltanto coll'istituzione dei regimi rappresentativi, ma quasi dappertutto esso è stato più o meno completato mercè una serie di istituzioni, che assicurano agli individui ed alle coalizioni di individui parecchie efficaci guarentigie di fronte ai detentori dei pubblici poteri. Nei paesi perciò che a buon diritto sono stati finora reputati liberi noi troviamo che le proprietà private non possono essere arbitrariamente violate, che un cittadino non può essere arrestato e condannato se non mercè l'osservanza di norme determinate, che ognuno può seguire la religione che crede migliore senza menomazione dei suoi diritti civili e politici, che la stampa non può essere soggetta a censura preventiva e che essa può liberamente discutere e criticare gli atti dei governanti; che i cittadini infine, seguendo certe norme, possono riunirsi per prendere deliberazioni d'indole politica e che essi possono pure associarsi allo scopo di raggiungere fini morali, politici o professionali.

Queste ed altre simili libertà, che possono essere considerate come delle vere autolimitazioni che lo Stato mette ai suoi poteri sovrani nei suoi rapporti con i singoli cittadini, sono in buona parte una imitazione di leggi che l'Inghilterra aveva adottato alla fine del secolo decimosettimo, dopo la sua seconda rivoluzione, od anche in epoca posteriore, e costituiscono un complemento necessario del regime rappresentativo; che assai male potrebbe funzionare se ogni libera attività politica degli individui fosse soppressa e se essi non fossero tutelati abbastanza contro l'azione arbitraria del potere esecutivo e del giudiziario. Nello stesso tempo queste libertà trovano la loro massima guarentigia nell'esistenza del regime rappresentativo, il quale fa sì che il potere legislativo, che solo avrebbe il diritto di toglierle o restringerle, sia l'emanazione di quelle stesse forze politiche che hanno interesse a conservarle [502].

Assai più difficile, perchè contraria alla natura delle cose, e quindi meno reale e concreta, è stata l'attuazione del concetto di uguaglianza.

Naturalmente furono aboliti, poichè alla borghesia stessa interessava di abolirli, quei privilegi di classe che ancora sussistevano alla fine del secolo decimottavo, e tutti i cittadini furono solennemente proclamati uguali davanti alla legge, ma non si poterono abolire gli effetti delle disuguaglianze naturali e neanche di quelle per dir così artificiali, che sono una conseguenza dell'eredità familiare, come sarebbero le differenze di ricchezza, di educazione e di cultura.

Anzi mentre l'uguaglianza, che dovrebbe portare come conseguenza necessaria la sparizione delle classi sociali, veniva ufficialmente proclamata, giammai forse la distanza fra la mentalità, il modo di sentire e perfino le inclinazioni delle varie classi sociali è stata più accentuata di quanto lo sia nella società europea del secolo ventesimo e giammai forse esse si sono meno scambievolmente comprese. Ciò che non è esclusivamente dovuto alla disuguaglianza delle ricchezze, perchè quasi sempre l'intelletto e la psicologia di un piccolo borghese, che abbia potuto ottenere una laurea od anche un diploma d'istituto secondario, si accosta più a quella di un milionario anzichè a quella di un operaio, sebbene economicamente il piccolo borghese sia senza dubbio più vicino a quest'ultimo anzichè al milionario. Ma piuttosto è un effetto del progresso della cultura e di ciò che dicesi la civiltà, la quale fa sì che coloro che si dedicano ai lavori intellettuali, e qualche volta anche agli ozi raffinati, sempre più si debbano necessariamente differenziare da quegli strati sociali che sono adatti e dedicati esclusivamente ai lavori manuali.

Come guarentigia e prova tangibile dell'uguaglianza, durante il secolo decimonono e nei primi decenni del ventesimo, la borghesia europea ed americana ha concesso a tutti i cittadini, compresi gli analfabeti, che in alcuni paesi formano ancora una parte notevole della popolazione, il suffragio universale, ossia il diritto di partecipare in misura uguale alla elezione dei membri della Camera elettiva. Come abbiamo già accennato, questa concessione fu sopratutto una conseguenza delle dottrine politiche prevalenti nelle classi dirigenti, dottrine che facevano parte dell'eredità intellettuale che il secolo decimottavo aveva trasmesso al decimonono ed in base alle quali unico governo legittimo veniva considerato quello basato sulla sovranità popolare, intesa come sovranità della maggioranza numerica dei membri del consorzio sociale. Sicchè la largizione del voto a tutti i cittadini maggiorenni diventò un atto indispensabile affinchè la minoranza, che realmente avea in mano la direzione politica, potesse evitare la taccia d'incoerenza e potesse mettere in pace la propria coscienza.

Ma, fin dall'epoca di Aristotile, quando ancora la maggioranza dei lavoratori manuali era esclusa dalla cittadinanza e quindi dal suffragio, era stata rilevata la difficoltà di conciliare l'uguaglianza politica, che dava la preponderanza ai poveri sui ricchi, colla disuguaglianza economica. Non è quindi da maravigliare che precisamente davanti la stessa difficoltà si siano trovate, dopo la concessione del suffragio universale, le classi dirigenti europee ed americane. Se esse prima della grande guerra poterono con relativa facilità affrontarla e fino ad un certo punto superarla, ciò fu dovuto in parte alla impreparazione politica delle classi popolari, che in molti paesi si sono lasciate in principio agevolmente regimentare entro i quadri dei partiti borghesi, in parte alla grande forza di resistenza dei moderni organismi statali e finalmente, in parte forse maggiore delle altre, alla grande prosperità economica, che fu una delle caratteristiche più spiccate della seconda metà del secolo decimonono e che si accentuò fortemente durante gli ultimi venti o trent'anni anteriori al 1914. Prosperità la quale rese in molti paesi possibile di fare notevoli concessioni d'indole economica alle classi più numerose senza impedire l'aumento dei risparmi privati, senza soverchiamente intaccare l'inviolabilità della proprietà privata e senza imporre carichi insopportabili alle grandi ed alle medie fortune [503].

Anche più vacua, più priva di contenuto dell'attuazione della uguaglianza dovea infine riuscire quella della fratellanza.

La fratellanza, ossia l'amore reciproco fra tutti gli individui umani, era stata già proclamata e predicata, prima che dai filosofi dei secoli decimottavo e decimonono, da un certo numero di pensatori dell'antichità, che però credevano in generale che essa dovesse essere a preferenza praticata fra i membri dello stesso popolo o della stessa città. Non mancarono però, in una delle epoche di maggiore cultura che abbia avuto la classica antichità, degli scrittori che, come Seneca, insegnarono che essa doveva essere estesa a tutta l'umanità, ma in generale restarono poco ascoltati. L'amore reciproco universale entrò anche nei programmi delle tre grandi religioni mondiali, ossia del Buddismo, del Cristianesimo e del Maomettismo; ma in tutte e tre furono poi a preferenza riguardati come fratelli coloro che seguivano la stessa fede ed anche fra compagni di fede la fratellanza fu in pratica tutt'altro che perfetta. Perchè essa possa diventare una realtà occorrerebbe infatti che nell'uomo, pur non tenendo conto degli inevitabili conflitti d'interessi e delle gare indispensabili per arrivare alla preminenza sociale, restasse solo il bisogno di amare e si estinguesse quello di odiare il proprio simile; sia esso vicino o lontano, parli o no la stessa lingua e segua o no la stessa religione o le stesse dottrine politiche. E disgraziatamente il cennato bisogno finora non sembra prossimo ad estinguersi [504].

Date queste condizioni della psiche umana, riesce perfettamente spiegabile che il senso della fratellanza universale, anche nel secolo decimonono e negli inizii del ventesimo, sia rimasto e rimanga molto fiacco. Tanto più che le delusioni sofferte per la mancata attuazione dell'uguaglianza dovevano e debbono contribuire ad indebolirlo, acuendo la naturale rivalità fra i ricchi ed i poveri, i potenti e gli impotenti, i felici e gli infelici. Mentre il grossolano materialismo prevalente fino a pochi anni fa, e contro il quale solo da poco tempo e fra le classi più colte è sorta una certa reazione, rinfocolando le aspirazioni verso i beni terrestri e togliendo ogni consolazione ai vinti della vita, necessariamente fomentava sempre più l'odio, non già l'amore, fra i popoli, fra le classi e fra i singoli individui.

III. — Ciò nondimeno noi crediamo che, quando i nostri lontani nepoti potranno giudicare spassionatamente l'opera dei loro antenati, dovranno riconoscere che l'epoca, che sarà appellata nella storia col nome del secolo decimonono, è stata una delle più grandi e magnifiche fra tutte quelle che l'umanità ha attraversato.

Difatti durante essa il pensiero umano, non più limitato e costretto entro confini che non poteva violare, sia nel campo delle scienze naturali che in quello delle scienze storiche e sociali, ha ottenuto risultati che hanno di molto superato il patrimonio intellettuale che le civiltà del passato ci avevano tramandato. Giammai, come negli ultimi cento o centoventi anni, l'uomo ha avuto a sua disposizione tanti potenti e nuovi strumenti di osservazione e tanta copia di esatte informazioni sui fenomeni naturali e su quelli sociali, e giammai quindi ha potuto rendersi e si è reso un conto così esatto e minuto delle leggi che governano il mondo in cui vive e di quelle che regolano i suoi stessi istinti e le sue stesse azioni ed ha potuto meglio conoscere l'universo di cui fa parte e se stesso.

E gli effetti dell'applicazione delle cognizioni accennate ai progressi della vita materiale sono troppo noti e troppo sono stati celebrati perchè sia necessario di ricordarli. Tutti sanno infatti che oggi, con lo stesso sforzo, il lavoro umano può raggiungere un risultato che alle volte è decuplo di quello di cento anni fa, e che il progresso dei mezzi di comunicazione e della tecnica agraria ed industriale hanno reso possibile lo scambio di prodotti, di servizi e di cognizioni fra paesi remoti, e che tutto ciò ha prodotto un'agiatezza, proporzionatamente diffusa fra tutte le classi sociali, che mai nel passato era stata raggiunta.

A tutti questi risultati scientifici ed economici deve avere necessariamente contribuito il regime politico, ma, anche limitando ad esso la nostra indagine, dobbiamo riconoscere le grandi benemerenze, che, attraverso le illusioni che lo hanno guidato, costituiscono e costituiranno il merito imperituro del secolo decimonono. — Certo che quel governo della maggioranza e quella uguaglianza politica assoluta, che il secolo avea scritto nella sua bandiera, non furono attuate perchè non potevano diventare una realtà, e che lo stesso si può dire della fratellanza; ma le file delle classi dirigenti sono rimaste aperte, le barriere che impedivano agli individui delle classi più umili di entrarvi sono state tolte od almeno abbassate e la trasformazione dell'antico Stato assoluto nel moderno Stato rappresentativo ha reso possibile a quasi tutte le forze politiche, ossia a quasi tutti i valori sociali, di partecipare alla direzione politica della società.

E bisogna inoltre ricordare che la trasformazione accennata ha suddiviso la classe politica in due rami distinti: quello proveniente dalle elezioni popolari e quello burocratico; e che ciò non ha soltanto permesso di utilizzare meglio tutte le capacità individuali ma ha reso possibile quella ripartizione delle funzioni sovrane, ossia dei poteri dello Stato, che, dove le condizioni della società sono tali da renderla effettiva, costituiscono il merito principale dei regimi rappresentativi, quello per il quale essi hanno dato risultati migliori di tutti quegli altri che hanno potuto finora essere applicati a grandi organizzazioni politiche [505]. Rousseau si propose un fine irraggiungibile quando volle dimostrare che unica forma di governo legittima è quella fondata sull'espresso consenso della maggioranza dei consociati; ma Montesquieu invece espose un concetto molto più pratico e profondo quando sostenne che, affinchè un popolo sia libero, cioè governato secondo la legge e non secondo l'arbitrio dei suoi reggitori, bisogna che abbia una organizzazione politica nella quale il potere arresti e limiti il potere e non vi sia perciò nessun individuo e nessuna assemblea che abbiano nello stesso tempo la facoltà di fare la legge e quella di applicarla. E, per completare questa dottrina, basta tener presente che l'azione di un organo politico può essere efficace solo quando esso rappresenta una frazione della classe politica diversa da quella rappresentata dall'altro organo che deve esser limitato e controllato.

Se poi facciamo il debito conto delle libertà individuali, che difendono il cittadino contro la possibile azione arbitraria di tutti i poteri dello Stato, e sopratutto della libertà della stampa, che, insieme a quella delle discussioni parlamentari, può richiamare l'attenzione del pubblico su tutti i possibili abusi dei governanti, facilmente possiamo renderci ragione della grande superiorità dei regimi rappresentativi. La quale ha permesso la costituzione di una forma di Stato fortissima, che ha potuto incanalare verso fini d'interesse collettivo una somma immensa di energie individuali e nello stesso tempo non le ha schiacciate e soppresse; e ha perciò lasciato ad esse una vitalità sufficiente per conseguire altri grandi risultati, sopratutto nel campo scientifico e letterario ed in quello economico. — Si può quindi con quasi sicurezza affermare che, se durante l'epoca che ora accenna a tramontare, i popoli di civiltà europea hanno potuto mantenere il loro primato nel mondo ciò si deve in massima parte ai benefici effetti del loro regime politico [506].

A dir vero, fin dal secolo decimottavo, quando vigeva ancora il regime assoluto burocratico, si era già affermata la superiorità militare ed amministrativa degli Stati europei su quelli di civiltà asiatica. Difatti la Turchia dopo i due trattati di pace di Carlowitz e di Passarowitz, che furono conchiusi nel 1699 e nel 1718, non costituiva più una minaccia permanente per l'Europa e, già nella seconda metà del secolo decimottavo, la conquista inglese dell'India era condotta a buon punto; ma forse non fu effetto del caso se essa avvenne per opera di quello Stato europeo che per il primo avea adottato il regime rappresentativo. Ed è noto poi che la prevalenza degli Stati europei su quelli asiatici si è sempre più affermata ed è rimasta inconcussa per tutto il secolo decimonono fino al 1904, quando il Giappone, avendo già adottato l'organizzazione militare ed amministrativa europea, potè vincere la Russia. E naturale che questa vittoria abbia fatto nascere la speranza di una prossima riscossa nei popoli di civiltà asiatica, speranza che si è notevolmente accresciuta dopo che l'ultima grande guerra ha esaurito tanta parte dell'Europa ed ha messo in evidenza i lati deboli della sua organizzazione.

Certamente, già prima del 1914, ad un osservatore sagace non poteva sfuggire che il centro di gravità della civiltà europea tendeva a spostarsi verso l'America, dove specialmente gli Stati Uniti, il Canada, il Brasile e l'Argentina dispongono di vastissimi territori e di grandi ricchezze naturali, ancora assai incompletamente sfruttate, e potrebbero nell'avvenire sostentare una popolazione almeno quadrupla di quella odierna. Ma, fino alla vigilia della grande guerra europea, questi paesi per sviluppare le loro ricchezze avevano ancora bisogno di capitali e di lavoratori che solo l'Europa poteva loro fornire [507]. Sicchè il pericolo della loro prevalenza sul vecchio mondo potea ancora essere considerato come non imminente, anche perchè parecchi Stati europei avevano già iniziato a loro profitto la valorizzazione dell'Africa equatoriale ed australe, dove sono pure grandi territori abitati da popolazioni primitive, e quindi per un pezzo facilmente governabili, e sono quindi suscettibili col tempo di fornire quelle materie prime delle quali la sovrapopolata Europa ha indispensabile bisogno [508].

IV — Come tutti i regimi politici, anche il regime rappresentativo conteneva, durante l'epoca che corrisponde al secolo decimonono, i germi che ne preparavano la lenta trasformazione o la rapida dissoluzione. Abbiamo già detto nel capitolo precedente come solo mediante la lenta e continua trasformazione dei regimi politici si possono evitare quei periodi di rapida dissoluzione, che sono accompagnati da crisi violente apportatrici di inaudite sofferenze alle generazioni che le subiscono, e che quasi sempre le fanno tornare indietro nel cammino della civiltà.

Il primo di questi germi è stato ed è senza dubbio la contraddizione evidente fra uno dei fini principali che il secolo si era proposto ed il risultato che aveva raggiunto. L'Europa, e sopratutto l'Europa centrale ed occidentale, ha avuto finora una forma di governo che assicurava abbastanza la libertà individuale, che faceva sì che l'azione dei governanti fosse sufficientemente controllata e moderata, che ha reso possibile lo sviluppo di una grande prosperità materiale, ma che, come abbiamo visto, non ha attuato l'uguaglianza nè dato alle maggioranze la direzione effettiva dei vari paesi. Giacchè le masse popolari tutto al più, al momento delle elezioni, sono state lusingate con la promessa di qualche vantaggio materiale, spesso più apparente che reale, e che, quando è stato realmente concesso, spessissimo ha danneggiato gli interessi della economia nazionale e quindi anche quelli delle classi più umili [509].

Date queste condizioni psicologiche e materiali della società europea, non riesce difficile comprendere come in seno alla stessa borghesia siasi costituito un fortissimo partito politico, in parte formato d'idealisti ed in parte da ambiziosi, che aspirava ed aspira a rendere reale l'uguaglianza e la partecipazione delle masse alla direzione dello Stato, e come a questo partito abbiano aderito moltissimi fra coloro che, nati nella classe dei lavoratori manuali, sono riusciti ad acquistare una certa cultura. Ed è naturale che questo partito sia arrivato subito alla conclusione che, senza l'abolizione della proprietà privata, non poteano essere instaurate nel mondo nè una giustizia assoluta nè una reale uguaglianza.

Piuttosto può sembrare a prima vista meno naturale che la borghesia europea abbia durante il secolo decimonono, e si può dire fino al 1914, combattuto in generale assai mollemente e saltuariamente la diffusione delle dottrine socialiste e l'organizzazione di quelle forze politiche che queste dottrine aveano abbracciato. Ma ciò è avvenuto per una serie di motivi, fra i quali vanno compresi l'omaggio a quei principii liberali, secondo i quali si dovrebbe affidare al buon senso del pubblico lo sceverare la verità dall'errore, ciò che è attuabile dall'inattuabile, e quel senso di vago ottimismo, che durò quasi inalterato fino agli ultimi decenni del secolo scorso. Il quale manteneva salda la fiducia nella ragionevolezza e nella bontà umana, nella futura educazione delle masse popolari affidata ai maestri di scuola, e facea comunemente ammettere come sicuro che il mondo fosse incamminato verso un'era di concordia e di felicità universale. E poi, diciamolo pure, la mentalità borghese è stata fino a ieri impregnata di molti dei concetti che formano la base intellettuale del socialismo; sicchè la borghesia, prigioniera dei propri pregiudizi, lo ha combattuto fino alla vigilia del 1914 con la mano destra legata e con la sinistra notevolmente impacciata. Anzi, invece di apertamente combatterlo, in molti paesi d'Europa è venuta con esso a patti ed ha accettato transazioni dannose e qualche volta indecorose.

E le conseguenze di questa debolezza si sono aggravate per il fatto che, fra tutti i vangeli socialisti, fu dichiarato canonico ed universalmente adottato quello che, mentre prometteva il trionfo sicuro della dottrina, più eccitava quel sentimento che è fra tutti il più atto a minare e distruggere la compagine di un popolo o di una civiltà: cioè l'odio. Abbiamo già notato nella prima parte di questo lavoro quanto fosse efficace e perniciosa la propaganda dissolvitrice di odio fra le classi sociali contenuta nelle pagine del Capitale di Carlo Marx; oggi da una recente pubblicazione possiamo apprendere che l'eccitazione di questo sentimento entrava precisamente nei fini che l'autore coi suoi scritti si proponeva di raggiungere [510]. E, se si obietterà che fra tanti socialisti o comunisti forse uno fra mille avrà letto e compreso il libro accennato, risponderemo che dal nuovo Vangelo si è avuto cura di estrarre un breve catechismo, che tutti hanno potuto facilmente imparare a memoria. Sicchè oggi non vi è quasi operaio della grande industria il quale non creda, o per lo meno non abbia sentito ripetere, che la ricchezza del padrone o degli azionisti, che hanno fornito il capitale alla fabbrica, è stata costituita sottraendo ai lavoratori manuali una parte del salario che loro spettava, e non vi è quasi in moltissimi paesi un contadino che lavori a giornata al quale una analoga notizia non sia arrivata.

Ma se il socialismo, e la sua frazione più avanzata che oggi appellasi comunismo, sono pericolosi per lo stato d'animo che creano e mantengono nelle masse e per la organizzazione dei loro seguaci, che secondo i vari paesi è più o meno forte, un altro pericolo incombe sugli Stati moderni che è forse più grave. Perchè esso non proviene da uno stato mentale, che può essere modificato, o dall'eccitamento di alcune passioni, le quali possono a poco a poco essere calmate, ma dalla natura stessa dell'organizzazione economica che la società moderna ha adottato e che non può abbandonare senza che rinunzi a gran parte del suo benessere, alla soddisfazione di molti bisogni recenti ma che ornai sono entrati nel numero delle cose indispensabili.

La divisione del lavoro e la specializzazione nella produzione hanno difatti nella società europea raggiunto tali progressi che senza le ferrovie, la navigazione a vapore, le poste, il telegrafo e senza il carbon fossile necessario per fare muovere tutte le macchine, nessuna grande città potrebbe vivere più di qualche mese, e qualche grande nazione sarebbe, dopo pochi mesi, ridotta nella impossibilità di nutrire più della metà della propria popolazione. Giammai come oggi la vita materiale di ogni individuo è stata in diretta dipendenza del perfetto funzionamento di tutti i meccanismi sociali. E, siccome il funzionamento di ogni meccanismo è affidato ad una determinata classe di persone, la vita normale dell'intiera collettività viene a dipendere dal buon volere di ognuna di queste classi.

Da questa condizione di cose, che riesce assai difficile di modificare, è nato il pericolo sindacalista,, cioè la possibilità che una piccola frazione della società s'imponga a tutta la società. Oggi a rigore non è necessario che si ripeta fedelmente il famoso apologo di Menenio Agrippa, cioè che tutte le membra congiurino a danno dello stomaco, o, come sarebbe più esatto di dire, a danno del cervello, ma basterebbe che un solo membro, un solo organo importante, cessasse di prestare il proprio ufficio perchè il cervello, e tutti i centri nervosi che da esso dipendono, potessero restare immobilizzati.

È naturale che ogni classe di persone addette ad una speciale funzione, avendo una certa omogeneità di spirito, di cultura e sopratutto d'interessi, abbia cercato di organizzarsi in sindacati professionali sotto proprii capi, e che i sindacati, una volta organizzati, abbiano subito intuito la loro potenza ed il profitto che potevano trarne. Quindi ciò che comunemente appellasi sindacalismo è diventato per gli Stati moderni un pericolo forse più grave di quello rappresentato negli Stati medioevali dal feudalismo. Infatti nell'età di mezzo, data l'organizzazione primitiva della società e quindi dello Stato, ogni frazione di esso poteva bastare a se stessa, poichè disponeva di tutti gli organi necessari alla propria vita, e perciò la contrapposizione della parte rispetto al tutto avveniva secondo criteri locali, mentre oggi la contrapposizione della parte al tutto avrebbe una base funzionale. Allora un potente barone od un grosso Comune, od una lega di baroni e di Comuni, potevano imporre la propria volontà all'Imperatore od al Re, oggi un potente sindacato, ed a forziori, una lega di sindacati, potrebbe imporla allo Stato.

Per scongiurare questo pericolo sarebbe necessario che ad ogni costo s'impedisse la rinascita di una nuova sovranità intermedia fra l'individuo e lo Stato, del genere di quella che esisteva nel Medio Evo, quando il vassallo obbediva direttamente al barone e non già al Re; ossia in altre parole sarebbe indispensabile che i capi degli attuali governi fossero sempre più obbediti dei capi dei sindacati e che la devozione agli interessi della nazione fosse sempre più forte della devozione agli interessi della classe. Ma è noto pur troppo che una delle maggiori debolezze della presente società europea, un altro di quei germi di dissoluzione dei moderni regimi rappresentativi ai quali abbiamo accennato, consiste appunto nella rilassatezza di quelle forze di coesione morale, le quali sono le sole capaci di riunire tutti gli atomi che compongono un popolo in un comune consenso di sentimenti e di idee, e costituiscono perciò il cemento senza il quale ogni edificio politico rimane sempre barcollante e caduco.

Difatti l'antica religione, la cui dottrina fondamentale ha sempre mirato ad affratellare tutti i cittadini della stessa nazione e tutte le nazioni cristiane fra di loro, ha perduto, specialmente negli ultimi due secoli, buona parte del suo prestigio e della sua efficacia pratica, per una serie di cause che non è qui il luogo di enumerare. Diremo soltanto che, sopratutto per quel che riguarda le nazioni latine, fra esse va rilevata l'ostilità delle classi dirigenti, le quali troppo tardi ora si accorgono che, emancipando le plebi da quelle che, con soverchia leggerezza, venivano chiamate viete superstizioni, le gettavano in braccio ad un gretto e grossolano materialismo ed aprivano la strada a superstizioni peggiori [511]. Indebolito il legame religioso, si è creduto di poterlo sostituire con la fede nei tre principii già enumerati, cioè nella libertà, nell'uguaglianza e nella fratellanza, la cui attuazione avrebbe dovuto inaugurare in questo mondo una nuova êra di pace e di giustizia universale. Ma la propaganda socialista non ha dovuto stentare molto a dimostrare che questa fede non si appoggiava sulla verità, che la democrazia per quanto larga non impediva che il potere restasse in mano alle classi dirigenti, a quella che i socialisti chiamano borghesia e che, secondo loro, sarà sempre divisa da un insanabile contrasto d'interessi dalle classi più umili della società.

Come principale fattore di coesione morale ed intellettuale nel seno dei diversi popoli europei è rimasto perciò il patriottismo. Anche esso combattuto generalmente dai socialisti come una invenzione delle classi dirigenti, destinata ad impedire l'unione pronosticata da Marx dei proletari di tutto il mondo contro la borghesia di tutto il mondo, ma che, avendo oggi radici più salde nell'anima dei popoli moderni, ha meglio resistito agli attacchi dei suoi avversari. Il patriottismo infatti ha la sua base nella comunità d'interessi che lega coloro che abitano lo stesso paese, e nella comunità di sentimenti e d'idee, che quasi infallibilmente si stabilisce fra uomini che parlano la stessa lingua, che hanno lo stesso passato, che hanno avuto comuni le glorie, le fortune e le sventure, ed esso infine soddisfa quel bisogno che ha l'animo umano di amare la collettività alla quale si appartiene a preferenza di tutte le altre.

Sarebbe assai arrischiato, e forse anche non corrispondente a verità, l'affermare che la borghesia europea abbia avuto una chiara e precisa coscienza del grande ostacolo morale che il patriottismo opponeva ai progressi del socialismo; ma è certo che, a cominciare dai primissimi anni del secolo ventesimo, si notò nella gioventù colta di quasi tutti i paesi europei un potente risveglio di sentimenti patriottici. Disgraziatamente l'amore per la propria nazione ed il desiderio naturale che essa sempre più si affermi nel mondo spesso si accoppiano alla diffidenza e qualche volta all'odio verso le nazioni straniere; sicchè la sovraeccitazione del patriottismo contribuì a creare quell'ambiente morale ed intellettuale che rese possibile lo scoppio della guerra mondiale.

V. — Le gravi e profonde conseguenze della lunga guerra, durante la quale ognuno dei popoli che vi parteciparono tese all'estremo le sue forze, sono ornai troppo note perchè sia necessario di minutamente descriverle [512]. Accenneremo quindi soltanto che alla fine del 1918 tutti gli Stati belligeranti si erano caricati di un enorme debito pubblico e, siccome la maggior parte delle somme procacciate mercè i debiti erano state dedicate a scopi guerreschi economicamente improduttivi ed un'altra parte avea trasmigrato presso le nazioni neutrali o che molto tardi entrarono in guerra, così fra le nazioni che maggiormente sostennero il peso della guerra anche i capitali privati si trovarono in quell'epoca notevolmente diminuiti. Era quindi inevitabile che al periodo di prosperità anteriore al 1914 dovesse susseguire un periodo di relativa povertà, il quale fra le nazioni già meno ricche e sopratutto fra quelle vinte, e perciò peggio trattate, potè inacerbirsi fino a diventare miseria.

Ed al disastro economico si aggiunse quello morale per la mutata distribuzione di quel tanto di ricchezza che pure restava. Difatti, nelle nazioni che avevano preso parte al terribile cimento, ed anche, sebbene in proporzioni minori, in quelle rimaste neutrali, mentre una parte notevole della popolazione sensibilmente impoveriva, una minoranza più o meno numerosa trovava nella guerra occasione di improvvisi e lauti guadagni. Ora nessuna cosa demoralizza più gli uomini quanto il vedere la ricchezza acquistata rapidamente e senza meriti speciali accanto alla povertà improvvisa e che non è conseguenza di una colpa. Questo spettacolo ferisce da un lato il sentimento della giustizia e sovraeccita dall'altro oltremodo l'invidia e la cupidigia. Molti, che fino al grande cataclisma si erano conservati onesti, divennero disonesti, perchè vollero ad ogni costo entrare fra i nuovi ricchi anzichè subire la sorte dei nuovi poveri.

Ma ciò che sopratutto ha contribuito a diminuire la saldezza dell'organizzazione politica ed a turbare l'equilibrio fra le classi sociali, è stato l'impoverimento della classe media, di quella parte della borghesia che viveva e vive del frutto di piccoli risparmi, di mediocri proprietà immobiliari e sopratutto di quello del proprio lavoro intellettuale. Abbiamo già visto come il sorgere di questa classe sia stato uno dei fattori che hanno creato le condizioni necessarie per il retto funzionamento del sistema rappresentativo; è quindi naturale che la sua decadenza economica, che, se duratura, sarà necessariamente seguita da quella intellettuale e morale, renderà molto difficile la continuazione del regime accennato.

Infine, in tutti i paesi che presero parte lungamente alla guerra, la macchina dello Stato dovette sobbarcarsi a tale ed a tanto lavoro, dovette comprimere e schiacciare tale una quantità di passioni, di sentimenti e d'interessi individuali, che non è da maravigliare se i suoi congegni ad un certo punto accennarono a guastarsi e ad arrestarne il funzionamento. Anzi, si può dire che, dove essa era più debole, cioè in Russia, il guasto fu tale che ne andò senz'altro distrutta; ma anche in tutti gli altri paesi è evidente che ha più o meno bisogno di riposo e di riparazioni.

Queste ed altre cause secondarie hanno reso in quasi tutti gli Stati europei più o meno arduo il funzionamento del regime politico in vigore prima della guerra. Sicchè è sorta, sopratutto in qualche paese più travagliato degli altri dai comuni dolori, l'idea che la crisi presente si possa e debba risolvere mediante una profonda e radicale trasformazione delle istituzioni ereditate dal secolo precedente, e che questo debba essere appunto il compito della nuova generazione, della gioventù, la quale, dopo aver fatto la guerra, dovrebbe disfare l'opera politica dei suoi padri per rifarla seguendo un indirizzo nuovo e migliore.

Or, esaminando le presenti condizioni economiche, intellettuali e morali della società europea, tenendo conto delle diverse correnti d'idee, di sentimenti e d'interessi che in essa si agitano, tre sarebbero le sole soluzioni radicali possibili della presente crisi politica: quella già adottata in Russia, cioè la così detta dittatura del proletariato con il relativo esperimento comunista, il ritorno all'antico assolutismo burocratico, ed infine il sindacalismo, cioè la sostituzione nelle assemblee legislative della rappresentanza delle classi a quella degli individui.

Gli effetti della così detta dittatura del proletariato, dopo l'esperimento che di essa ha fatto e sta facendo la Russia, sono omai abbastanza noti e tali che molti antichi e ferventi seguaci del Marxismo sono oggi più o meno apertamente contrari all'attuazione immediata del programma del loro maestro [513]. Difatti, sebbene coloro che attualmente governano l'antico impero degli Czar si sforzino oggi di temperare l'attuazione del programma accennato, sebbene sia inevitabile che in Russia col tempo dalle fila di coloro stessi che hanno fatto la rivoluzione esca una nuova borghesia e si ristabilisca, nella sostanza se non nella forma, la proprietà privata, riuscì colà impossibile di evitare nei primi momenti l'attuazione di un tentativo di comunismo integrale [514]. E si sa come il tentativo accennato abbia rapidamente prodotto la disorganizzazione completa di ogni genere di produzione e quindi la carestia e la fame. Nè crediamo che se il comunismo trionfasse in altre parti d'Europa sarebbe possibile di evitare un esperimento analogo, che avrebbe infallibilmente effetti identici e forse anche peggiori; perchè la sovrapopolata Europa occidentale ha bisogno continuo, anche in tempi normali, di alcune materie prime che sono indispensabili alla vita quotidiana e che solo le altre parti del mondo, e segnatamente l'America, possono ora fornirle.

Oltre a questi risultati d'indole economica la dittatura del proletariato avrebbe, in qualunque paese, risultati morali disastrosi, ancora peggiori forse di quelli che abbiamo descritto e predetto, quasi trenta anni fa, nella prima parte di questo lavoro [515]. In nome di quella dittatura infatti in Russia si è quasi sterminata l'antica classe dirigente e la si è sostituita con un'altra, certo più avveduta ed energica, e forse anche più intelligente, ma che è stata ed è, quasi per necessità, moralmente assai più bassa. Poichè, per reggersi contro il malcontento generale, per fronteggiare la disperazione di tutti coloro che di essa non fanno parte e per supplire ad altre sue deficienze, deve governare tirannicamente, passando di sopra a tutti gli scrupoli ed imponendo l'obbedienza col terrore.

Ma diremo di più: cioè che in Russia bene o male è stato possibile di trovare un'altra classe dirigente che ha sostituito l'antica; mentre nell'Europa occidentale ciò riuscirebbe quasi impossibile e quindi il comunismo si risolverebbe o meglio si dissolverebbe presto in una completa anarchia. In Russia infatti l'antica borghesia è stata sostituita dalla piccola borghesia ebraica e da altri elementi più o meno allogeni, come sarebbero i Lettoni, gli Armeni ed i Tartari maomettani, ed in ognuno di questi elementi gli individui che lo compongono erano e sono fra loro legati da un'antica solidarietà di razza, di lingua e di religione e dalle comuni piccole persecuzioni ed esclusioni dalle quali erano colpiti sotto il governo degli Czar, e quindi gli attuali reggitori possono contare sulla loro fedeltà [516]. Nell'Europa occidentale queste minoranze diverse per razza e per religione dal resto della popolazione non esistono, e, se pure ve n'è qualcuna, essa si trova in condizioni tali da farle nella sua grande maggioranza temere assai l'avvento del comunismo. Sicchè la nuova classe dirigente, necessariamente reclutata fra la frazione più violenta della plebe e la parte meno sana della vecchia borghesia, riuscirebbe intellettualmente insufficiente e mancherebbe quasi sicuramente di quel minimo di moralità che deve regolare i rapporti fra coloro i quali commettono insieme una grande bricconata, se si vuole che questa raggiunga un duraturo successo.

Ed accenneremo infine che anche minori probabilità di durata di una schietta e sincera dittatura del proletariato avrebbe attualmente nell'Europa occidentale un esperimento di socialismo sedicente temperato che, lasciando provvisoriamente e nominalmente sussistere la proprietà privata, la sottomettesse a tali pesi ed a tali limitazioni da renderne impossibile il funzionamento. Un simile regime sarebbe sempre esposto ai violenti attacchi dei comunisti puri, senza avere l'autorità e la forza di reprimerli, e non disporrebbe oggi di quel margine di ricchezza che è indispensabile per potersi permettere gli sperperi che sono inevitabili anche quando si vuole attuare un socialismo temperato. Perciò esso, a causa dei suoi insuccessi e delle delusioni che creerebbe, o degenererebbe presto nel comunismo puro o preparerebbe senz'altro la trasformazione dell'attuale regime politico ed economico in una dittatura burocratica e militare.

Questa trasformazione, che corrisponderebbe alla seconda delle soluzioni della crisi presente del regime rappresentativo, potrebbe forse diventare momentaneamente opportuna in qualche paese d'Europa, ma presenterebbe anche essa inconvenienti gravissimi se fosse adottata come soluzione definitiva. Poichè ciò significherebbe che l'elemento elettivo, il quale, in tutti i paesi retti con una delle diverse modalità del sistema rappresentativo, ha avuto fino al 1914 una partecipazione importante ed efficace nell'esercizio dei poteri sovrani, dovrebbe scomparire dalla vita pubblica o venire ridotto a contentarsi di funzioni secondarie o decorative, lasciando alla burocrazia civile e militare un'autorità effettiva quasi incontrastata [517].

Infatti abbiamo già visto quanto sia grande l'importanza che ha nello Stato moderno la partecipazione dell'elemento elettivo e come la grande superiorità e la forza precipua dei moderni regimi politici risiedano nell'accorta contemperanza, che essi consentono, del principio liberale con quello autocratico, il primo rappresentato nelle Camere e nei Consigli dei corpi locali, il secondo costituito dalla burocrazia stabile. Ed abbiamo visto come questa compartecipazione sia necessaria perchè tutte le forze e le capacità politiche siano ammesse nella vita pubblica e si possa ottenere quel controllo e quella limitazione reciproca fra i poteri sovrani, che è condizione indispensabile della libertà politica, la quale altrimenti diventa un'espressione priva di significato pratico. Poichè anche la libertà della stampa e tutti in genere i diritti individuali, ossia tutte le guarentigie concesse ai cittadini contro gli arbitri dei pubblici funzionari, sarebbero insufficientemente tutelate una volta che l'elemento elettivo venisse a pesare poco o nulla nella bilancia dei pubblici poteri.

Si ritornerebbe in altre parole a quel regime assoluto, probabilmente mascherato da una larva di sovranità popolare, per distruggere il quale i nostri padri strenuamente lottarono, che la giovine generazione non ha visto e che generalmente non sa neppure come fosse fatto. Ora le conseguenze di questo regime sarebbero oggi infinitamente più gravi di quello che potevano essere un secolo o anche mezzo secolo fa; perchè nel frattempo le attribuzioni dello Stato, e con esse la quantità di ricchezza che questo assorbisce e distribuisce, sono oltremodo aumentate. Sicchè l'assolutismo dei governanti non troverebbe più come una volta, e come accade ancora nelle organizzazioni politiche rozze e primitive, un freno ed un limite nella scarsezza dei mezzi di cui il governo dispone. Oggi, data l'attuale perfezione ed il grande sviluppo preso dalla macchina statale, una burocrazia il cui potere non fosse limitato e controllato, facilmente potrebbe spezzare qualunque resistenza individuale e collettiva, sopprimere ogni iniziativa di elementi estranei ad essa ed esaurire l'intiero corpo sociale succhiandone tutte le forze vitali.

E finalmente non impiegheremo molte parole per descrivere i pericoli della terza soluzione radicale dell'attuale crisi del regime parlamentare, cioè della soluzione sindacalista; poichè dopo quanto abbiamo scritto in proposito poche pagine avanti ci sembra che essi debbano già riuscire evidenti. Difatti una Camera che disponesse di poteri sovrani, che partecipasse alla formazione delle leggi e che fosse la rappresentanza legale dei sindacati di classe fornirebbe la migliore base possibile per la organizzazione di quella sovranità intermedia fra gli individui e lo Stato, la quale rappresenta forse la minaccia più grave che incombe sulla società nell'attuale momento politico. Poichè, per mezzo dei loro rappresentanti, i sindacati stessi potrebbero esercitare un'azione efficacissima entro lo Stato e contro lo Stato e paralizzare ogni sforzo che questo potrebbe fare per sottrarsi alla loro tutela.

E sarebbe ingenuo supporre che la coesistenza di un'altra Camera, o anche di altre due Camere, formate coll'antico sistema della rappresentanza individuale o con altri elementi estranei ai sindacati, sarebbe sufficiente a controbilanciare l'azione della terza Camera eletta dai sindacati. Si dovrebbe infatti omai sapere che l'efficacia di un organo politico, l'importanza che esso assume nella direzione effettiva dello Stato, non è prevalentemente in relazione coi poteri legali che gli statuti fondamentali gli conferiscono, ma piuttosto proviene dal prestigio di cui l'organo stesso gode nella pubblica opinione e sopratutto dalla quantità di forze sociali, d'interessi, di idee e di sentimenti che in esso trovano la loro espressione. Ed è appunto per questa ragione che fino ad oggi le Camere che provenivano direttamente dall'elezione popolare hanno in generale esercitato maggiore influenza di quelle formate con criteri diversi, sebbene spessissimo queste ultime contassero fra i loro membri un numero maggiore di capacità tecniche e di valori individuali. Ora, data l'importanza che l'opera delle singole classi ha acquistato nella vita economica di ogni paese civile, non è esagerato supporre che l'azione della Camera sindacale potrebbe facilmente prevalere su quella delle altre; molto più se si tiene presente che i sindacati più numerosi potrebbero coi loro suffragi compatti e disciplinati influire moltissimo sulle elezioni dei membri della Camera che conservasse la presente base individuale.

Nè si deve infine credere che in una Camera composta dai rappresentanti dei sindacati facilmente prevarrebbero gli elementi più colti, come sarebbero ad esempio i rappresentanti dei magistrati e dei professori, o quelli degli avvocati e degli ingegneri. Anzi molto probabilmente la preponderanza sarebbe quasi immediatamente assunta dai rappresentanti dei ferrovieri, dei marinai, degli scaricatori dei porti ed, in Inghilterra ed in Germania, anche da quelli dei minatori; perchè la forza di un sindacato non sarebbe in ragione della cultura dei suoi aderenti, ma piuttosto in ragione del loro numero e sopratutto della indispensabilità della funzione, che ad ogni classe è affidata, per la vita quotidiana della società. Ed è certo più indispensabile la funzione dei ferrovieri e dei panattieri che quella dei professori e degli avvocati. Perciò se i sindacati più incolti e più numerosi, tutti più o meno iniziati alle dottrine marxiste e studiosamente allevati nella credenza della necessità della così detta lotta di classe, si mettessero d'accordo, essi potrebbero senz'altro impadronirsi della direzione dello Stato. Se poi, come è probabile, l'accordo alla lunga riuscisse impossibile, allora si avrebbe una grande disorganizzazione economica, che sarebbe completata dall'anarchia politica [518].

VI. — Da quanto abbiamo detto risulta evidente che le tre sole soluzioni radicali possibili della crisi che ora attraversa il regime rappresentativo condurrebbero le nazioni europee all'adozione di un regime politico meno perfetto, e si potrebbe anche dire più rozzo, di quello finora esistente. Esse sarebbero l'indizio di una decadenza politica, che al solito diventerebbe nello stesso tempo causa ed effetto di una decadenza generale della civiltà. Certo che nessuno vorrà affermare che il regime rappresentativo non possa essere suscettibile di notevoli perfezionamenti e che esso non possa col tempo essere sostituito da un altro migliore. Anzi, se l'Europa potrà vincere le difficoltà del momento presente, è probabile che, nell'anno duemila e forse anche prima, fra trenta quarant'anni, spontaneamente, come conseguenza delle nuove idee, dei nuovi sentimenti e dei nuovi bisogni che saranno maturati, potranno essere attuati altri ordinamenti politici preferibili a quelli ora esistenti.

Disgraziatamente i risultati morali ed economici della lunga guerra hanno reso proprio in questo momento difficile il retto funzionamento delle istituzioni che erano in vigore fino al 1914; le quali, come abbiamo visto, richiedevano e richiedono, come condizione necessaria per mantenere integra la loro vitalità, la continuazione di quel periodo di pace relativa e di prosperità generale di cui il mondo ha goduto negli ultimi decenni del secolo scorso e nel primo di quello corrente. La guerra non ha creato, ma bensì ha reso più virulenti ed attivi, i germi di dissoluzione che il regime rappresentativo, come qualunque altro, conteneva e contiene; e l'azione di questi germi oggi ne minaccia l'esistenza prima che le forze riparatrici, le quali agiscono nel seno di ogni società la cui vitalità non sia esaurita, abbiano potuto elaborare gli elementi necessari per la creazione di un nuovo tipo di organizzazione politica più elevato di quello finora in vigore. In altre parole, la vecchia casa minaccia di crollare prima che siano pronti i materiali per costruire la nuova; e perciò, se il crollo avvenisse, bisognerebbe rifugiarsi fra i ruderi di una casa ancora più vecchia, e che fu da due o tre generazioni abbandonata, ovvero in una capanna improvvisata.

Ed è per queste ragioni che pur avendo quarant'anni fa iniziato la nostra carriera di scrittore con un volume giovanile, che però non rinneghiamo, nel quale abbiamo cercato di mettere a nudo le menzogne contenute nei presupposti del regime rappresentativo e le magagne del Parlamentarismo, oggi che l'età avanzata ha reso più cauti ed oseremmo dire più ponderati i giudizi e più meditate le conclusioni, considerando attentamente e spassionatamente le condizioni di molti popoli europei e sopratutto quello della nostra Italia, ci sentiamo costretti a raccomandare alla generazione novella la restaurazione e la conservazione di quel regime politico che essa ha ereditato dai suoi padri [519].

È evidente che l'opera non è facile. Anzitutto perchè occorre che siano almeno iniziati la restaurazione economica dell'Europa ed il conseguente miglioramento delle condizioni della classe media, senza la cooperazione della quale nessuna forma di regime rappresentativo riesce alla lunga possibile, ed è noto che alla cennata restaurazione fanno pur troppo ostacolo gli odî ancora vivi fra le varie classi sociali e quelli ancora più vivi fra i diversi popoli europei, odii che la guerra ha terribilmente eccitato e che non si sono fino ad oggi sopiti. Bisognerebbe perciò che nella mente e nei cuori di tutte le nazioni europee entrasse finalmente la convinzione che esso hanno molti comuni e supremi interessi da salvaguardare, e che sono tra loro legate da tale una fitta rete di rapporti intellettuali, sentimentali ed economici ed hanno tali affinità psicologiche e culturali che riesce impossibile che le sofferenze, l'avvilimento, la decadenza di una di esse non abbiano il loro contraccolpo su tutte le altre.

La restaurazione del sistema rappresentativo non significa poi che esso non possa e non debba, sopratutto in qualche paese, subire alcune modificazioni. Secondo noi una delle più importanti dovrebbe riguardare la legislazione sulla stampa; nella quale non dovrebbe poi riuscire impossibile di conservare integra la libertà dell'indagine scientifica e l'esercizio di una onesta critica verso gli atti dei governanti, rendendo più difficile quella corruzione d'intelletti, che sono e saranno eternamente minorenni, la quale finora è stata, in qualche nazione europea, liberamente esercitata. E, volendo raggiungere questo fine, bisognerebbe sopratutto adottare il principio che la responsabilità dei reati di stampa, come quella di qualunque altro reato, deve essere attribuita a colui che realmente li ha commesso, cioè allo scrittore [520]. Un'altra modificazione necessaria ed urgente, se non in tutti in parecchi paesi d'Europa, dovrebbe riguardare i limiti della libertà di associazione, che alle volte sono così vaghi ed indefiniti da permettere ad un governo forte ed autoritario di sopprimere con misure di polizia ogni associazione e da non offrire nello stesso tempo ad un governo debole e timido alcuna efficace difesa di fronte all'organizzazione di elementi contrari alla forma attuale dello Stato e che mirano ad impadronirsi dei suoi stessi organi per sopraffarlo [521].

Ma per superare la presente crisi, che minaccia gli ordinamenti politici e la stessa compagine sociale, più di ogni altra cosa occorre che la classe dirigente, spogliandosi di molti pregiudizi e modificando la propria mentalità, acquisti la coscienza di esser tale ed abbia quindi chiara la nozione dei propri diritti e dei propri doveri. E questa nozione non potrà avere se non saprà elevare il livello della propria cultura politica, fino ad oggi deficiente anche nei paesi più colti d'Europa ed in qualcuno deficientissima. Perchè allora soltanto imparerà a giudicare rettamente l'opera dei suoi capi, potrà riacquistare presso le masse il prestigio, che in gran parte ha perduto, e saprà guardare un po' al di là dei suoi interessi immediati, senza sciupare più quasi tutta la sua energia per il conseguimento di scopi che giovano solo a determinati individui ed alle piccole consorterie che attorno ad essi si formano. Bisogna infine una buona volta convincersi che oggi siamo in condizioni tali che, per fare degnamente parte di quella scelta minoranza alla quale sono affidate le sorti di ogni paese, non basta l'avere conseguito una laurea d'avvocato od il saper dirigere un'azienda commerciale od industriale, e neppure l'aver saputo nobilmente esporre la propria vita nelle trincee, ma sono necessari lungo studio e grande amore.

In ogni generazione vi è un certo numero di caratteri, generosi che sanno amare tutto ciò che è, od appare, nobile e bello e consacrano una buona parte della loro attività ad elevare od a salvare dalla decadenza la società nella quale vivono. Costituiscono essi quella piccola aristocrazia morale ed intellettuale che impedisce all'umanità di imputridire nel fango degli egoismi e degli appetiti materiali, ed a questa aristocrazia principalmente si deve se molte nazioni sono uscite dalla barbarie e non vi sono mai del tutto ricadute. Raramente coloro che di quest'aristocrazia fanno parte arrivano ai posti più eminenti della gerarchia politica, ma essi fanno opera forse più efficace, perchè, plasmando la mentalità ed orientando i sentimenti dei loro contemporanei, riescono per questa via ad imporre il proprio programma ai reggitori degli Stati.

È impossibile che nella generazione novella vi sia mancanza o deficienza di questi caratteri generosi. Ma più di una volta, nel corso ornai lungo della storia, è accaduto che i loro sforzi ed i loro sacrifizi sono stati impotenti a salvare un popolo od una civiltà dalla decadenza e dalla rovina. Senonchè, a guardarci bene, noi crediamo che ciò sia in gran parte accaduto perchè allora i migliori non hanno avuto una visione chiara e precisa dei bisogni della loro epoca e quindi dei metodi e dei mezzi più adatti a conseguire la salvezza. Terminiamo perciò facendo voti vivissimi che questa visione non manchi oggi alla parte più nobile della gioventù o che Dio illumini la sua mente e riscaldi il suo cuore in modo che essa sappia meditare ed agire durante la pace cosi fortemente come, durante la guerra, ha saputo combattere.

 


 

INDICE

PARTE PRIMA

CAPITOLO I. Il metodo nella scienza politica.

I. Origini e scopi della scienza politica. — II. Perchè si è scelta questa denominazione. — III. Il metodo sperimentale e l'origine delle scienze. — IV. Varie applicazioni di questo metodo nella scienza politica. — V. Sistema che dà la prevalenza all'ambiente fisico nello studio della scienza politica. — VI. Della prevalenza dei popoli del settentrione su quelli del mezzogiorno. — VII. Continua lo stesso argomento. — VIII. I vari tipi di organizzazione politica e le diversità di clima. — IX. Importanza della diversa configurazione del suolo. — X. Sistema che fa dipendere i fenomeni politici dalla diversità delle razze umane. — XI. Razze superiori ed inferiori. — XII. Il genio delle razze. — XIII. Il sistema evoluzionista e la lotta per l'esistenza. — XIV. Il progresso politico ed il miglioramento fisico delle razze umane. — XV. Riassunto delle teoriche evoluzioniste. — XVI. Il metodo storico fondato sulla identità fondamentale delle tendenze ed attitudini politiche delle grandi razze umane. — XVII. Nuovi materiali di cui questo metodo dispone. — XVIII. Obiezioni che ad esso si fanno. — XIX. Condizioni alle quali questo metodo può essere bene adoperato. — XX. Continuazione dello stesso argomento e conclusione. Pag. 1-51

CAPITOLO II. La classe politica.

I. Predominio di una classe dirigente in tutte le società. — II. Importanza politica di questo fatto. — III. Prevalenza delle minoranze organizzate sulle maggioranze. — IV. Forze politiche. Il valor militare. — V. La ricchezza. — VI. Le credenze religiose e la cultura scientifica. — VII. Influenza dell'eredità nella classe politica. — VIII. Periodi di stabilità e di rinnovamento della classe politica. Pag. 52-72

CAPITOLO III. Nozioni preliminari.

I. La formola politica. — II. Il tipo sociale. — III. Rapporti tra il tipo sociale e le religioni universali. — IV. Efficacia di queste religioni. — V. La formola politica e le religioni universali. — VI. Lo Stato feudale e lo Stato burocratico. — VII. Differenze fra questi due tipi di ordinamento politico. — VIII. Cenno sulle cause della decadenza degli Stati burocratici. Pag. 73-90

CAPITOLO IV. Rapporti tra la classe politica ed il tipo sociale. 

I. Tendenza degli organismi ad estendere il proprio tipo sociale. — II. Coesistenza di diversi tipi sociali in unico organismo politico. — III. Unità e differenze di tipo sociale tra le varie classi dello stesso popolo. — IV. Rapporti tra la diversità dei costumi e la varietà del tipo sociale. — V. Psicologia delle plebi. — VI. Conseguenze della diversità di tipo sociale tra la plebe e la classe dirigente. Pag. 91-107

CAPITOLO V. La difesa giuridica.

I. Varie opinioni intorno al progresso del senso morale. — II. La scuola evoluzionista. — III. Dottrina del Buckle - Disciplina del senso morale. — IV. Influenza delle credenze religiose nella disciplina del senso morale. — V. Influenza dell'organizzazione politica. — VI. Il semplicismo politico in rapporto alla difesa giuridica. — VII. I Governi misti - Completamento della teoria di Montesquieu sulla divisione dei poteri. — VIII. Influenza della separazione del prestigio religioso dal potere laico. — IX. Influenza della distribuzione della ricchezza. — X. Rappresentanza ed equilibrio di tutte le forze politiche. — XI. L'unità di tipo nella classe politica. Pag. 108-140

CAPITOLO VI. Polemiche.

I. La teoria democratica. — II. Rapporti fra il regime rappresentativo e la difesa giuridica. — III. Significato della così detta azione dello Stato. — IV. Questioni intorno ai limiti di questa azione. — V. La dottrina del Comte sui tre stadi intellettuali e politici. — VI. Valore pratico del parallelismo stabilito dal Comte. — VII. Classificazione degli Stati, secondo lo Spencer, in militari ed industriali. — VIII. Debolezze e lacune di questa classificazione. Pag. 141-166

CAPITOLO VII. Chiese, partiti e sette.

I. Istinto della lotta fra le collettività umane. — II. Altri coefficienti delle gare religiose e politiche. — III. Qualità dei fondatori di nuove religioni e dottrine politiche. — IV. Nuclei dirigenti di ogni nuova religione o dottrina politica. — V. Condizioni transitorie per l'adattabilità delle dottrine religiose e politiche ai vari momenti storici. — VI. Condizioni permanenti per la loro adattabilità alla natura umana. — VII. Transazioni pratiche di certe dottrine. — VIII. Organizzazione stabile dei nuclei dirigenti. — IX. Contemperanza dei sentimenti generosi e degli interessi materiali. — X. Sistemi per attirare e dominare le masse. — Efficacia della forza materiale. — XI. Altre arti adoperate allo stesso scopo. — XII. Conclusione del capitolo. Pag. 167-202

CAPITOLO VIII. Le rivoluzioni.

I. Carattere delle rivoluzioni nelle città elleniche e nei Comuni medioevali. — II. Guerre civili e rivoluzioni in Roma antica, nell'Europa feudale e nei paesi maomettani. — III. Rivoluzioni in China. — IV. Insurrezioni di carattere nazionale. — V. Insurrezioni rurali in Europa. — VI. Rivoluzioni tipiche della Francia moderna. — VII. Condizioni per la riuscita di queste rivoluzioni. Pag. 203=225

CAPITOLO IX. Gli eserciti stanziali.

I. La funzione militare nelle civiltà primitive. — II. Lo Stato burocratico e gli eserciti mercenari e stanziali. — III. Preponderanza politica abituale dell'elemento militare. — IV. Ragioni per le quali questa preponderanza è stata limitata e distrutta nei paesi di civiltà europea. — V. Importanza pratica delle moderne milizie cittadine. — VI. Diversità di classe fra la bassa forza e gli ufficiali in molti eserciti stanziali. — VII. Giudizi e pregiudizi intorno alle speciali attitudini militari dei vari popoli. — VIII. Gli eserciti stanziali, la guerra e l'avvenire della civiltà di tipo europeo. Pag. 226-246

CAPITOLO X. Conclusione.

I. Scopo della conclusione. — II. I tre problemi della vita moderna — Il problema religioso. — III. L'avvenire del Cristianesimo. — IV. Il Cristianesimo e la scienza positiva. — V. Il problema politico. — VI. Esame critico del Parlamentarismo. — VII. Le riforme del Parlamentarismo. — VIII. Quale sarebbe la riforma fondamentale — Ostacoli che incontra. — IX. Il problema sociale — Origine della democrazia sociale. — X. Estensione ed importanza della democrazia sociale — Varie scuole nelle quali si divide. — XI. Esame critico del collettivismo. — XII. La giustizia nell'organizzazione sociale. — XIII. Esame critico dell'anarchia. — XIV. La lotta di classe. — XV. Effetti pratici della democrazia sociale. — XVI. Cause della stessa. — XVII. Probabilità di trionfo della democrazia sociale. — XVIII. Rimedi atti a combatterla. — XIX. Missione della scienza politica. Pag. 247-332

PARTE SECONDA

CAPITOLO I. Origini della dottrina della classe politica e cause che ne ostacolano la diffusione.

I. La dottrina della classe politica è nata da circa un secolo. — II. Cause estrinseche che ne hanno ostacolato lo sviluppo. — III. Cause intrinseche della sua mancata diffusione e cenni sui modi di eliminarle. Pag. 335-344

CAPITOLO II. Descrizione dei diversi tipi di organizzazione politica.

I. I primi nuclei politici. — II. I grandi imperi orientali. — III. Formazione dello Stato ellenico. — IV. Originalità e debolezze dello Stato ellenico. Pag. 345-366

CAPITOLO III.

Continua il tema del capitolo precedente. — I. Caratteri speciali della città-Stato romana. — II. Sua graduale trasformazione in uno Stato burocratico-militare durante l'Impero. — III. Dissolvimento dello Stato e della civiltà romana. — IV. Cause che prepararono lo Stato feudale e sue caratteristiche. — V, Graduale trasformazione dello Stato feudale nello Stato assoluto burocratico. — VI. Cause intellettuali ed economiche che preparano la trasformazione dello Stato assoluto burocratico nello Stato rappresentativo moderno. — VII. La Costituzione inglese del secolo XVIII fornisce il modello formale allo Stato rappresentativo moderno. — VIII. Caratteristiche dello Stato rappresentativo moderno ed elementi dissolvitori che lo minacciano. Pag. 367-400

CAPITOLO IV. Principi e tendenze diverse che si affermano nella formazione e nella organizzazione della classe politica.

I. I due principi e le due tendenze che si possono riscontrare nelle varie classi politiche. — II. Il principio autocratico. — III. I due strati della classe politica e l'autocrazia burocratica. — IV. Il principio liberale. — V. Analisi della tendenza democratica. — VI. Analisi della tendenza aristocratica. — VII. Risultati dell'equilibrio fra i due principi e le due tendenze. Pag. 401-437

CAPITOLO V. Schiarimenti e Polemiche.

I. Rapporti fra il valore intellettuale e morale dei capi degli Stati e quello della classe politica. — II. Rapporti fra il valore intellettuale e morale della classe politica e quello dei governati. — III. Confutazione del materialismo storico. — IV. Se sia possibile il governo dei migliori e quali siano politicamente i migliori. — V. La giustizia assoluta e la giustizia relativa nelle organizzazioni politiche. — VI. Se i progressi della scienza politica potranno in avvenire evitare le grandi crisi sociali. Pag. 438-473

CAPITOLO VI. Conclusione.

I. Quale è il periodo storico che corrisponde al secolo decimonono. — II. Programma politico del detto secolo. — III. Risultati pratici dell'esecuzione di questo programma. — IV. Germi di dissoluzione politica che esso conteneva e contiene. — V. Pericoli e danni che presentano le tre soluzioni radicali possibili della crisi che ora traversa il regime rappresentativo. — VI. Opportunità di una restaurazione del detto regime e modi più adatti per effettuarla. Pag. 474-504

 


 

Notes

[1] Il Ferrari nel suo Corso sugli scrittori politici italiani (Milano, 1862) ne novera parecchie centinaia quasi tutti appartenenti ai secoli accennati.

[2] La differenza fra la politica come arte di governo (Staatskunst) e la politica come scienza di governare (Staatswissenschaft) è stata svolta, a dir vero con non molta precisione e chiarezza, dall'Holtzendorff nei due primi capitoli del libro Principes de la politique. Introduction à l'étude du droit public contemporain. Tradotto in francese dal Lehr. Hambourg, 1887.

[3] Negli ultimi venti o trent'anni è nata la tendenza di spiegare con lo studio dei fenomeni economici tutti i fatti politici che avvengono nella storia dell'umanità. In Italia questo ardito concetto è stato svolto dal Loria nel libro La Teoria economica della Costituzione politica (Torino, 1886). A noi pare questo un modo di vedere troppo unilaterale ed esclusivo. Vi sono fenomeni sociali e politici, ad esempio il sorgere ed il diffondersi delle grandi religioni, il rinascere di alcune antiche nazionalità, il costituirsi di alcune grandi monarchie militari, che non si possono esclusivamente spiegare col variare della distribuzione della ricchezza o con la lotta fra il capitale ed i proletari o fra il capitale mobile e l'immobile, come vorrebbe il Loria.

[4] È usato, oltre che dal citato Holtzendorff, dal Bluntschli, dal Donnat, dallo Scolari, dal Brougham, dallo Sheldon-Amos, dal De Parieu, dal Pollock e da altri scrittori del secolo decimonono e del ventesimo.

[5] Francesco Bacone, come si sa, paragonava il metodo esperimentale, che del reato era stato usato molto prima di lui, ad un compasso che permette, anche ad una mano inesperta del disegno, di tracciare circoli perfetti, ossia di ottenere dei risultati scientifici esatti (Vedi MacaulayEssais politique et philosophiques, tradotti da Guglielmo Guizot. Paris. Michel Lèvy, 1872).

[6] Per qualcuno che non lo rammentasse o che non avesse letto I Promessi Sposi, il ragionamento di Don Ferrante era il seguente: in rerum natura non vi sono che sostanze ed accidenti. Ora il contagio non può essere accidente perchè non potrebbe passare da un corpo all'altro, e non può essere sostanza perchè le sostanze sono terree, acquee, ignee ed aeriformi. Se fosse sostanza terrea sarebbe visibile, se acquea bagnerebbe, se ignea brucerebbe, se aerea volerebbe alla sua sfera.

[7MougeolleStatique des civilisations. Paris, Leroux, 1883 e Les problèmes de l'histoire. Paris, Reinwald, 1886; Bluntschli , Politik ah Wissenschaft. Stuttgart, 1876.

[8] Gli abitanti di un paese scarsamente popolato, e perciò pastorale o boschivo, vivono in un ambiente fisico differente di quelli che stanno in una contrada molto popolosa e perciò intensivamente coltivata.

[9] L'essere la popolazione abbastanza fitta è condizione quasi indispensabile al nascere di una civiltà; essa non è infatti possibile dove cento uomini vivono dispersi in mille chilometri quadrati. Or, perchè molti uomini possano vivere in uno spazio relativamente piccolo (almeno in 10 o 20 per chilometro quadrato), è necessaria la coltivazione dei cereali. Difatti troviamo la civiltà chinese contemporanea o posteriore alla cultura del riso, quella egiziana e mesopotamica basata sulla cultura del frumento, dell'orzo e del miglio, l'americana indigena su quella del maiz. Forse in qualche paese tropicale alcune frutta o radici farinacee, come il banano e la manioca, possono sostituire i cereali.

[10] Rammentiamo che ora sembra provato che le più antiche dinastie fiorirono a Tanis ed a Menfi, che Tebe acquistò importanza soltanto dopo l'invasione dei Pastori, che l'Etiopia fu incivilita dagli Egiziani e che solo molto tardi divenne un regno indipendente.

[11] Nello stesso paese, a parità di condizioni, la parte più civile e prospera è quasi sempre quella che ha comunicazioni più facili con le contrade che formano il focolare o il centro irradiatore di quella tale civiltà alla quale il paese stesso appartiene. Per esempio, in Sicilia la parte più prospera e civile fu la costa orientale finchè l'isola appartenne all'antica civiltà ellenica, che avea appunto il suo centro all'Oriente della Sicilia (BelochLa popolazione della Sicilia antica. “Archivio storico siciliano” 1887). Durante il periodo arabo, più colta, più ricca, più popolata fu la Sicilia occidentale, più vicina all'Africa, da dove s'irradiava la civiltà maomettana (AmariStoria dei Musulmani in Sicilia. Firenze, Le Monnier, 1854-58-68). Al giorno d'oggi la maggiore popolazione e ricchezza è sulla costa settentrionale dell'isola, che guarda verso il nord di Europa.

[12] Generalmente fa più impressione quella data specie d'immoralità alla quale siamo meno abituati e perciò facilmente gli uomini di un altro paese si giudicano peggiori di quelli del nostro. Però è comune anche il vezzo di giudicare più immorale degli altri quel paese in cui prima o meglio si è avuto occasione di conoscere ed apprezzare i vizi e le debolezze, che son proprie di tutti gli uomini.

[13ColajanniSociologia criminale, vol. II, cap. VII, Catania, Tropea editore, 1889.

[14] Vedi le opere del Maury, del Lombroso, del Ferri, del Puglia.

[15TardeLa Criminalitè comparée, cap. IV.

[16] Sarebbero i dipartimenti dei Pirenei orientali dell'Ardèche e della Lozère.

[17] Nella già citata Sociologia criminale del Colajanni (vol. II, cap. VII) si contengono altri numerosissimi e calzanti esempi, che dimostrano la scarsa o nessuna influenza del clima nella criminalità.

[18] Per farsi un concetto dell'importanza e dello sviluppo che ebbe l'antica costituzione siciliana si può consultare: Rosario GregorioIntroduzione allo studio del diritto pubblico siciliano Considerazioni sulla Storia di Sicilia (Palermo, 1794 e 1831-34). Se Montesquieu avesse esteso i suoi viaggi un po' più a mezzogiorno, avrebbe trovato in Sicilia un ordinamento politico nel quale, anche ai suoi tempi, l'autorità regia era molto più temperata che in Francia.

[19] Citeremo l'esempio della Sicilia: quest'isola, sopra una superficie di circa 25,000 chilometri quadri ha una popolazione di più di tre milioni e mezzo d'abitanti, ossia più di 130 per chilometro quadro. Non ha grandi industrie, nè grande abbondanza di capitali, il suo suolo è in gran parte montagnoso, ricco di sole ma povero di acque: or, in queste condizioni, perchè una popolazione possa vivere con un'agiatezza appena discreta è necessario un lavoro agricolo indefesso ed anche abbastanza ben diretto.

[20] Era Curdo Saladino, Albanese Mehemet Ali, primo Kedivè d'Egitto. Circassi erano i famosi bey mammalucchi, che per tanti secoli tennero il dominio dell'Egitto.

[21] Vedi fra gli altri QuatrefagesHistoire generale des races humaines. Paris, 1889; GumplowiczDer Rassenkampf. Insprück, 1884; Lapouge, diverse monografie pubblicate nella “Revue d'Anthropologie „ del 1887 e del 1888, oltre ai lavori dell'Helwald, del De Gobineau (Essai sur l'inègalitè des races humaines. Paris, 1884, ed. Didot), ecc.

[22Vita di Gesù, cap. I. In altri lavori lo stesso autore descrive il Semita in modo poco lusinghiero.

[23] Vedi articoli citati nella “Revue d'Anthropologie”. Il Morselli, in un articolo pubblicato nella “Illustrazione popolare” del 1887 (Biondi e Bruni) fa sua la tesi del Lapouge, sostenendo la superiorità dei biondi sui bruni; perchè le nazioni più civili sono quelle dove prevalgono più i biondi e nella stessa nazione è sempre più civile quella regione o provincia dove i biondi sono più numerosi. Ammesso che il fatto sia vero, bisognerebbe pure provare che nel passato i popoli bruni non siano mai stati più civili e più forti dei biondi, giacchè, in questo caso, la presente superiorità delle nazioni e Provincie dove il pelo fulvo è più comune potrebbe essere dovuta ad altre cause.

[24] È accertato che, fin da un'epoca preistorica abbastanza remota, la razza americana indigena avea quei caratteri fisici che ancora la distinguono; in bassorilievi egiziani molto antichi (di circa venti secoli prima dell'èra volgare) le figure dei Negri, dei Semiti, degli Egiziani indigeni hanno quei caratteri fisici, che ancora distinguono queste razze.

[25] I Greci ed i Romani seppero maravigliosamente espandere la loro lingua e la loro civiltà facendole adottare dai popoli barbari. In Francia il sostrato della popolazione è ancora celto-kimrico, mentre il francese è un linguaggio essenzialmente neo-latino. Anche in Ispagna è probabilissimo che nel nord della penisola prevalga il sangue basco, mentre nel sud dev'essere fortissima la mescolanza del sangue arabo-berbero. Nella stessa Italia vi sono certo differenze etniche sensibilissime tra gl'Italiani del nord e quelli del sud e delle isole, sebbene i varii dialetti siano tutti essenzialmente neo-latini. Andando fuori dall'influenza della lingua latina troviamo che i Fellah, discendenti dagli antichi Egiziani, hanno dimenticato l'antichissima lingua di Mizraim ed adottato l'arabo, la quale lingua si è inoltre generalizzata nell'Irak-Arabi, nella Siria e va sempre più diventando la lingua parlata dai Berberi dell'Africa. Nell'India dialetti provenienti dal sanscrito sono parlati da popolazioni che nel colore della pelle e nei lineamenti mostrano fortissima la mescolanza, e forse anche la prevalenza, del sangue dravidico. Nella Slesia, nel Brandeburgo, nella Pomerania e nella vecchia Prussia il tedesco è parlato da popolazioni di origine in parte slava o letta. Finalmente ai giorni nostri i Celti dell'Irlanda e del nord della Scozia vanno sempre più adottando l'inglese.

Queste considerazioni sono ovvie; pure si continuano a fare le classificazioni etnografiche, specialmente quelle dei popoli europei, appoggiandosi unicamente sopra i criterii filologici. In verità in favore di questo sistema si può addurre che la somiglianza delle lingue, occasionando fra certi popoli un maggiore scambio d'idee e di sentimenti, contribuisce a dar loro una somiglianza di tipo intellettuale e morale molto più forte di quella che si suole attribuire alla consanguineità.

[26] L'ipotesi non ha niente d'impossibile perchè conoscevano altri metalli, come l'oro ed il rame. 

[27] Vedi Cinq-annes au Congo. Traduttore Gerad Harry. Paris. 1885. editore Dreyfus.

[28] Porfirio Diaz, già presidente della repubblica messicana, che seppe assicurare al suo paese un lungo ed inconsueto periodo di tranquillità, era un meticcio.

[29] Autore del libro l'Égalité des races humaines. Paris, 1885. – Citato dal Colajanni, Sociologia criminale, vol. II, pag. 227.

[30Progress and poverty, cap. ultimo. London. 1883.

[31] Non parliamo della razza polinesia, la quale ha forse attitudini superiori, ma, essendo scarsa di numero, e dispersa quasi tutta in piccole isole, non ha potuto creare alcuna grande civiltà.

[32] Vedi Leroy-Beaulieu AnatoleLes juifs et l'antisémitisme. Nella "Revue des Deux Mondes" del 1891, 92 e 93. Secondo quest'autore l'Ebreo moderno è un prodotto dell'isolamento in cui è stato tenuto per tanti secoli dalla Thora, dal Talmud e dal Ghetto.

[33] Si potrebbero citare moltissimi casi nei quali l'affinità etnica fra due popoli costituisce un legame quasi impercettibile di fronte a quelli che risultano dalla somiglianza di religione, o dalla comunanza di storia e di civiltà. Gli eruditi hanno scoperto che un Magiaro è più stretto parente di un Chinese di un Turco anzichè di un Francese od un Tedesco, ma chi potrà asserire che egli moralmente ed intellettualmente sia più vicino ai primi che ai secondi? Gli Arii maomettani della Persia e dell'Indostan hanno certo più affinità morale cogli Arabi e coi Turchi, anzichè coi loro consanguinei europei, e gli Ebrei stabiliti da lungo tempo nell'Europa occidentale si sentono certo moralmente più vicini ai popoli tra i quali abitano, anzichè agli Arabi loro parenti, che hanno abbracciato la civiltà orientale.

[34] A proposito di popolazioni interamente distrutte dai vincitori si cita il caso dei Tasmaniani, degli Australiani e delle Pelli-Rosse. Ma in verità queste tribù selvaggie, scarsissime di numero o sparse sopra territori immensi, sono perite e periscono principalmente perchè la cultura e l'invadente civiltà fanno diminuire la grossa selvaggina, che costituiva il loro principale mezzo di sussistenza. In qualche sito, nel quale le Pelli-Rosse hanno potuto adattarsi ad una grossolana agricoltura, si sono sottratte alla distruzione. Nel Messico e nel Perù, dove gl'indigeni erano numerosi perchè pervenuti allo stadio agricolo, malgrado le stragi dei conquistatori spagnuoli, essi costituiscono sempre la gran maggioranza della popolazione. Anche in Algeria la stentata e sanguinosa conquista, che ne hanno fatto i Francesi, non ha prodotto la diminuzione numerica degli indigeni.

[35] In alcune regioni che per cause particolari erano rimaste indietro dal movimento generale dell'Europa, la trasformazione che abbiamo accennato è stata più rapida e sopratutto più profonda. Chi conosce anche superficialmente la storia della Scozia e della Sicilia potrà fare un rapido paragone fra lo stato sociale del primo di questi paesi nel 1745 e quello che aveva raggiunto nel 1845, e fra le condizioni sociali della Sicilia nel 1812 e quelle odierne. Il rapido incivilimento dei montanari scozzesi è stato anche osservato dal Colajanni, nell'opera già citata, e da altri autori.

[36Lenormant scrive (Histoire ancienne de l'Orient, vol. II, cap. II, Paris, 1881) che "a datare dai torbidi e dalle guerre civili nelle quali perì Nitocri (Nit-aqrit) un'eclisse subitanea e finora inesplicabile si produsse nella civiltà egiziana. Dalla fine della VI dinastia al cominciare della XI Manetone conta 436 anni, durante i quali i monumenti sono assolutamente muti. L'Egitto allora sembra di essere sparito dal numero delle nazioni e quando la civiltà riappare sembra che ricominci il suo corso senza tradizione del passato".

L'A. a dir vero non esclude che durante questo periodo non siano avvenute invasioni straniere, ma, oltre che di esse non vi è alcuna traccia nei monumenti e nelle iscrizioni, è certo ad ogni modo che dovettero seguire non precedere la decadenza della prima civiltà egiziana.

[37] È forse un'eccezione la grande invasione dei Goti avvenuta sotto l'imperatore Decio e che fu respinta da Claudio II. Ma essa desolò le provincie orientali dell'impero, paesi dove la civiltà greco-romana dovea durare ancora per lunghissimi secoli.

[38] Di questa rapidissima decadenza della penisola iberica si dà la colpa alla cacciata dei Mori, avvenuta principalmente nel 1609 sotto Filippo III. Ma la cacciata dei Mori non poteva danneggiare che alcune provincie, parte cioè di Valenza e dell'Andalusia, che furono poi quelle che meno soffrirono nell'esaurimento generale della Spagna. Il Portogallo e l'Italia, che decaddero contemporaneamente alla Spagna sebbene in modo meno sensibile, non ebbero certo a soffrire della cacciata dei Mori.

[39] Rammentiamo ad esempio che gli Anglo-Sassoni moderni non discendono già dai Romani e dai Greci, non dai Semiti della Siria, fra i quali nacque quella religione che ha così fortemente fissato la sua impronta nei popoli della Gran Bretagna e delle sue colonie, non dagli Arabi a cui si debbono tante delle cognizioni fisiche e matematiche, che gli Inglesi e gli Americani moderni hanno così maravigliosamente applicato e fecondato. Essi sono eredi non del sangue, ma delle elaborazioni scientifiche e psicologiche dei popoli summentovati. Alle volte un popolo può valersi, risorgendo a civiltà, del lavorìo intellettuale e morale dei suoi antenati, che, dopo essere stati civili, erano ricaduti nella barbarie. Tale fu il caso degli Egiziani antichi e degli Italiani del Rinascimento; ma questo fatto, a volerlo considerar bene, fornisce un altro argomento contro la teoria che fa dipendere il progresso sociale dalla eredità organica.

[40] Quest'ultima osservazione l'abbiamo tolta dal George, opera citata, capo ultimo.

[41] È difficile provare che i cervelli dei Francesi contemporanei di Voltaire erano diversamente conformati di quelli dei loro padri, che avevano fatto la strage di S. Bartolomeo e la lega santa. Si può invece agevolmente dimostrare che, in poco più di un secolo e mezzo, si erano profondamente modificati lo stato economico e politico e l'ambiente intellettuale della Francia.

[42] Vedi Lenormant, Maspero, Brugsch, ecc.

[43] Basti osservare che la China ha avuto anch'essa il suo periodo feudale e che, almeno fino a poco tempo fa, era retta da una burocrazia che si reclutava per mezzo di concorsi. Anche la religione ed il regime della proprietà vi hanno subito vicissitudini diversissime. Vedi RoussetA travers la Chine. Paris, 1879, Hachette; MetchnikofLa civilisation et les grandes fleures historiques. Paris, 1889, Hachette; Élisée RéclusNouvelle gèographie universelle, vol. VII. Paris, 1882, Hachette.

[44] Utili per chi? Per l'individuo che le commette o per la società? Pur troppo le due utilità sono molto separate e distinte e ci pare che ci voglia... assai poca pratica del mondo per sostenere che un'azione utile per la società riesca generalmente tale per l'individuo che la fa e viceversa.

[45LetourneauL'évolution de la morale. Paris, 1887. I brani riportati sono nella lezione seconda, nella quale l'A. spiega l'origine delle inclinazioni (penchants) morali, e nella ventesima.

[46] Avevamo già scritto queste pagine quando abbiamo letto un articolo di Alfred Fouillée (La psychologie des peuples et l'anthropologie nella "Revue des Deux Mondes" del 25 marzo 1895). In esso si sostiene presso a poco e con alcuni argomenti analoghi la tesi che noi abbiamo propugnata; l'A., ad esempio, scrive che "les facteurs ethniques du caractère national ne sont ni les seules, ni les plus importants, l'uniformité de l'instruction, de l'éducation, des croyances communes compensent, et au delà, les diversités des familles ethniques". Anche il Colajanni e il Metchnikof, nelle opere citate, combattono fortemente e brillantemente coloro che amano esagerare l'importanza della razza come fattore sociale.

[47] La somiglianza psicologica è sempre maggiore fra popoli, che hanno raggiunto un grado di civiltà, se non uguale, non troppo diverso, anzichè fra quelli che sono più vicini cronologicamente ed etnograficamente. Un Italiano od un Tedesco moderno è più vicino nel suo modo di pensare ad un Greco dell'epoca di Platone e di Aristotile anzichè ad un suo antenato del Medio Evo. Basta consultare la letteratura delle diverse epoche per accorgersi che questa asserzione è esatta.

[48] Per convincersi che ciò che si chiama il caso fortuito, cioè una serie di circostanze che sfuggono all'azione ed alla previdenza umana, ha un'influenza nella sorte dei popoli, basta tener presente che finora non raramente la sorte di una nazione è stata decisa dall'esito di una battaglia (ad esempio, a Platea, a Zama, a Xeres, a Poitiers, ad Hastings), e nell'esito delle battaglie, specialmente prima che la guerra fosse combattuta con criteri scientifici, il caso fortuito ha avuto gran parte.

[49] Queste pagine furono scritte nel 1894, noi non le rinneghiamo; ma oggi un più attento studio ci ha indotto ad attribuire maggiore importanza al coefficiente etnico. Crediamo infatti che, come dimostra assai bene il Le Bon (Les Opinions et les Croyances, Paris, Flammarion, 1911, libro VI), il passato di un popolo, che in certo modo s'identifica con la razza alla quale appartiene, determini in esso la formazione di abitudini e di tendenze intellettuali e sopratutto morali, le quali, appunto perchè si sono formate attraverso un lungo corso di generazioni umane, hanno talora bisogno di molti secoli perchè siano sostanzialmente modificate.

[50] È il caso di rammentare i pregiudizi diversi che, secondo lo Spencer, si oppongono al progresso delle scienze sociali. Certo lo studioso di scienza politica deve riguardare le nazionalità, le religioni, i partiti, le dottrine politiche obiettivamente e solo come fenomeni dello spirito umano. Ma il precetto è più facile a darsi che ad essere applicato, e per la sua applicazione occorrono nell'osservatore un'attitudine speciale e sopra tutto un lunghissimo studio della storia umana, che contribuisce moltissimo a sviluppare quell'obiettività di vedute alla quale abbiamo accennato.

[51] Non bisogna dimenticare quello che avviene nell'Economia politica. Il libero scambio, ad esempio, è dai cultori spassionati di questa scienza unanimemente giudicato come vantaggioso, ed intanto le nazioni più civili tornano al più feroce protezionismo.

[52] Ad esempio vi furono epoche in cui alle cariche pubbliche pare si arrivasse per esami ed all'esercito era preposta una ufficialità educata ed istruita in speciali scuole militari.

[53] Ad esempio, se si tien presente soltanto la storia degli stati greci dell'epoca di Pericle, si può credere che la storia del mondo consista soltanto nella lotta della democrazia coll'aristocrazia (o meglio di due oligarchie, l'una più ristretta, l'altra più larga) e dell'ellenismo coi barbari. Se si pon mente alla sola storia dell'Europa dal mille cinquecento al mille seicento, si può conchiudere che tutto il movimento dell'umanità siasi esplicato nella lotta fra Cattolici e Protestanti e fra la civiltà europea e la maomettana.

[54] Alcuni sociologi anzi rimontano più avanti ed analizzano attentamente le società animali, e negli alveari delle api, nei formicai, negli strupi dei quadrupedi e dei quadrumani rintracciano le prime origini di quei sentimenti sociali, che poi si manifestano completamente nei grandi organismi politici umani.

[55] Crediamo che, per illuminarci sulle vere condizioni sociali di un dato popolo, valga più un documento autentico come le leggi di Manù, i frammenti delle Dodici Tavole o il Codice di Rotari, che le relazioni di parecchi viaggiatori contemporanei. Ammettiamo però che la relazione del viaggiatore potrebbe servire molto utilmente per illustrare e commentare il documento. È superfluo ricordare che, trattandosi di tribù selvaggie, i documenti mancano affatto.

[56] Mosca, Teorica dei Governi e Governo parlamentare, cap. 1°. Torino, 1884, Loescher.

[57] Si sa che quella che Aristotele chiamò democrazia non era che un' aristocrazia più larga, e lo stesso Aristotele avrebbe potuto osservare che, in ogni Stato greco, aristocratico o democratico che fosse, vi erano sempre una o pochissime persone che aveano un'influenza preponderante.

[58] Fra gli autori che ammettono questa coesistenza basta citare lo Spencer.

[59] Il Re Casimiro II il Grande (1333) tentò invano di porre un argine a questo prepotere dei guerrieri e, quando i paesani venivano a reclamare contro i nobili, si limitava a domandare loro se non avessero bastoni e pietre. Più tardi, nel 1587, la nobiltà imponeva che tutti i borghesi delle città fossero costretti a vendere le loro terre, in maniera che la proprietà di queste non poteva appartenere che a nobili, contemporaneamente faceva pressione sul Re affinchè iniziasse a Roma le pratiche necessarie per ottenere che non potessero d'allora in poi essere ammessi in Polonia negli ordini sacri che i soli nobili, volendosi così escludere assolutamente dalle cariche onorifiche e da ogni importanza sociale i borghesi ed i contadini. Vedi MickiewiczSlaves, cap. IV, pag. 376-80; Histoire populaire de Pologne, cap. I e II. Paris, 1875, ed. Hetzel.

[60Leroy-Beaulieu AnatoleL'Empire des tzars et les Russes, vol. I, pag. 338 e seg. Paris, 1881-82, Hachette.

[61] Cesare fa rilevare replicatamente che il nerbo degli eserciti gallici era costituito dai cavalieri reclutati nella nobiltà. Gli Edui, ad esempio, non potevano più resistere ad Ariovisto dopo che la maggior parte dei loro cavalieri era stata uccisa combattendo.

[62] Col crescere della popolazione suole crescere, almeno in certe epoche, la rendita ricardiana, segnatamente perchè si creano quei grandi centri di consumo, che sono o furono costituiti da tutte le metropoli e dalle altre grandi città antiche e moderne. Or una popolazione discretamente fitta e la creazione di grandi città sono condizioni quasi necessarie di una civiltà avanzata.

[63] Vedi Claudio JannetLe istituzioni politiche negli Stati Uniti d'America, parte II, cap. X e seg. ("Biblioteca politica" Unione tipografica editrice, Torino). L'A. cita moltissimi autori e giornali americani, che rendono la sua asserzione irrecusabile.

[64Jannet, opera e capitoli citati (La corruzione privata. Onnipotenza del danaro. La plutocrazia, ecc.). I fatti citati oltre che attestati da quest'autore con numerosissimi documenti sono confermati da molti scrittori americani di cose politiche, dal Seamen ad es. e dal George, che pur sono di principi differenti. Del resto coloro che hanno qualche pratica della letteratura americana sanno che essi sono ammessi da romanzieri, commediografi e giornalisti come cosa risaputa. Il socialista George ha più che all'evidenza dimostrato (vedi opera già citata) come il suffragio universale non basti ad impedire la plutocrazia, dove vi è una grande disuguaglianza di fortune. È sua l'asserzione che negli Stati dell'Ovest un ricco si può cavare il capriccio di ammazzare impunemente un povero. Lo stesso autore nel "Protection and free trade" (London, 1886) accenna continuamente all'influenza dei grandi industriali nelle decisioni del Congresso.

[65] Secondo qualche autore solo i barbieri e certe categorie di battellieri sarebbero stati esclusi, insieme ai loro figli, dal diritto di concorrere ai vari gradi del mandarinato. RoussetA travers la Chine. Paris, 1878, Hachette.

[66Sinibaldo de MasChine et puissances chrétiennes, pag. 332-34; HucL'Empire Chinois.

[67] Almeno così era fino a pochi anni fa, quando gli esami dei mandarini versavano soltanto sulle discipline letterarie e storiche alla maniera, ben inteso, come queste discipline erano comprese dai Chinesi.

[68] Ci pare del resto che quest'arte di governo, meno casi eccezionali, sia una qualità molto difficile a constatare in individui, che ancora non hanno fornito la prova pratica di possederla.

[69] Il principio democratico della elezione a suffragio molto largo parrebbe a prima vista in contraddizione con questa tendenza alla stabilità della classe politica, che abbiamo accennato. Ma bisogna osservare che riescono quasi sempre eletti coloro che posseggono le forze politiche, che abbiamo già enumerato e che spessissimo sono ereditarie. Difatti nel Parlamento inglese ed anche in quelli francese ed italiano vediamo frequentemente sedere i figli, i fratelli, i nipoti e i generi di deputati ed ex-deputati.

[70] Op. cit. Questo concetto si ricava da tutto lo spirito del lavoro, ma è nettamente affermato nel libro 2°, cap. XXXIII.

[71] Sembra anzi accertato che, fra tutti i coefficienti di superiorità sociale, quello nel quale l'eredità si afferma con minore efficacia sia la superiorità intellettuale, poichè i figli degli uomini di mente più elevata spesso hanno intelletto mediocre; ed è perciò che le aristocrazie ereditarie non si sono mai fondate sulla sola superiorità intellettuale, ma piuttosto su quella del carattere e della ricchezza.

[72] Scrisse Mirabeau che, per qualunque uomo, una grande elevazione nella scala sociale produce una crisi, che guarisce i mali che ha e glie ne crea alcuni, che prima non aveva. Vedi Correspondance entre le comte de Mirabeau et le comfe de La Marek, vol. II, pag. 228. Paris, 1851. Librairie Le Normant.

[73] Del resto l'asserzione del Gumplowicz che la differenziazione delle classi sociali dipenda massimamente dalle varietà etniche meriterebbe almeno di essere provata; di contro a quest'asserzione si possono addurre facilmente molti fatti, e fra gli altri quello, tanto ovvio, che spessissimo i rami della stessa famiglia appartengono a classi sociali molto differenti.

[74Lenormant, Maspero, Brugsh, opere citate. Durante il periodo della cacciata degli Hiqsos abbiamo il resoconto della carriera di un alto ufficiale, che aveva cominciato la carriera da semplice soldato. Frequentissimi erano poi i casi in cui lo stesso individuo serviva successivamente nella milizia, nell'amministrazione civile e nel sacerdozio.

[75Mommsen e MarquardtManuel des antiquités romaines. Trad. Humbert, Ed. Thoria, Paris, 1887; Fustel de CoulangesNouvelles recherches sur quelques problèmes d'histoire. Paris, 1891, Hachette.

[76] Non citeremo esempi di popoli, che si trovano in periodi di rinnovamento perchè nel nostro secolo sarebbero superflui. Rammentiamo soltanto che, nei paesi di recente colonizzazione, il fenomeno del rapido rinnovarsi della classe politica si presenta più di frequente e più spiccato. Dappoichè, quando comincia la vita sociale nei detti paesi, non esiste una classe dirigente bella e formata e, durante il periodo in cui si costituisce, è naturale che il suo ingresso resti più accessibile. Inoltre il monopolio della terra e di altri mezzi di produzione vi è, se non del tutto impossibile, certo più difficile che altrove. È perciò che le colonie greche offrirono, almeno fino ad una certa epoca, un largo sbocco a tutti i caratteri energici ed intraprendenti dell'Ellade, e che negli Stati-Uniti d'America, dove la colonizzazione di nuove terre ha durato per tutto il secolo decimonono e nuove industrie sono continuamente sorte, gli uomini che dal nulla arrivano alla notorietà ed alla ricchezza sono ancora frequenti, ciò che contribuisce a mantenervi l'illusione che la democrazia sia una realtà.

[77Teorica dei Governi, cap. I.

[78] Per la dimostrazione di questo concetto vedi MoscaTeorica dei Governi e le Costituzioni moderne. Dovremo tornare sull'argomento anche durante il corso del presente lavoro.

[79] È la boria nazionale di cui parla Vico.

[80] Opera citata, parte 2a, cap. XXXVII.

[81] Ciò è riconosciuto dallo stesso Gumplowicz. Vedi Opera e capitolo citati.

[82] Vedi in proposito MoscaFattori della Nazionalità. "Rivista Europea" del 1882.

[83] Vedi il capitolo primo di questo lavoro.

[84] Intendiamo parlare delle influenze morali ed intellettuali, giacchè materialmente delle mescolanze coi barbari vicini, ne saranno sempre avvenute, se non altro perchè ad essi si usava dare la caccia per ridurli schiavi.

[85] Vedi la famosa stela di Mesa re di Moab. Si trova tradotta nell'opera citata del Lenormant ed in altri scrittori di storia dell'antico Oriente.

[86] Il linguaggio che Rab-Sache ambasciatore assiro avrebbe indirizzato al popolo radunato sulle mura di Gerusalemme illustra i concetti che abbiamo accennato. "Rendetevi al mio signore, diceva egli, perchè come gli altri Dei sono stati impotenti a salvare i loro popoli dalla conquista assira così Javeh non potrà salvare voi". In altre parole Javeh era un Dio, ma era meno potente di Assur, perchè il popolo di Assur vinceva gli altri. I Siri di Damasco una volta avrebbero evitato di dare battaglia ai Re d'Israele nelle montagne, perchè credevano che nelle regioni montuose Javeh fosse più potente del loro Dio (Cronache e libro dei Re).

[87] L'Ebraismo padre del Cristianesimo e del Maomettismo è divenuto anch'esso, mediante un lungo processo evolutivo che rimonta ai Profeti, una religione prevalentemente umanitaria, però si è poco diffuso. Forse anche, sebbene in origine fosse una religione nazionale, avea tendenze umanitarie la religione di Zoroastro.

[88] In India si sa che le religioni ora prevalenti sono la maomettana e la braminica; la quale, benchè non sia una religione umanitaria, è fortemente organizzata e, colle sue caste e colle sue minute prescrizioni, che moltiplicano i casi d'impurità ai menomi contatti con persone fuori della casta, ha una grande efficacia coibente ed ostacola moltissimo qualunque lavorìo di assimilazione sociale.

[89] Vedi Leroy-BeaulieuL'Empire des tzars et les Russes.

[90] Fu sotto la dinastia dei Tang che queste tribù turche si stabilirono nelle provincie di Scen-si e di Kan-sou, chiamatevi per combattere le invasioni dei Tibetani. Nel 1861 l'antipatia, che sempre ci era stata tra i maomettani ed i loro conterranei buddisti, diè origine ad una terribile insurrezione, nella quale i primi fecero una guerra di sterminio ai secondi. Dopo avere desolato orribilmente le provincie accennate la guerra civile si restrinse nella Kashgaria al di là della gran muraglia, e non finì che nel 1877 coll'assassinio del capo dei maomettani Jakoub-beg (Rousset, opera citata).

[91] Basta avere una superficiale conoscenza della storia dei paesi maomettani per esserne convinto. Eredi della civiltà persiana dell'epoca dei Sassanidi e mercè lo studio degli antichi autori greci, i Musulmani, per parecchi secoli del Medio Evo, furono assai più spregiudicati dei cristiani contemporanei (AmariStoria dei Musulmani in Sicilia). Quest'autore traduce e riporta una corrispondenza fra l'imperatore Federico II e parecchi dotti musulmani, suoi contemporanei, nella quale si sente un forte sapore di razionalismo.

[92] Si sa che il gran Lama, dal quale dipendono i Buddisti del Tibet, della Mongolia e di alcune provincie della China propriamente detta, seguiva strettamente a Lassa, fino a pochi anni fa, le ispirazioni del residente chinese. I Bonzi diffusi nella maggior parte della China, non hanno un'organizzazione centralizzata e rappresentano quasi i Protestanti del Buddismo. Il Governo li tollera e spende spesso alcune somme per calmare le superstizioni popolari mediante feste buddistiche. Le classi colte, come si sa, seguono in China il positivismo agnostico di Confucio, che si può anche confondere con un vago Deismo.

[93Leroy-Beaulieu, opera citata e segnatamente il libro dove parla delle religioni della Russia.

[94] Ciò accadde sopratutto durante le più antiche ed anche al tempo di alcune fra le più recenti dinastie. Bisogna tener presente che la storia dell'antico Egitto dura circa trenta secoli, spazio di tempo durante il quale, malgrado la pretesa immobilità orientale, una società ha comodamente il tempo di passare più volte dallo stadio feudale al burocratico e da questo tornare all'ordinamento feudale.

[95] Anche la China traversò il suo periodo feudale e nel Giappone questo ordinamento è durato fino alla fine del secolo decimosesto, e le sue traccia sparvero solo dopo la rivoluzione del 1868. È ancora feudale l'organizzazione dell'Afganistan e lo era in gran parte quella dell'India, quando fu conquistata dagli Europei. Si può dire anzi che ogni grande società ha dovuto traversare una o parecchie volte il periodo feudale.

[96] Secondo Gino Capponi (Storia della Repubblica di Firenze. Firenze, 1876 ed. Barbera) le ultime cavallate, ossia spedizioni militari alle quali i nobili ed i ricchi mercatanti fiorentini presero personalmente parte, rimontano al 1325.

[97] Il pensiero ricorre subito all'esempio della Polonia.

[98] Come è accaduto nell'impero romano, che in Occidente sopravvisse un secolo e mezzo ed in Oriente più di undici secoli alla adozione del Cristianesimo. Analoghe osservazioni si potrebbero fare sulle nazioni moderne, che dal diritto divino sono passate al regime parlamentare.

[99] Vedi Huc, Réclus, Rousset, Opere citate.

[100] Bisogna tener presente che coll'organizzazione feudale è più pesante, diretta ed arbitraria l'autorità che un membro della classe dirigente può esercitare su parecchi od anche molti individui della classe sottomessa, mentre colla organizzazione burocratica è più efficace l'azione dell'intera classe politica sul resto della società.

[101] È da notare che nell'Egitto antico, come nella China, non era ancora conosciuta la coniazione dei metalli preziosi. I tributi perciò si prelevavano in natura, oppure si calcolavano in metalli preziosi, che erano pesati. Ciò era un ostacolo non indifferente al funzionamento del regime burocratico e vi si suppliva mercè una complicata e minuziosa contabilità.

Importante poi è, dal lato psicologico, il fatto che, quando le circostanze sociali sono identiche, l'uomo a migliaia d'anni di distanza si rivela, anche nelle piccole cose, sempre lo stesso. Esistono infatti (sono tradotte e riportate dal Lenormant nell'opera citata, e dal Masperol lettere di ufficiali egiziani, che descrivono i disagi delle lontane guarnigioni della Siria ed altre lettere di funzionari, che si annoiano nelle piccole città di provincia e sollecitano la protezione dei superiori e... il trasloco nella capitale.

[102] Alla fine del lungo regno di Ramses II, col quale comincia la decadenza della terza civiltà egiziana, le imposte erano divenute intollerabili, come è attestato da parecchi documenti privati, che si trovano decifrati nelle opere del Maspero, del Lenormant, ecc. È noto che la vera causa della decadenza dell'impero romano fu la diminuzione della popolazione e della ricchezza, che dovette essere principalmente causata dalla gravezza delle imposte e dalla ignorante ingordigia con cui si esigevano (Vedi principalmente Mommsen e Marquardt, opera citata nel volume che tratta dell'Organizzazione finanziaria dei Romani). Anche in Francia la popolazione e la ricchezza diminuirono alla fine del lungo regno del gran re Luigi XIV e si rimisero in buono stato sotto il governo del pacifico cardinale Fleury.

[103] Come dovette avvenire alla più gran parte del fiore delle dieci tribù d'Israele trasportate al di là dell'Eufrate.

[104] Specialmente in quella contrada che prese dopo d'allora il nome di Franconia.

[105] Si sa che il principale inspiratore ed autore di questa vasta colonizzazione fu il Gran Maestro Hermann di Salza.

[106] Vedi Mommsen TeodoroLe provincie dell'impero romano da Cesare a Diocleziano. Traduzione di De Ruggiero. Roma, 1887, ed. Pasqualucci.

[107] Ciò si vede benissimo leggendo la ritirata dei diecimila: basta ricordare l'episodio di Siennesi re di Cilicia, quello del passaggio attraverso i Carduchi, e gli altri riguardanti la marcia attraverso i Mosineci e gli altri popoli del Ponto Eusino.

[108] Il neo impero persiano dei Sassanidi, sebbene assai più piccolo dell'antico, pure, essendo quasi tutto abitato da popoli affrattellati dalla comune dottrina dell'Avesta, superò tempeste molto più forti e numerose di quelle che ebbe a patire l'antico impero persiano, e durò più di quattro secoli.

[109] Ciò avviene o perchè i governi dell'Oriente hanno minori risorse e quindi minor forza di assimilazione di quelli europei, o perchè in Oriente vi è più vero spirito di tolleranza che fra noi. Rammentiamo la maniera come scomparvero le floride e numerose colonie maomettane della Sicilia e della Spagna, appena qualche secolo dopo che ebbero perduto il dominio politico. Anche oggi, nella penisola balcanica, appena un paese è sottratto al Governo del Sultano, i suoi abitanti maomettani tendono a diminuire rapidamente e qualche volta spariscono del tutto.

[110] Queste righe furono scritte nel 1895, non troviamo che si debbano modificare neppure dopo gli avvenimenti del 1912 e 1913; perchè i recentissimi disastri della Turchia sono esclusivamente dovuti alla disorganizzazione ed incapacità della sua classe dirigente, intensificate da trenta anni di dispotismo hamidiano e da quattro anni di regime giovane turco. Ma i soldati turchi hanno dimostrato ancora una volta di saper combattere e morire per la loro fede, che per essi si confonde con la patria.

[111] Naturalmente ci erano delle eccezioni fra i generali più importanti e fra questi noteremo Kutuzof, Barclay di Tolly, Bennigsen, Doctorof, Bagration, ma nessuno può negare che la istruzione e capacità media dei generali russi fosse, al principiare del secolo scorso, notevolmente inferiore a quella degli ufficiali austriaci o prussiani. Il famoso Souvarof conosceva assai bene la psicologia del soldato russo e l'arte di condurlo alle imprese più arrischiate, ma era del resto un temerario più che dotto condottiero.

[112] Neppure l'ultimo dei contadini consentiva sotto le più forti minaccie ad insegnare la strada ai Francesi (Vedi le storie del Thiers, del Toreno e le memorie del colonnello Vigo de Roussillon pubblicate nella "Revue des Deux Mondes" del 1891). La mediocrità degli eserciti regolari spagnuoli, composti in massima parte di reclute e privi di ufficiali sperimentati, oltre che dagli autori francesi è attestata pure nella corrispondenza del duca di Wellington e di altri ufficiali inglesi.

[113] Si sa che l'esercito di Championnet erasi fermato avanti Capua e che fu chiamato ed incoraggiato a dar l'assalto a Napoli dai repubblicani napoletani. Quest'assalto inoltre non sarebbe stato dato, nè probabilmente avrebbe avuto esito felice, senza la consegna proditoria di Castel S. Elmo e l'attacco alle spalle dei difensori di porta Capuana; l'una e l'altro opera degli stessi repubblicani napoletani.

Questi fatti spiegano le terribili vendette, non solo regali ma anche popolari, che ebbero luogo dopo abbattuta l'effimera repubblica partenopea.

[114] Il fatto è attestato dal Renan e da altri scrittori e risulta evidente poi per chi abbia un po' di pratica della società e della cultura maomettana.

[115] In Francia, ad es., Voltaire, al principio della sua Storia del secolo di Luigi XIV, fa rilevare come la nobiltà francese, quando quel principe cominciò effettivamente a regnare (1660), fosse ricca d'ingegno naturale, ma rozza di modi ed ignorante. In Inghilterra il Cobbett verso la fine del secolo decimottavo così metteva in luce la differenza fra gli affittaioli del buon tempo antico (cioè di quando egli era fanciullo) e quelli dell'epoca in cui scriveva: "Una volta gli affittaioli alloggiavano e nutrivano tutti i loro contadini, sedevano insieme alla loro gran tavola di quercia e, dopo la preghiera del pastore, bevevano la stessa birra; ma ora i costumi sono cambiati, il salariato tocca la sua paga e va a mangiarla solo in qualche buco, mentre l'affittaiolo si è trasformato in un gentilomastro, ha delle caraffe di cristallo, delle forchette col manico d'ebano, dei coltelli col manico d'avorio, dei piatti di porcellana. I suoi figli in ogni caso non lavoreranno mai la terra, faranno piuttosto i commessi, gli scritturali, i garzoni di bottega...". Una simile trasformazione si è compiuta negli ultimi cento anni fra i grossi affittaioli ed i medii proprietari del Napoletano e della Sicilia; i loro bisnonni erano ricchi forse, ma in ogni caso contadini; essi ora, anche poveri, sono sempre galantuomini, ciò che nei dialetti locali significa persone che hanno ricevuto un'educazione civile.

[116] Si può obbiettare che i poveri servono generalmente a malincuore coloro che sono arricchiti da poco tempo. Ciò è vero, ma nel caso ci sono altri elementi dei quali bisogna tener conto: il neo arricchito facilmente suscita l'invidia, inoltre è spesso più duro e più avaro di colui che è dalla nascita abituato all'agiatezza, infine, quasi sempre, invece di conservare comunanza di abitudini e di sentimenti colla classe dalla quale proviene, fa di tutto per adottare quelli della classe superiore; giacchè il far dimenticare la propria origine suole essere la sua principale ambizione e preoccupazione.

[117Histoire populaire de Pologne, già citata.

[118] Qualche seguace del Gumplowicz potrebbe osservare che, nel caso dell'Irlanda, l'odio sopravvenuto fra proprietari e contadini potea essere un effetto della diversità di razza, dal trovarsi il Celta di fronte al Sassone, per usare l'espressione favorita dal famoso O' Connell. Di passaggio facciamo rilevare che le prime famiglie anglo-normanne stabilite nel medio-evo in Irlanda, ad esempio i Talbot ed i Fitzgerald, ecc., le quali fecero una lunga dimora in quel paese, finirono coll'adottare le costumanze celtiche, e, nelle varie insurrezioni, combatterono nelle file degli Irlandesi contro gli Inglesi. Ma vediamo piuttosto quello che accade in Russia, dove, fra la massa della nobiltà ed i contadini non vi è certo differenza di razza, ma vi è piuttosto una gran differenza di tipo sociale e sopratutto di costumi fra la classe colta, povera o ricca che sia, la quale ha adottata l'educazione europea, ed il resto della popolazione, che conserva idee e costumi asiatici. Sentiamo ciò che in proposito ci dicono i rivoluzionari russi: "Il popolo (scrive Tchernychevski, accennando ad una possibile rivoluzione dei contadini) ignorante, pieno di pregiudizi grossolani, e d'un odio cieco per tutti coloro che hanno abbandonato i suoi selvaggi costumi" (ecco l'antipatia proveniente dalla differenza del tipo sociale) "non farebbe alcuna differenza fra le persone che portano l'abito alla tedesca", (che hanno abbandonato il costume tradizionale russo e vestono all'europea); "con tutti agirebbe alla stessa maniera, egli non farebbe grazia nè alla scienza, nè alla poesia, nè all'arte e distruggerebbe tutta la nostra civiltà". Leroy-Beauliau, opera citata, vol. II, pag. 524 e seguenti.

[119] Si sa che in America dalle coalizioni operaie sono generalmente esclusi i Negri ed in special modo i Chinesi.

[120] A voler essere giusti anzi bisogna riconoscere che il cosmopolitismo è presentemente una qualità che, più che nei poveri, trovasi in modo spiccato in una frazione della classe dirigente; in quella cioè più ricca e più scioperata.

[121] Così infatti accade fra gli Europei in India ed in China ed in generale in tutte le contrade di civiltà molto differente dalla nostra.

[122] È un fenomeno analogo a quello che abbiamo osservato nel principio del capitolo parlando dei paesi dove diversi tipi sociali, nel senso stretto dell'espressione, vivono mescolati.

[123] Si sa che Tacito dipinge i costumi dei Germani come oltremodo semplici, frugali e virtuosi; più di tre secoli dopo, durante le invasioni barbariche, Salviano attribuiva le vittorie dei Goti, dei Vandali, dei Franchi, ecc. alla loro superiorità morale; giacchè, secondo quest'autore, gl'invasori erano casti, frugali, veritieri ed i Romani, specialmente quelli delle classi elevate, fornicatori, intemperanti, fedifraghi. Machiavelli nel descrivere i costumi e le abitudini dei Tedeschi dei suoi tempi evidentemente risente l'influenza di Tacito. Nel secolo passato molti filosofi celebrarono la santità di costumi dei selvaggi e la rustica semplicità delle plebi. Pare dunque che sia una tendenza frequente, se non generale, delle civiltà molto mature, dove vi sono classi politiche che hanno una cultura letteraria molto raffinata, di entusiasmarsi per antitesi della semplicità dei selvaggi, dei barbari, dei contadini (si rammenti l'Arcadia), ai quali si attribuiscono virtù e sentimenti immaginari e convenzionali. In fondo a questa tendenza vi è sempre il concetto nettamente espresso dal Rousseau: che la natura umana è buona, ma è guasta dalla società e dalla cultura. Su questo concetto, che ha avuto una influenza grandissima su tutte le idee politiche del secolo scorso, dovremo ritornare nei seguenti capitoli.

[124] Facciamo notare ad esempio che l'Inghilterra ha nel secolo decimonono adottato pacificamente e senza scosse violente quasi tutte le più essenziali riforme civili e politiche, che sono state la conseguenza della grande rivoluzione francese e che sono costate così caramente alla Francia. È indiscutibile che il vantaggio evidente della Gran Brettagna si deve in gran parte alla maggiore energia, al maggior senso pratico ed alla migliore educazione politica che ebbe, fin quasi agli ultimi anni del secolo scorso, la sua classe dirigente.

[125] Del resto quest'ultima avvertenza è quasi inutile; perchè, tranne momenti ed individui eccezionali, gli uomini non hanno mai preso sul serio le massime accennate.

[126] Vedi History of civilisation in England (London, 1861, editori Parker e Comp.), e sopratutto il vol. I, cap. IV, intitolato: "Comparison between moral and intellectual laws".

[127] Vedi la citazione del Letourneau, che abbiamo fatta nella prima parte di questo lavoro.

[128] Non occorre rammentare che, tranne nei brevi periodi di rivoluzione violenta, le qualità personali sono, per arrivare ai gradi più elevati, un coefficiente sempre meno efficace della nascita; giacchè in qualunque società, sia o no apparentemente democratica, il nascere in alto è il migliore titolo per restarvi.

Per evitare poi un equivoco nel quale facilmente si può incorrere, bisogna tener presente che le famiglie da parecchie generazioni arrivate ai primi gradini della scala sociale spesso mancano delle qualità, che abbiamo segnalate come più adatte a portare un uomo dal basso in alto, e ne acquistano invece altre ben diverse.

Così, ad esempio, tranne casi eccezionali dovuti ad un'accurata educazione, le vecchie famiglie aristocratiche non si distinguono per una straordinaria attività, e nello stesso tempo un vero raffinamento del senso morale può determinarsi in quelle persone, che, per salire in alto, non hanno avuto bisogno di combattere lotte accanite, oscure e spesso degradanti. Insomma i pregi ed i difetti che aiutano un plebeo a forzare le porte di una aristocrazia, sono qualche cosa di molto differente dei pregi e dei difetti delle aristocrazie.

[129] Si sa che nel rituale dei morti degli antichi egiziani e specialmente in quelle parti di esso che rimontano ad un'epoca più antica, si trovano precetti molto simili ai dieci comandamenti di Dio. Vedi Lenormant, Maspero, ecc.

[130] Lo stesso rapporto, in proporzioni naturalmente minori, che si trova fra la morale del selvaggio e del fanciullo rispetto a quella dell'adulto e del civile, si trova fra la morale dell'uomo rozzo e quella di colui che ha una cultura superiore. Ciò che noi chiamiamo delicatezza di sentire non è che l'intuito di una morale superiore applicata ad un numero maggiore di rapporti sociali.

Si sa che i viaggiatori europei dell'interno dell'Africa hanno trovato, in generale, gli avventurieri arabi individualmente preferibili ai Negri. Gli è che gli Arabi, eredi di un'antica civiltà, sebbene anch'essi capaci di tradimenti, di rapine e di assassinii, sanno, quando vogliono, assumere le forme di gentiluomini ed hanno almeno la nozione di una morale superiore e perciò più vicina alla nostra.

[131] Il Tarde in un articolo della "Revue des Deux Mondes", (Foules et sectes au point de vite criminel, pag. 377, 15 novembre 1893) esprime l'opinione che ci sia una vera decadenza morale nella moderna società europea dovuta a ragioni d'indole sociale.

[132] È caratteristico il quadro che Tucidide fa della demoralizzazione sopravvenuta in Grecia in seguito alle lotte tra le diverse città ed alle lotte civili entro le città stesse, che ebbero luogo durante la guerra del Peloponneso. È da notare che a tutti i cataclismi sociali, che distruggono la disciplina morale, tiene sempre dietro un periodo di rilassamento di questa disciplina, che non si va ricostituendo che lentamente. Il Letourneau nel suo libro “La Sociologie après l'ethnographie” ha fatto molto bene rilevare come i progressi intellettuali presso i barbari ed i selvaggi, siano assai più rapidi di quelli morali. E questo fatto, che avviene anche nelle società civili che escono da un periodo di disorganizzazione sociale, e che proviene dalla lentezza con cui si stabiliscono e ristabiliscono le abitudini morali, contribuisce a dare un'apparenza di verità alla dottrina del Buckle sulla stabilità assoluta del senso morale.

Il lettore, che è al corrente dei moderni studi sociologici, avrà notato che noi abbiamo affatto evitato ogni indagine sulla origine degli istinti morali od altruistici; infatti per i nostri studi ci è sufficiente di constatare che essi sono innati nell'uomo e necessari per la vita sociale. Avrà pure notato che il nostro modo di vedere è opposto a quello sostenuto dal Rousseau, che l'uomo, cioè, naturalmente è buono, ma che la società lo fa cattivo e perverso. Noi invece crediamo che la organizzazione sociale avendo per conseguenza il freno reciproco degli individui umani, li migliori; non già distruggendone gl'istinti malvagi, ma abituando a domarli.

[133] Anche il cardinale Massaja nei suoi Trentacinque anni di missione in Etiopia (Roma-Milano, 1885-95) fa rilevare la scarsa efficacia pratica che il Cristianesimo ha nella vita degli Abissini.

[134] Parliamo di atti collettivi non di quelli individuali; giacchè, per quel che riguarda questi ultimi, gli esempi di uomini isolati, o anche di gruppi d'uomini, che danno prova di straordinaria abnegazione e di completo sacrificio di sè, non sono molto rari nè in alcuna epoca, nè in alcun popolo civile. Essi abbondano in ogni guerra, in ogni epidemia grave, in qualunque occasione insomma nella quale è utile e necessario che qualcheduno soffra od affronti un pericolo per tutti.

Nelle stesse occasioni è stato notato da parecchi che, come si vede una sublimazione della virtù in alcuni, si vede in altri una esagerazione di codardia ed egoismo, che davanti la gravità del pericolo e del sacrificio gettano la maschera di cui si solevano ricoprire. Ed a proposito di ciò è da ricordare che come vi sono nelle masse le rare febbri di abnegazione e di sacrificio, vi sono pure quelle che hanno a base i sentimenti cattivi: la cupidità, la rabbia sanguinaria e la paura.

[135] Si sa che quest'autore definisce la libertà politica “un prevalere delle leggi e degli ordini pubblici sull'appetito degli uomini particolari”, (Vedi opere inedite, Firenze, Barbera e Bianchi editori, 1858, vol. 2», pag. 169). Se per uomini particolari intendiamo i singoli individui, compresi anche coloro che hanno nelle mani il potere, difficilmente si può trovare una definizione più rigorosamente scientifica; che ha il merito di essere antichissima, perchè l'autore, forse senza saperlo, riproduce il concetto espresso nella sentenza di uno dei famosi sette savi della Grecia.

Lo stesso Guicciardini, che certo non era un ingenuo, nei suoi “Pensieri” e nei “Discorsi” ripete spesso questo giudizio: “che gli uomini in generale amano il bene e la giustizia tutte le volte che l'amore dell'interesse proprio e dei congiunti o il timore della vendetta altrui non fa traviare il loro intendimento”. In queste parole vi è il riconoscimento di quella legge psicologica che noi abbiamo dato come base della difesa giuridica.

[136] Si sa, ad esempio, che nel passato regno di Napoli, come accade forse anche oggi in Russia, l'azione delle leggi e della magistratura potea essere annullata dalla polizia. Anche la uguaglianza davanti le leggi, ufficialmente proclamata, può riuscire irrisoria. E, per citare esempi antichi, che sono meno scottanti, osserveremo che nel Codice teodosiano (XI-7-12) è stabilito che i più grossi proprietari (potentiores possessores) dovevano pagare l'imposta per mezzo dei governatori delle provincie; perchè pare che i magistrati municipali, incaricati generalmente dell'esazione, fossero troppo umili e deboli davanti a loro. Sotto Arcadio è riconosciuto astrattamente al colono libero il diritto di citare il proprietario davanti la giustizia imperiale, ma quest'atto è qualificato come un'audacia (V. Fustel de CoulangesRicherches sur quelques problèms d'histoire, pag. 100 e 120. Paris, 1885, Hachette).

[137] Alludiamo a Juarez Celman, ex presidente della Repubblica Argentina, ed ai suoi complici. Vedi Alfred Ébelot, La Révolution de Buenos-Ayres. “Revue des Deux Mondes”, 1° dicembre 1891.

[138] Ad esempio Spagnuoli e Siciliani sono comunemente ritenuti come popoli di scarsa moralità politica, ma non crediamo che si possa asserire che, nei rapporti di famiglia e nelle loro private amicizie, siano moralmente inferiori agli altri Europei.

[139] Basti ricordare che i califfati arabi di Bagdad, di Cordova e del Cairo furono per qualche secolo alla testa della civiltà umana, ma non realizzarono mai sensibili progressi politici.

[140] È notorio che parecchi dei personaggi citati, prima che arrivassero al supremo potere avevano mostrato carattere mite e del tutto alieno dagli eccessi ai quali poi si diedero in preda. Ciò vale sopratutto per coloro, che per la nascita non parevano destinati ad arrivare al supremo potere. Napoleone I diceva a Sant'Elena al dottore O' Meara: “Nessuno, eccettuato me stesso, mi ha fatto del male, io posso dire di essere stato il mio unico nemico; i miei propri progetti, la spedizione di Mosca e gli accidenti che ne vennero in seguito, furono le cause della mia rovina , (Vedi O' MearaNapoleone nell'esilio, dialogo del 6 aprile 1817). Neppure il genio, neppure il proprio interesse ben inteso hanno potuto dunque impedire ad un despota di commettere i falli, nei quali naufragò la propria fortuna e per i quali perirono centinaia di migliaia di vite umane.

[141] Nella vita privata ed anche familiare ognuno che abbia un mediocre spirito d'osservazione può trovare quegli esempi, che confermano la regola che abbiamo dato. Facciamo rilevare che in uno Stato moderno, che ha così vasta estensione e così grande complicazione burocratica ed amministrativa, l'azione del capo dello Stato, tolte alcune risoluzioni decisive, quali sarebbero, ad esempio, la scelta fra la guerra e la pace, nella vita ordinaria della società è così piccola che spesso sussistono a preferenza gli abusi ai quali i sovrani sono personalmente più avversi. Alessandro I, Nicola ed Alessandro II di Russia, Ferdinando II di Napoli erano certo contrarissimi alla corruzione amministrativa e pure l'uso di comprare la connivenza dei funzionari con mancie pare che duri ancora in Russia e non si potè mai sradicare nel Regno di Napoli (Lerot-Beaulieu, opera citata; NiscoIl Regno di Ferdinando II).

Nella storia si trovano esempi nei quali lo stabilirsi del governo di un despota ha giovato ad un popolo, almeno momentaneamente. Si dice che Cesare Borgia abbia fatto respirare la Romagna, distruggendo tutti i tirannetti ed i ladroni che la infestavano. Anche Mehemet Alì, collo sterminio dei Mamelucchi, diede un po' di tranquillità all'Egitto. Ciò non significa altro che il dispotismo, sebbene sia il peggiore tipo di regime politico, è sempre preferibile all'anarchia, che è l'assenza di qualunque regime.

[142] Pare infatti che il Bramanesimo sia diventato più rigoroso, immobile e formalista dopo la lotta vittoriosa che esso sostenne nell'India col Buddismo. Vedi Édouard SchuréLa légende de Chrisna Le Bouddha et sa legende. “Revue des Deux Mondes” del 15 agosto 1895 e del 1° agosto 1888, e sopratutto Un roi de l'Inde au troisième siècle avant notre èreAcoka et le Bouddhisme di Émile Sénart. “Revue des Deux Mondes” del 1° marzo 1889.

[143] Vedi opera citata, vol. I, pag. 86.

[144] È appunto perciò che, come già abbiamo accennato nel capitolo 3°, tutte le lotte civili e le rivoluzioni fra i Maomettani hanno preso per pretesto una riforma religiosa od una pretesa al vicariato del Profeta. Ciò è avvenuto nelle lotte fra Ommiadi, Abbassidi e Fatimiti, che insanguinarono i primordi dell'Islam, in quelle che tanto sconvolsero l'Africa settentrionale e la Spagna nei secoli undecimo e dodicesimo e nei recentissimi movimenti, che abbiamo già rammentato. Naturalmente in tutti questi movimenti, accanto ai motivi religiosi, non mancarono mai quelli di carattere assolutamente mondano.

[145] Si è già accennato che vi contribuisce pure la separazione più o meno completa del potere temporale dallo spirituale. Del resto, tranne la Russia e la Turchia, crediamo che giammai nell'Europa moderna ci sia stato un paese in cui il capo del Governo abbia esercitato più autorità personale di quella che ebbero Federico il Grande di Prussia e suo padre. L'indole particolare di questi sovrani, la piccolezza dello Stato da loro amministrato, le circostanze speciali del momento storico, fecero sì che le loro amministrazioni fossero il vero fondamento della grandezza prussiana.

[146] Le cause che rendono possibile o che valgono a temperare o distruggere questa onnipotenza saranno esaminate in altro capitolo.

[147] Al giorno d'oggi la democrazia sociale non ha più nel suffragio universale la stessa fiducia che ponevano in esso i democratici anteriori al 1848; il George, nel suo Progresso e Povertà, dice esplicitamente che il dare a tutti il diritto del voto riesce inefficace e quasi irrisorio là dove vi è una grande disuguaglianza di ricchezze. Si sa che gli anarchici, ad es. il Merlino, si scagliano ardentemente contro l'inefficacia e l'assurdità del Parlamentarismo.

[148] Alludiamo alla così detta libertà di stampa, strumento nuovissimo di difesa giuridica, che è stato adottato solo nel secolo decimosettimo in Inghilterra e nel secolo decimonono nei paesi costituzionali e parlamentari del continente d'Europa.

[149] Ricordiamo i taciti esempi della borghesia francese prima del 1789 e di quella inglese prima del 1832.

[150] È difficilissimo che la proprietà immobiliare possa attualmente avere gli stessi modi d'imporsi di quella mobiliare. Infatti, per quanto la proprietà dei terreni possa essere poco divisa, lo è sempre abbastanza perchè riesca molto difficile in un grande paese ad un piccolo numero di grandi proprietari coalizzati di dettare leggi al mercato e di imporsi al Governo. E ciò è tanto vero che il protezionismo industriale ha preceduto quello agrario, che è venuto su come reazione e mezzo di indiretto compenso alle conseguenze del primo.

Un monopolio temporaneo possono esercitare i proprietari di terreni posti nelle adiacenze immediate delle grandi città che hanno un rapido sviluppo edilizio; in questo caso vediamo sorgere le stesse forme di corruzione, che abbiamo additate come speciali alla proprietà immobiliare.

[151] Fino all'ottanta dopo Cristo, la lotta elettorale per arrivare alle cariche di duumviro ed edile in alcuni municipi era ancora vivacissima, come è dimostrato dalle numerose grafiti pompeiane nelle quali si raccomandano dei candidati e si fa il loro elogio.

[152] Su questo riguardo si potrebbero citare molti autori antichi e moderni; ci contentiamo di ricordare Mommsen e MarquardtManuel des antiquités romaines. Traduzione francese di Humbert, vol. 1°, pag. 115, 158, 214, 225, e vol. 2°, pag. 187 e seguenti. Paris, 1858, Thorin editore.

[153] Come si sa, alla carica di curiale andava annessa una grave responsabilità finanziaria; perchè il corpo dei curiali era solidamente garante del pagamento delle imposte di tutta la città. Questa responsabilità senza dubbio contribuì allora alla rovina economica del medio ceto.

[154] Infatti il mezzo scelto a ripararle non era il più idoneo, perchè un alto impiegato deve avere, quasi necessariamente, i modi di vedere, le passioni ed anche i pregiudizi della classe alla quale appartiene, ed i suoi sentimenti ed i suoi interessi lo spingono ad agire in modo da meritare la benemerenza della stessa, piuttosto che quella di un'altra classe, alla quale si sente moralmente ed intellettualmente estraneo, e che forse è già abituato a trattar male ed a disprezzare.

[155] Naturalmente l'azione di questa terza sezione ha avuto dei periodi di calma e di recrudescenza.

[156] Come si sa partecipa all'esercizio del potere esecutivo.

[157] Johnson, arrivato alla Presidenza alla morte di Lincoln (1866-69), si oppose costantemente a che il Sud, già vinto, fosse abbandonato al saccheggio dei politicanti repubblicani, conosciuti sotto il nomignolo di carpets baggers. Hayes, anch'egli repubblicano, benchè arrivato al potere per mezzo di spostamenti di voti poco corretti, sanzionati dal lodo, evidentemente parziale, del magistrato della suprema Corte, fece subito cessare il regime di spoliazione e di terrore, che avea durato per otto anni negli Stati democratici del Sud, durante la doppia Presidenza del troppo famoso Simpson Grant. Cleveland, presidente democratico eletto nel 1884, fra gli altri atti sommamente meritori, ebbe il coraggio di mantenere al posto alcuni funzionari repubblicani, che i suoi partigiani volevano destituiti; generoso tentativo di abolire il sistema di Jackson, secondo il quale ogni partito vincitore si attribuisce tutti i posti retribuiti. Lo stesso Cleveland da governatore dello Stato di New-York si era reso celebre per la lotta fortunata sostenuta contro il Tammany Ring, vasta associazione di malfattori, che signoreggiava nel Consiglio comunale di quella città.

[158] Nei primordi dell'Unione americana il suffragio era generalmente sottoposto a condizioni di censo; in origine anzi negli Stati della Nuova Inghilterra prevaleva il sistema puritano, per il quale questo diritto veniva attribuito ai membri delle congregazioni religiose, poi s'introdusse anche colà il sistema censitario. Condizioni di censo elevatissime erano pure determinate per l'eligibilità a membro delle Camere alte locali ed a governatore. Il suffragio universale si cominciò ad introdurre nel principio del secolo decimonono negli Stati dell'Ovest, dove tutti erano immigranti nuovi e proprietari, poi fu adottato, per tutti i Bianchi, negli Stati del Sud, in fine si estese anche allo Stato di New-York ed a quelli della Nuova Inghilterra. La evoluzione non fu compiuta che nel 1850 sotto l'influenza dei nuovi immigranti e delle idee democratiche francesi. Agli uomini di colore si sa che il suffragio non fu accordato che dopo il 1865. Il Tocqueville, il cui valore come osservatore è stato forse alquanto esagerato, non vide che il principio di questo movimento democratico e non ebbe modo di esaminare la democrazia pienamente trionfante.

Contemporaneamente all'allargamento del suffragio si andò introducendo il principio della diretta eligibilità e temporaneità dei giudici. Gli antichi Stati della Nuova Inghilterra furono anche questa volta quelli che più resistettero alla corrente, ma finirono coll'esserne anche essi travolti.

Vedi SeamenSystème du gouvernement américain. Trad. Hippert. Bruxelles, 1872: Claudio Jannet, Le istituzioni politiche e sociali degli Stati Uniti d'America. “Biblioteca di scienze politiche” vol. IV, parte 1a, capitoli II e VII.

[159] Basta leggere le opere di Luigi Blanc, Lamartine e di quasi tutti gli scrittori democratici francesi anteriori al 1848 per convincersi che essi attribuivano la così detta corruttela della Monarchia di Luglio e tutti gl'inconvenienti del Parlamentarismo all'intervento del Monarca e sopratutto al suffragio ristretto. Credenze analoghe erano comunissime in Italia fino a trenta anni fa; esse anzi formavano e formano il fondamento della scuola mazziniana.

[160] Vedi Teorica dei Governi e Governo parlamentare. Torino, 1884, Loescher; Le Costituzioni moderne. Palermo, 1887, Andrea Amenta editore.

[161] Per semplificare la dimostrazione abbiamo supposto che il voto sia uninominale. Ma questa libertà limitatissima, che ha nella scelta del deputato la gran maggioranza degli elettori, e questa influenza preponderante dei comitati sono fatti inevitabili (e l'abbiamo dimostrato nelle opere citate), con qualunque sistema elettorale. Col così detto scrutinio di lista può anzi avvenire che il numero dei candidati che hanno probabilità di riuscire sia meno del doppio di quello degli eligendi.

[162Costituzioni moderne, cap. III.

[163] Comprendiamo che questo è un argomento a doppio taglio: perchè le masse non sempre sono più oculate, nello scorgere e tutelare i loro interessi, di quanto lo siano i deputati. Conosciamo anzi qualche paese in cui il pubblico malcontento, più che gli errori dei deputati e dei Governi, ha ostacolato i rimedi che vi si volevano apportare.

[164] Vedi Seamen e Mosca, op. cit.; SchérerLa Démocratie et la France, ecc., ecc.

[165] È indiscutibile, ad esempio, che, in molti paesi, se gli aumenti delle imposte fossero sottoposti al referendum sarebbero stati sempre respinti, anche quando fossero stati giustificati dal più evidente tornaconto del servizio pubblico dalla più imprescindibile necessità.

[166] Vedi capitolo III, pag. 104.

[167] Vedi capitoli III e IV là dove abbiamo parlato dei danni del soverchio svolgimento dato ai lavori pubblici, del protezionismo economico, dell'influenza antigiuridica che esercitano sui poteri politici i direttori delle Banche e delle grandi Compagnie per azioni, dei risultati che ha l'ingerenza del Governo nelle Banche di emissione.

[168] Osservazioni identiche si potrebbero fare sui giudici conciliatori, sugli amministratori delle Opere pie e sui preposti a qualche altro degli uffici che in Italia sono affidati a persone che non fanno parte della burocrazia. Vero è che si potrebbe obiettare che la nomina dei titolari alle cariche accennate viene fatta, più o meno direttamente, dai corpi locali elettivi.

[169] Scrive infatti Dupont White (L'Individu et l'Etat, pag. 172. Paris, 1857, ed. Guillaumin): L'État c'est l'homme moins la passion; l'homme à une hauteur où il entre en commerce avec la vérité même, où il ne rencontre que Dieu et sa conscience.

[170] Questa obiezione alle teorie del Comte fu fatta già da molto tempo. Perchè il Comte stesso scrive: "cette coexistence passagère des trois états intellectuels constitue aujourd'hui le seul fondement plausible des résistences que les penseurs arriérés opposent encore à ma loi". Vedi Système de politique positive, vol. 3°, pag. 41. Paris, 1853, Carillan ed.

[171Natio est omnium Gallorum admodum dedita religionibus, scriveva già Cesare, esprimendo un giudizio che qualunque individuo appartenente ad un popolo più colto dà sempre di un popolo meno colto. È da notare che anche le persone credenti nelle religioni rivelate, se hanno una certa cultura scientifica, si guardano bene dall'attribuire all'intervento continuo degli enti soprannaturali lo svolgersi dei fatti di questo mondo, come accade fra le genti più rozze e gli individui più ignoranti.

[172] Dobbiamo rammentare che, secondo le idee del Comte, il monoteismo medioevale e l'ontologia rappresentano la transizione fra il politeismo, ossia il pieno periodo teologico, e la scienza moderna. Così pure il feudalesimo, che egli crede un militarismo difensivo, rappresenta nel suo concetto il ponte di passaggio fra il periodo militare e l'industriale. Questo modo di vedere, ad esempio, risulta chiarissimo dal seguente passo: "En effet, le monothéisme convient autant à la défense que le polithéisme à la conquéte. Les seigneurs feudaux formèrent, entre les commandants militaires et les chefs industriels, une transition aussi complète que celle de l'ontologisme entre la théologie et la science" (Système de politique positive, vol. 3°, pag. 66). 

Non possiamo, con tutto il rispetto dovuto al Comte, non rilevare come la prima asserzione, che il monoteismo cioè sia adatto alla difesa, come il politeismo alla conquista, dimostra l'ignoranza, o almeno una trascuranza completa di gran parte della storia del mondo; ad esempio, della storia del mondo musulmano. Affermazioni così recise e così poco sussidiate dai fatti infirmano gravemente i risultati di un'opera che ha la pretesa di essere positiva.

[173] Uno dei più caratteristici scrittori del periodo che abbiamo accennato è senza dubbio il monaco Raoul Glaber, che scrisse una cronaca che va fino quasi alla metà del secolo undecimo (Vedi Émile GebhartL'ètat d'âme d'un moine de l'an 1000. "Revue des Deux Mondes" , ottobre 1891). Per questo monaco gli antichi scrittori classici, compreso Virgilio, apparivano ai loro lettori sotto forma di demoni. La fede di Glaber è cieca ma priva di carità, ed in essa la paura dell'Ente malefico, del demonio, occupa un campo forse maggiore dell'amore e del culto per l'Ente buono, per il Dio misericordioso dei Cristiani. Satana, per lui sempre presente, partecipa a tutti gli avvenimenti umani, non ci è forse individuo che non l'abbia veduto; lo stesso Glaber, malgrado la sua energia e lo zelo con cui adempiva alla regola del suo ordine, l'avea visto apparire tre o quattro volte. 

A dir vero non tutti gli scrittori contemporanei, o quasi, manifestano lo stesso turbamento delle facoltà intellettuali, ma nessuno ne è completamente immune.

Il normanno Goffredo Malaterra, che racconta con abbastanza discernimento e serenità di giudizio la conquista che il Conte Ruggiero fece della Sicilia sui Saraceni, e che alle volte si mostra capace di osservare i fatti umani spregiudicatamente, venuto alla descrizione della battaglia di Cerami, combattuta fra il detto conte e gl'Infedeli, attribuisce la vittoria dei Cristiani all'intervento diretto di S. Giorgio, che pugnò in persona fra le file dei Normanni, ed aggiunge che, a prova del miracolo, un bianco vessillo con una croce fu visto sventolare sull'asta del duce cristiano.

L'epidemia demoniaca aveva anche guadagnato l'oriente bizantino; Cedreno e la cronaca di Costantino Porfirogenito raccontano infatti che la espugnazione di Siracusa, per parte dei Saraceni, fu conosciuta nel Peloponneso assai prima che vi arrivassero i fuggiaschi, perchè i demoni, di notte in un bosco conversando fra loro, ne propalarono i particolari.

Il Comte per giustificare il propizio sistema scrisse: "On doit enfin noter, comme caractérisant le véritable esprit du catholicisme, sa réduction generale de la vie théologique au seul domaine strictement nécessaire" (Opera citata, vol. III, pag. 434). Egli però non tenne conto che questa riduzione del soprannaturale allo stretto indispensabile, avviene non solo col cattolicismo ma con tutte le religioni monoteiste, quando sono professate da popoli civili che hanno una larga cultura scientifica, come sono ad esempio gl'Inglesi moderni. Non accade lo stesso quando sono professate da popoli barbari e privi di qualunque cultura, perchè allora può restare all'elemento soprannaturale un dominio molto maggiore di quello che esercita presso popoli politeisti, ma di civiltà più progredita.

[174] Opera citata, libro IV, cap. 1°, pag. 83.

[175] Opera citata, libro IV, cap. 5° e segnatamente pagine 368, 382, 393, 394.

[176] Non bisogna dimenticare che per alcuni sociologhi, per esempio, per il Letourneau, lo Stato industriale rappresenta anch'esso un periodo eminentemente transitorio, che dovrà tramontare quando la moralità umana avrà fatto altri passi nel senso altruistico.

[177Principes de sociologie, traduttore Cazelles, vol. III, cap. XVII, pag. 756. Paris, 1883, Germer-Baillière.

[178] Per qualcheduno che non li avesse presenti rammentiamo che si tratta dei capitoli XVII e XVIII del volume III dei Principii di Sociologia. 

[179] Ricordiamo quello dei Pueblos, popoli che abitavano al nord del Messico, classificati come appartenenti al tipo industriale, perchè si limitavano alle guerre difensive ed eleggevano liberamente i loro capi. Opera e volume citati, pag. 819. Del resto a pag. 810 è detto che: "l'autorità che è necessaria nel tipo industriale dovrebbe essere esercitata da un organo istituito per constatare la volontà media. Un organo rappresentativo è il più proprio ad adempiere quest'ufficio".

[180] Opera e volumi citati, cap. XVIII.

[181] Idem., pag. 814.

[182] Opera e volume citati, cap. XVIII, pag. 804.

[183] Naturalmente questo freno agisce soltanto fra popoli economicamente e scientificamente molto progrediti, perchè allora soltanto la guerra danneggia infallibilmente, sebbene in vario grado, il vinto ed il vincitore.

[184] Opera citata, vol. III, cap. XVIII, pag. 803.

[185] Naturalmente nell'Algeria e nella Tunisia il consolidarsi della dominazione francese ha fatto quasi scomparire non solo le rivolte contro i dominatori stranieri, ma anche le lotte intestine fra le varie tribù e lo stesso è avvenuto avverrà prima in Tripolitania e Cirenaica e poi nel Marocco.

[186] A dir vero si appoggiarono poi a questi partiti e li protessero a vicenda le varie correnti che prevalevano in Corte, sicchè essi acquistarono una certa importanza politica, sebbene non abbiano mai perduto il carattere di fazioni personali.

[187] Modificazione del Manicheismo con spiccata tendenza verso il comunismo dei beni e delle donne.

[188] Solea dire, presente qualche giovanotto dei più esaltati e parlando di qualcuno, che era di forte ostacolo ai suoi disegni: non vi è alcuno che mi sappia liberare da questo cane! Il discepolo correva a perpetrare un omicidio, che poi Maometto naturalmente disapprovava affermando di non averlo ordinato. Quanti capi di sette e di partiti politici hanno imitato ed imitano, consciamente od inconsciamente, Maometto!

[189] Sulla relazione che il padre Oberwalder, che stette parecchi anni prigioniero dei Mahdisti, ha pubblicato intorno alla sua prigionia è stato osservato che l'autore in un punto giudica quel Mohamed Hamed mercante di schiavi, che fu il fondatore del Mahdismo, come inspirato da sincero zelo religioso, mentre in un altro punto lo fa apparire ipocrita e ciarlatano. I due giudizi, secondo noi, non hanno nulla di inconciliabile, sopratutto se si riferiscono a due periodi differenti della vita del Mahdi.

[190] Un discepolo, verso la fine del Sansimonismo, scriveva ad Enfantin: “Alcuni vi rimproverano di voler sempre posare, io sono del vostro parere e penso con voi che ciò corrisponde alla vostra natura, alla vostra missione, alla vostra capacità”. Vedi Thureau DanginHistoire de la monarchie de juillet, vol. I, cap. VIII. Paris, 1884, Librairie Plon.

[191] Ad esempio, volendo, per stringere legami politici e per soddisfare alla sua passione voluttuosa, aumentare il numero delle mogli fino a sette, l'Arcangelo Gabriele venne con opportuni versetti ad autorizzare l'apostolo di Dio all'inosservanza del precetto che limitava a quattro il numero delle mogli legittime, precetto che era stato precedentemente imposto a tutti i credenti. Su questo e sugli altri dettagli della vita del fondatore dell'Islamismo, che abbiamo rammentato e rammenteremo, vedi Hammer-PurgstallGemäldesaal der Lebensheschreibungen grosser moslimischer Herrscher. Leipzig, 1839.

[192] Per semplificare la nostra esposizione abbiamo implicitamente ammesso che il fondatore di ogni nuova dottrina religiosa o filosofica sia sempre esclusivamente un solo individuo. Ciò non è perfettamente esatto: alle volte, quando una riforma è moralmente ed intellettualmente già preparata e trova l'ambiente perfettamente favorevole, possono sorgere contemporaneamente parecchi maestri, come fu il caso del Protestantesimo, quando Zuinglio e Calvino cominciarono a predicare quasi contemporaneamente a Lutero. Qualche volta la riuscita del primo maestro fa nascere i plagiari, ad esempio Moseilama ed altri cercarono di imitare Maometto proclamandosi alla lor volta apostoli di Dio. Più frequente è il caso che il primo novatore non riesca ad esplicare interamente e molto meno ad attuare la sua dottrina ed allora sorgono uno od anche parecchi continuatori, e l'ingiustizia della sorte può far sì che uno di costoro dia il proprio nome alla dottrina a preferenza di colui che primo l'ha concepita. Così pare che accada nella moderna democrazia sociale, che generalmente proclama Marx per maestro, mentre il suo primo padre intellettuale e morale è senza dubbio Rousseau. Il maestro od i maestri, che continuano l'opera del primo fondatore, non si devono mai confondere col gruppo degli apostoli, di cui ora parliamo.

[193] È perciò che parecchi sociologi moderni affermano che la moltitudine è misoneista. 

[194] Tutto quello che si sa intorno a quest'autore è ricavato dai brani riportati dai Santi Padri che lo confutavano e specialmente dal libro Contro Celso di Origene.

[195] Principalmente nel Marco Aurelio.

[196] Fu questa appunto l'illusione caratteristica del 1789 in Francia ed anche un poco del 1848 in Italia.

[197] Del resto è nella natura dell'uomo il conservare un grato ricordo dei tempi e degli individui durante i quali o per i quali ha molto sofferto; ciò avviene specialmente quando molti anni sono trascorsi dopo le sofferenze. Le masse finiscono sempre coll'ammirare e col circondare di poetiche leggende quei capi, che, come Napoleone I, hanno loro inflitto travagli e sventure, ma che nello stesso tempo ne hanno appagato il bisogno di emozioni e la fantastica sete di novità e di grandezze.

[198] È una frase che abbiamo inteso attribuire al principe di Bismarck questa: che bisogna un po' d'onestà perchè le bricconate riescano. Infatti certe potenti associazioni di malfattori, ad esempio, la mafia siciliana, hanno certe regole ed un certo sentimento d'onore, che fa sì che i loro affiliati mantengano alle volte la loro parola anche agli estranei ai loro sodalizi e non si tradiscano facilmente tra di loro. A questa limitazione della furfanteria si deve principalmente la straordinaria vitalità di parecchie associazioni di furfanti. Il Macaulay osserva che i complotti per assassinii non riescono quasi mai nell'Inghilterra propriamente detta, perchè gli assassini inglesi non hanno quel briciolo di senso morale, che è necessario per potersi fidare gli uni degli altri. Non sappiamo se il fatto sia rigorosamente vero, ma la conseguenza che ne trae lo scrittore inglese è certamente esatta.

[199] Gli Assassini furono una degenerazione degli Ismaeliti, setta molto diffusa verso il mille nel mondo maomettano e relativamente innocua, la cui dottrina e disciplina avea molti punti di contatto coll'odierna massoneria dei paesi latini. Vedi ClavelStoria della massoneria e di altre società secreteAmariStoria dei Musulmani in Sicilia, vol. II, pag. 119 e seguenti ed Hammer PurgstallOrigine, potenza e caduta degli Assassini. Dei Thugs se ne è parlato in quasi tutte le opere che trattavano dell'India di mezzo secolo fa. Come pure quasi tutti i viaggiatori, che scrissero sulla China, parlano delle società secrete, alcune delle quali, diffusissime, hanno od affettano scopi puramente politici.

[200] Vedi Gaston BoissierÉtudes d'histoire religieuse. "Revues des Deux Mondes" del 15 gennaio 1890.

[201] Pare, del resto, che quando i Musulmani hanno abitato insieme ai Cristiani paesi largamente produttori di vino, siano stati meno scrupolosi osservatori dei precetti del Profeta riguardanti la proibizione delle bevande inebrianti. La storia dei Saraceni di Sicilia rammenta parecchi casi di Maomettani ubbriachi. Ad esempio Ebn-El Theman (Ibn-Thimna, secondo l'Amari), emiro di Catania, era in uno stato di completa ubriachezza quando ordinò che si aprissero le vene a sua moglie, sorella dell'Emiro di Palermo. Ci fu perfino un poeta arabo, Ibn-Hamdis, che cantò le lodi del buon vino di Siracusa del colore dell'ambra e dell'odore del muschio. — Vedi AmariStoria dei Musulmani in Sicilia, vol. II, pag. 531.

[202] Vedi Edmond PlauchutUn royaume disparu. "Revue des Deux Mondes", 1° luglio 1889.

[203] Tranne per quel che riguarda la posa e la vanità, comuni anche fra gli stoici.

[204] A questo proposito ci viene in mente un giudizio, che abbiamo spesso sentito esprimere. Siccome i briganti del mezzogiorno d'Italia erano ordinariamente carichi di scapolari ed immagini di santi e di Madonne e nello stesso tempo erano spesso rei di parecchi omicidi ed altri misfatti, si è da questo fatto tratta la conclusione che in essi le credenze religiose non avessero alcuna utilità pratica. Or, per giudicare così, bisognerebbe prima provare che, senza gli scapolari e le Madonne, i briganti non avrebbero commesso qualche altro omicidio o qualche altro atto di ferocia. Una sola vita umana, un solo dolore, una sola lacrima, che quelle immagini avessero fatto risparmiare, ci sembrano sufficienti per ammettere che esse riescono di qualche utilità.

[205] È questa identificazione completa del concetto del giusto e dell'onesto con una dottrina qualsiasi religiosa o politica, anche moralmente elevata, ciò che negli animi retti ma violenti produce i grandi fanatismi e qualche volta i reati politici.

Per far vedere fino a che punto il fanatismo arrivi rapidamente a spegnere ogni sentimento gentile in un popolo cavalleresco, racconteremo un ultimo aneddoto relativo a Maometto. Ancora vivente il profeta, nella battaglia che si combattè ad Onein fra i suoi seguaci e gli avversari, fra le file di costoro era Doreid-Ben-Sana, il Baiardo di quell'epoca e di quel popolo, che, ormai novantenne, si era fatto condurre vicino alla mischia in lettiga. Un giovine islamita Rebiaa-ben-Rafii arrivò fino a lui, e gli misurò un fendente, ma l'arma andò in frantumi. "Che cattiva spada ti ha dato tuo padre, giovanotto, disse il vecchio eroe; prendi la mia ben temprata scimitarra e va a dire a tua madre che hai ucciso Dorcid con quella stessa arma con cui egli tante volte difese la libertà ed il buon diritto degli Arabi e l'onore delle loro donne". Rebiaa prese la scimitarra di Doreid, lo massacrò e spinse l'incoscienza fino a portare l'ambasciata a sua madre, che, forse meno fanatica della nuova religione perchè più avanzata in età, pare che l'abbia accolto col meritato disprezzo. Vedi Hammer PurgstallIl Profeta Maometto.

[206] Non occorre di rammentare che l'uomo che volesse reggere uno Stato soltanto colle bestemmie, basandosi cioè esclusivamente sugli interessi materiali e sui sentimenti bassi, per quanto tristo, sarebbe altrettanto ingenuo di chi lo volesse governare coi soli paternostri e, se Cosimo il vecchio fosse vivo, non esiterebbe a biasimarlo.

Del resto coll'energia, l'abnegazione, l'attività, la pazienza e, ove occorre, colla superiorità nelle conoscenze tecniche, può, chiunque comanda o dirige, sentir meno il bisogno di sfruttare i sentimenti bassi e può far maggior fondamento sui sentimenti generosi e buoni dei suoi sottoposti. Ma chi comanda è pure uomo, quindi non sempre possiede in grado eminente le qualità accennate.

[207] Si allude ad un episodio del notissimo romanzo I Promessi sposi.

[208] I modi meno scrupolosi sono più spesso usati nelle associazioni in lotta colle autorità costituite e più o meno segrete. Si sa, ad es., che fra le istruzioni di Bakounine vi è questa: "Per giungere alla tenebrosa città di Pandistruzione il primo requisito è una serie di assassinii, di audaci ed anche pazze imprese, le quali mettano il terrore nel potente ed abbaglino il popolo, fino a che essi credano nel trionfo della rivoluzione" (In forma più cruda queste massime somigliano alquanto all'"agitatevi ed agitate", di un altro grande rivoluzionario). Nello stesso opuscolo intitolato I Principii della Rivoluzione il Bakounine dice: "Col non ammettere altra attività che quella della distruzione, noi dichiariamo che le forme con le quali quest'attività dovrebbe manifestarsi possono essere svariatissime: veleno, pugnale, knout. La rivoluzione santifica tutto senza distinzione". Un altro russo che diventò di principii molto diversi da quelli del Bakounine, il Dostojewsski, così in un suo romanzo descrive i modi con cui gli astuti attirano gli ingenui nel seno delle società rivoluzionarie: "Prima di tutto occorre l'esca burocratica, s'inventano titoli di presidente, segretario, ecc. Viene poi la sentimentalità, che è l'agente più efficace; sopra tutto vi possono il rispetto umano, la paura di avere una opinione propria ed il timore di passare per antiliberali".

"Poi (aggiunge un altro personaggio) vi è anche il segreto di associare i neofiti inconsapevoli ad un reato, per esempio facendo assassinare un compagno da cinque colleghi col pretesto che sia una spia; perchè l'assassinio cementa ogni cosa e trascina nell'orbita i più riluttanti".

[209] Questa dottrina è stata pubblicamente proclamata in una lettera del Grand'Oriente della Massoneria francese al Grand'Oriente della Massoneria italiana, che fu riprodotta da molti giornali italiani del 1892. Del resto abbiamo attinto da molteplici fonti che essa è accettata generalmente dalla Massoneria francese, italiana, belga e spagnuola, e ne determina l'azione e le tendenze politiche.

[210] Si deve infatti a questo sovrano, tanto celebrato per i suoi pregi cavallereschi, il massacro di tre mila prigionieri maomettani presi, dopo strenua difesa, in S. Giovanni d'Acri, e si deve alla magnanimità di Saladino se il terribile esempio non fu in larga scala imitato dall'esercito maomettano.

[211] Quando narra nella sua Cronica del tentativo da lui fatto, ed apparentemente riuscito, di riconciliare i capi delle parti Bianca e Nera, riunendoli in Chiesa ed inducendoli con acconcie parole ad abbracciarsi a vicenda.

[212] Vedi la Storia della Repubblica di Firenze di Gino Capponi, già citata al capitolo III.

[213] Nella prima parte di questo lavoro.

[214] Del resto crediamo anche scarsamente all'efficacia pratica dell'arte insegnata da Machiavelli e dubitiamo assai del profitto, che ne avrebbero potuto trarre quegli stessi uomini politici che abbiamo menzionato. Giacchè, quando si tratta di arrivare al potere e di conservarlo, le leggi generali ricavate dallo studio della psicologia umana, dalle tendenze costanti che si rivelano nelle masse, valgono poco, e tutto si riduce a saper bene conoscere ed usare le attitudini individuali proprie e degli altri, che sono così disparate da sfuggire a qualunque sintesi. Un dato consiglio per un tale, che lo saprà ben mettere in pratica, sarà buono e per un altro cattivo; e lo stesso individuo agendo alla stessa maniera, in due casi apparentemente identici, potrà fare bene e male a seconda degli uomini diversi con cui si troverà di fronte. Perciò il Guicciardini scriveva nei suoi pensieri: "La teoria è assai diversa dalla pratica e molti che intendono quella non sanno poi metterla in atto. Nè giova il discorrere per esempi, perchè ogni piccola varietà nel caso particolare porta grandissima variazione nell'effetto”.

[215] Ad esempio nella preparazione della congiura del 1476 che produsse l'uccisione di Galeazzo Sforza.

[216Hammer Purgstall, opera citata.

[217] È da notare che i Bonzi, o monaci buddisti, reclutati per lo più fra le infime classi della popolazione, sono, almeno ora, pochissimo stimati in tutta la China.

[218] È sotto questo nome di Taè-ping che furono comunemente intesi dagli Europei.

[219] Sui particolari di questa insurrezione vedi le opere citate sulla China e specialmente quella del Rousset, al capitolo XIX.

[220] È noto che si deve in gran parte all'opera delle società secrete la recentissima rivoluzione che rovesciò la dinastia Mandschú.

[221] Vedi le storie del Thiers (Consolato ed Impero) e quelle del Toreno, dalle quali il Thiers ricavò in gran parte tutto ciò che scrisse sulla grande insurrezione spagnuola del 1808.

[222] Le abitudini rivoluzionarie contratte da un certo numero di persone contribuiscono pure a spiegare le diserzioni e le inconseguenze non rare nei civili rivolgimenti. Avviene infatti qualche volta che gente, che si è battuta per un principio, dopo il trionfo di questo continua a ribellarsi ed a battersi solo perchè di ribellione e di battaglia sente il bisogno.

[223] Fin dal luglio 1789 interi reggimenti erano passati alla causa della Rivoluzione. In seguito si ebbe cura di trascinare sotto-ufficiali e soldati nei clubs, dove ebbero la parola d'ordine di obbedire alle inspirazioni dei comitati rivoluzionari anzichè ai comandi dei loro ufficiali. — Il marchese di Bouillè, comandante l'esercito dell'est, e che avea pur saputo reprimere la pericolosa insurrezione militare di Metz, scriveva sul finire del 1790 che l'esercito, ad eccezione di qualche reggimento, era incancrenito, che i soldati avrebbero seguito il partito del disordine o tutto al più chi meglio li avesse pagati e che questi erano i discorsi che apertamente tenevano (Vedi Currespondance entre le comte de Mirabeau et le comte de La Marck. Paris, 1851, Lenormant).

[224] Le famose giornate di febbraio 1848, che rovesciarono la monarchia di Luigi Filippo, costarono la vita a 72 soldati e 287 insorti o curiosi.

[225] Ciò è confessato dallo stesso Louis Blanc, il quale, dopo avere respinto nella sua Histoire de la Revolution de 1848 (Paris, 1870, ed. Lacroix), l'ingiuriosa supposizione che la repubblica fosse allora voluta da una minoranza, nella stessa opera (volume 1°, pag. 85), ammette che il suffragio universale avrebbe potuto dichiararsi contrario alle istituzioni repubblicane; e più avanti (volume 2°, pag. 3) dice queste precise parole: "A quoi bon en faire mystère? La plupart des départements en février 1848 étaient encore monarchiques”. Anche Lamartine, parlando delle impressioni che destò in Francia la rivoluzione del 1848, riconosce che essa ebbe "un caractère de trouble, de doute, d'horreur et d'effroi, qui ne se présenta peut-être jamais au même degré dans l'histoire des hommes".

[226] Vedi le memorie dello stesso Caussidière. La Prefettura di polizia fu anzi il solo ufficio in cui il basso personale fu cambiato, le antiche guardie municipali essendo state sciolte e surrogate dai montagnardi, antichi compagni di congiura e di barricata del nuovo prefetto; il quale poi pronunziò la famosa frase che faceva l'ordine per mezzo del disordine.

[227] Sugli effetti di questa educazione rivoluzionaria vedi VilletardInsurrection du 18 mars, capitolo 1°. Paris, 1872, Charpentier.

[228] Fra queste fu famoso quel Luciano De La Hodde, uno dei capi di tutte le congiure repubblicane dell'epoca di Luigi Filippo, che, dopo la rivoluzione di febbraio, si scoprì che era stato un agente segreto della polizia.

[229] È questa una delle ragioni per le quali gli operai parigini si batterono così accanitamente nel giugno 1848, sebbene a ciò abbia contribuito, come spiega il Blanc nella sua storia della rivoluzione del 1848, quella certa organizzazione che aveano avuto negli opifici nazionali. L'elemento rivoluzionario si battè anche meglio nel 1871, perchè, facendo esso parte della guardia nazionale parigina, era stato accuratamente armato, organizzato ed esercitato.

[230] Vedi specialmente Thureau DanginHistoire de la Monarchie de Juillet, volume ultimo.

[231] Come nella costituzione serviana.

[232] Abbiamo già parlato del predominio della classe militare nel capitolo II, ed abbiamo già visto come, in qualche caso, i guerrieri siano stati forniti esclusivamente dalla classe dominatrice, mentre in altri casi questa ha fornito soltanto i capi, gli ufficiali ed i corpi scelti, mentre un certo numero di gregari delle armi meno pregiate si è reclutato fra le classi meno elevate.

[233] Vedi la relazione dell'Antonelli sulla zemeccià ovvero spedizione ed organizzazione dell'esercito scioano pubblicata nei Documenti diplomatici presentati al Parlamento italiano il 17 dicembre 1889.

[234] Libro di Samuele, dal paragrafo 15 al paragrafo 18.

[235] Questa trasformazione, come si sa, cominciò nell'ultimo secolo della Repubblica ed era già compiuta quando principiò l'impero.

[236] Riguardo all'usanza di assoldare mercenari è da notare che essa si sviluppa primieramente ed a preferenza nei paesi non solo ricchi, ma nei quali la ricchezza è industriale e commerciale piuttosto che agricola. Giacchè quivi la classe dirigente è disabituata dalla vita dei campi, che è la miglior preparazione a quella delle armi, e trova più il suo tornaconto a dirigere il banco e la fabbrica, anzichè a cavalcare in guerra. Così accadde in Cartagine, a Venezia ed in generale nei più ricchi Comuni italiani, dove la borghesia mercantile ed industriale perdette presto l'abitudine di combattere personalmente le sue guerre e le affidò a preferenza ai mercenari. Sicchè, come abbiamo rammentato, a Firenze le cavallate, cioè le spedizioni armate che i cittadini, che pur si erano battuti all'Arbia ed a Campaldino, eseguivano in persona, sono ricordate solo fino al 1325.

I mercenari poi, quando l'armatura del soldato costa molto e la sua maniera di combattere esige un lungo tirocinio, come era il caso del cavaliere medioevale e dell'oplita greco, sono ordinariamente cadetti o spostati di buona famiglia, che spontaneamente o per necessità cercano ventura fuori del loro paese nativo, e questa, ad esempio, era l'origine dei diecimila di Senofonte. Se al contrario l'armatura costa poco e non si richiede un lungo periodo di addestramento, allora si reclutano a preferenza nei paesi poveri, dove le braccia abbondano e vi sono poca industria e pochi capitali. Fino a poco tempo fa erano infatti le contee più povere dell'Irlanda, che fornivano il maggior numero di reclute all'esercito inglese; Machiavelli notava già la difficoltà con cui i Tedeschi delle città industriose andavano a servire come mercenari, e Voltaire rilevava che, ai suoi tempi, fra tutti i Tedeschi, i Sassoni erano i meno propensi ad arruolarsi come soldati, perchè la Sassonia era la regione più industriosa della Germania. Ai giorni nostri, anche se il Governo federale lo permettesse, non si troverebbero certo molti Svizzeri da assoldare; perchè la Svizzera è ora un paese abbastanza agiato, e parecchie sono le contrade europee che un tempo erano use a pigliare ai loro stipendi gli Svizzeri e che, forse a miglior mercato, sarebbero ora servite dagli elementi indigeni.

[237] Queste eccezioni sono avvenute qualche volta in Francia e più spesso in Ispagna, dove gli eserciti stanziali hanno cambiato qualche volta gli uomini che stavano al supremo potere ed anche le forme di governo. Ma bisogna riflettere che ciò è avvenuto in momenti di crisi e di disorganizzazione sociale, e che, una volta iniziato l'uso dei cambiamenti di governo per mezzo della violenza, ogni partito o classe sociale usa per imporsi quei mezzi che più sono nelle sue abitudini ed alla sua portata.

[238] La costumanza di avere in proprietà compagnie e reggimenti e di mettersi con essi allo stipendio dei vari Governi durò fino alla fine del secolo decimottavo, specialmente per i reggimenti svizzeri e tedeschi. Il reggimento di fanteria tedesca De la Marck, al servizio della Francia, era, ad es., sempre comandato da uno della famiglia De la Marck, veniva reclutato a preferenza nella contea dello stesso nome, si trasmetteva per eredità e gli ufficiali erano nominati dal colonnello; e tutto ciò fino alla rivoluzione francese (Vedi l'introduzione alla Correspondance entre le Comte de Mirabeau, etc, già citata). La convocazione di tutta la nobiltà in armi ebbe luogo in Francia l'ultima volta sul principio del regno di Luigi XIV. Ma si vide allora che la riunione di dodici o quindicimila cavalieri con armamento diverso, alcuni troppo giovani, altri troppo vecchi, personalmente valorosi ma poco esercitati a combattere in rango, avea in pratica poco valore.

Per analoghe ragioni la cavalleria polacca nel secolo decimottavo perdette molto della sua importanza militare. Al 1809, quando i francesi invasero l'Ungheria, fu convocata per l'ultima volta la nobiltà magiara in armi. Ma il corpo così formato, sebbene individualmente composto di brillanti cavalieri, mostrò poca solidità nella battaglia del Raab.

[239] In quelle contrade d'Europa dove si conservarono fino a tardi immunità e privilegi medioevali, gli abitanti mantennero gelosamente la prerogativa di custodire le mura e i fortilizi delle città con milizie cittadine. Ad esempio in Palermo, sotto la dominazione spagnuola, sebbene gli abitanti si conservassero quasi sempre fedelissimi sudditi di Sua Maestà Cattolica, pure non poteva entrare che un numero ben piccolo di soldati stranieri per custodire il Palazzo reale ed il Castello a mare, ed i baluardi con le artiglierie restavano in potere della milizia cittadina formata dalle onorate maestranze. Qualche volta che si trattò d'introdurre altre soldatesche in città, le dette maestranze, sempre professando devozione e fedeltà al Re, barricarono le strade e puntarono i cannoni dei baluardi sul palazzo reale. La rivolta di Messina del 1676 fu in parte occasionata dal tentativo, che fece lo stratigoto don Luigi dell'Hoyo, di sorprendere i forti che erano custoditi dalla milizia cittadina. Il timore che inspirava la soldatesca era fondato sulla condotta licenziosa, che si supponeva dovessero tenere i soldati.

[240] Federico II di Prussia si scusa nelle sue Memorie di essere stato costretto, durante la guerra dei sette anni, a nominare ufficiali persone che non erano nobili. Egli aveva una certa ripugnanza per questa nuova classe di ufficiali, perchè, secondo lui, il gentiluomo di nascita offriva maggiori garanzie morali e materiali; giacchè, se si disonorava come ufficiale, non poteva andare a fare un altro mestiere, mentre il plebeo trovava sempre modo di occuparsi ed era perciò meno interessato ad adempire scrupolosamente al dovere del suo grado. Questo ragionamento di un uomo così spregiudicato come fu il fondatore della potenza prussiana dimostra che in Germania, come altrove, la formazione di una classe la quale ha un'educazione elevata e che non fa parte della nobiltà è un fatto relativamente recente.

[241] Si sa che in Inghilterra è stata nel 1916 introdotta la coscrizione.

[242] È noto il carattere aristocratico che ha conservato l'ufficialità inglese e come nell'esercito inglese fino al 1870 sia durato il sistema della compra dei gradi. Il Fischel (Vedi La Constitution d'Angleterre, pag. 297. Paris, 1864, traduttore Vogel, ed. Reinwald) nota giustamente, che non è stato il Mutiny act che ha impedito all'esercito inglese di farsi strumento di colpi di Stato, ma piuttosto il fatto che l'ufficialità inglese appartiene per nascita e sentimento alle stesse classi, che sono state fino a mezzo secolo fa a preferenza rappresentate nel Parlamento.

Gli Stati Uniti d'America hanno seguito in ciò la tradizione inglese. Il socialista George rileva che nell'esercito federale fra il sott'ufficiale di grado più elevato e l'ufficiale subalterno di grado più basso non vi è solo differenza di grado ma anche di classe; vi è, dice egli, un vero abisso, che si potrebbe paragonare benissimo a quello che separa il negro dal bianco, là dove le distinzioni di colore sono maggiormente tenute in conto.

[243Cornelius De WittStoria di Washington, pag. 104. Riportata dal Jannet nell'opera più volte citata.

[244] Vedi l'opera già citata, Le istituzioni politiche e sociali agli Stati Uniti d'America di Claudio Jannet, parte I, cap. XVII.

[245] Vedi Apercu de la situation de la France et des moyens de concilier la liberté publique avec l'autorité royale pubblicato nella Correspondance entre le comte de Mirabeau et le comte De La Marck, vol. II, pag. 418.

[246] Vedi Thureau DanginHistoire de la Monarchie de Juillet, vol. VII, cap. VII.

[247] Il fatto che la guardia nazionale è durata più a lungo nel Belgio, dove si è tardato molto ad introdurre il servizio militare obbligatorio per tutti, farebbe supporre che la seconda delle due ragioni, che abbiamo addotto, non sia stata la meno efficace.

[248] Vedi Papiro del Museo britannico dove è la corrispondenza di Amon-em-apt, bibliotecario di Ramessou 2° (XIX dinastia), col suo allievo il poeta Pen-ta-our. La traduzione, che ne ha fatto Maspero, è riprodotta in tutte le moderne storie dell'antico Oriente.

[249] L'esame per il mandarinato militare si dava principalmente davanti il Tchang-kün ossia il capo della guarnigione tartara, che si trovava fino a qualche anno fa in tutte le città strategiche della China. È vero che, dopo le guerre civili della metà del secolo decimonono i gradi dei mandarini militari ebbero poca importanza, perchè conferiti spesso arbitrariamente in modo che chi in una provincia veniva congedato con un grado abbastanza elevato, spesso, nella provincia limitrofa, veniva arruolato come semplice soldato e viceversa. Però è da notare che il comando dei grossi reparti di truppe era affidato ai governatori delle Provincie e ad altri mandarini civili di grado elevato; fra i quali l'avanzamento si conseguiva con molteplici e rigorosi esami. Giacchè in China, come nell'antica Roma, negli alti gradi, la gerarchia civile si confonde con quella militare. Vedi in proposito Rousset, opera citata.

[250] La distinzione fra la militia equestris e quella comune fu originata dalla legge, che attribuiva ai comizi la nomina dei tribuni militari e dei gradi superiori. Or le elezioni popolari nell'antica Roma, come del resto avviene facilmente in molti paesi che non sono in uno stato di rivoluzione latente e nei quali il sistema elettivo vige da un pezzo, dava quasi sempre la prevalenza ai ricchi ed alle persone le cui famiglie godevano già una notorietà ed occupavano posizioni eminenti. Nei primi secoli dell'impero continuò la stessa organizzazione, ed i tribuni e gli altri ufficiali superiori furono scelti fra le più cospicue famiglie romane; però a poco a poco gl'imperatori esentarono prima i senatori e poi i cavalieri dal servizio militare, perchè temevano in essi possibili concorrenti. Durante poi l'anarchia militare, che ebbe luogo nel terzo secolo dopo Cristo e che produsse il periodo dei trenta tiranni, fu possibile a' semplici soldati diventare non solo generali ma anche imperatori. Vedi in proposito il volume di Mommsen e Marquardt sull'Organizzazione militare dei Romani che fa parte del citato Manuel des antiquités romaines.

[251] L'ultima grande guerra europea ha dimostrato che la solidità degli eserciti devesi in buona parte alla forza dei sentimenti patriottici inculcati da una lunga ed accurata educazione intellettuale e morale negli animi delle classi dirigenti e delle masse popolari.

[252] L'Amari nella sua Storia dei Musulmani in Sicilia pare che attribuisca all'azione del Cristianesimo la fiaccona di cui diedero spettacolo le genti greche durante l'impero bizantino. Or prima di tutto è da osservare che questo impero durò dieci secoli, durante i quali ebbe momenti di singolare energia militare. Poi bisogna tener presente che il Cristianesimo non produsse gli stessi risultati presso i Germani e gli Slavi e che gli spiriti guerreschi presto rinacquero anche fra le popolazioni latine dell'Occidente, una volta che colà l'amministrazione romana fu materialmente annullata e dall'anarchia uscì fuori la costituzione feudale. La verità è dunque che l'impero e la pace romana avevano assolutamente disabituato le popolazioni dalle armi, sicchè, una volta vinto l'esercito regolare, esse restavano facilissima preda di qualunque invasore.

[253] Si potrebbero portare moltissimi altri esempi a sostegno della nostra tesi; è da notare anche che l'eccellere in alcune armi e per certe determinate qualità militari è, per le varie nazioni, cosa molto mutevole, che dipende anzitutto dai loro ordinamenti civili e militari. Così Machiavelli trovava la cavalleria francese la migliore d'Europa, perchè quivi la nobiltà era tutta data alla vita militare, mentre le fanterie della stessa nazione giudicava cattive, "perchè composte d'ignobili e genti di mestiere sottomesse ai baroni e tanto in ogni loro azione depressi che sono vili". Cambiato l'ordinamento della società e degli eserciti, la fanteria divenne il miglior nerbo della forza militare della Francia.

Muza, uno dei generali arabi che conquistarono la Spagna, nel fare il suo rapporto al califfo Walid I, diceva: i Goti (con questo nome intendeva tutti gli Spagnuoli) sono aquile a cavallo, leoni nei loro castelli, a piedi donnicciuole. Anche durante la guerra d'indipendenza contro la Francia, il duca di Wellington lamentava la poca solidità della fanteria spagnuola in campo aperto, mentre, dietro gli spaldi di Saragozza, Tarragona ed altre città, essa mostrò valore e costanza straordinari. Or bisogna considerare che all'epoca dell'invasione araba la cavalleria doveva essere composta dalla nobiltà più abituata alle armi, mentre la fanteria, come all'epoca della guerra d'indipendenza, era forse formata da leve in massa, che solo dietro gli spaldi delle fortezze poteano mostrare il loro coraggio naturale; perchè non aveano quel coraggio acquisito, dovuto alla lunga abitudine della vita militare ed ai buoni quadri, che senza dubbio fu la dote precipua delle vecchie fanterie spagnuole, che, da Ferdinando il Cattolico a Filippo IV, vennero riguardate come le più solide di tutta l'Europa.

[254] Alludiamo agli elementi rivoluzionari, i quali naturalmente raccolgono quasi tutto ciò che di più avventuroso, ardito e violento vi è nelle società moderne.

[255] Il Von der Goltz (vedi la Nation armée nella traduzione di Jaeglè, ed. Hirnischen. Paris, 1884, nell'introduzione a pag. vii) lascia chiaramente indovinare un suo concetto secondo il quale, nella storia militare dei popoli, si può scorgere costantemente la lotta e l'alternato trionfo di due diverse tendenze militari.

La prima porta ad aumentare la massa dei combattenti ed a vincere colla preponderanza del numero, finchè, diventate le grosse masse di difficile maneggiamento e troppo poco esercitate, sono vinte da piccoli eserciti di soldati di mestiere, che rappresentano la seconda tendenza, cioè la specializzazione della funzione militare, la quale poi di nuovo tende a trasformarsi nell'armamento delle masse. L'autore crede che ancora in Europa non sia esaurita la tendenza ad aumentare il numero dei combattenti.

Or questo fenomeno storico accennato dal Von der Goltz non si esplica certo sempre regolarmente, subisce anzi molte eccezioni e perturbazioni, ma in qualche caso speciale si presenta abbastanza netto. I Medo-Persiani, ad esempio, stando al racconto degli storici greci, riuscirono a conquistare tutto il sud-ovest dell'Asia mobilizzando delle grandi masse; l'aver tenuto Ciro, per più di una stagione, un grosso esercito sotto le bandiere fu infatti la causa della rapida caduta del regno di Lidia, e grossissimi nuclei d'armati dovettero per lungo tempo tenere la campagna durante i due blocchi di Babilonia, che ebbero luogo sotto il predetto Ciro e sotto Dario d'Istaspe. Altre grandi masse si mobilizzarono pure nella spedizione contro gli Sciti ed in quella di Serse, durante la quale la macchina militare persiana cominciò a mostrare i suoi difetti. Infatti i contingenti dei vari popoli che formavano l'impero persiano, omai disabituati dalla guerra diuturna per il fatto stesso che appartenevano ad un grande Stato, perdettero gradatamente le loro qualità militari e si ridussero a turbe senza coesione, che non reggevano avanti la carica degli opliti greci, scarsi di numero ma molto esercitati, pesantemente armati e che sapevano combattere in ordine serrato.

[256] Il lettore avrà notato che l'ordinamento di un esercito moderno è in certo modo contrario al principio economico della divisione del lavoro ed alla legge fisiologica della adattabilità dei vari organi ad un determinato scopo. Ciò che dimostra ancora una volta la difficoltà di stabilire analogie fra i fenomeni del corpo umano e quelli del corpo sociale e fa rilevare le restrizioni che certe leggi economiche devono avere nel campo politico; perchè la divisione del lavoro troppo rigorosamente in esso applicata distruggerebbe facilmente ogni equilibrio giuridico, facendo dipendere la società intera da quella frazione, che esercita la funzione non già intellettualmente e moralmente più elevata, ma più indispensabile e che dà più facilmente modo di imporsi agli altri; come è appunto la funzione militare.

[257] Le ultime pagine del capitolo non furono, come tutto il libro, scritte prima del 1896, quando non era possibile prevedere la grande guerra europea, scoppiata nel 1914 e maturata negli anni immediatamente precedenti. Facilmente oggi si può affermare che questa grande guerra cambierà sensibilmente il corso degli avvenimenti umani in quasi tutto il mondo civile. Essa non fu evitata nè dagli interessi economici nè dalle repugnanze morali alle quali avevamo accennato a pag. 245.

[258] A questo proposito è degna di nota un'osservazione che lo Cherbuliez (Valbert) fa a proposito di un libro pubblicato dal dotto bramino Behramji. Questi, allevato dai missionari di Surate, aveva abiurato la religione dei suoi padri, senza divenire cristiano. “Parecchie centinaia di migliaia dei suoi compatrioti, aggiunge l'A., si trovano nello stesso caso. Al Bengala, come al Guzerate, il Cristianesimo è il più energico dei dissolventi. Esso rode e distrugge insensibilmente le vecchie idolatrie ma non riesce a rimpiazzarle, l'altare resta vuoto e viene consacrato al Dio ignoto. Gl'Indù, che non credono più alla Trimurti, alla incarnazione di Visnù ed alla metempsicosi, non credono neppure alla Santissima Trinità, all'incarnazione di Gesù Cristo, a Satana, all'inferno, ed il Paradiso del quale S. Pietro tiene le chiavi ha per essi poche attrattive”. Vedi Un voyage dans le Guzerate. “Revue des Deux Mondes” 1° dicembre 1885.

Or questo stato d'animo degli Indù colti si spiega facilmente. Da tutti coloro che sono iniziati alla scienza europea la religione cristiana può essere ancora praticata perchè ha radice nel sentimento non già nel raziocinio. Ma, quando non si è nati cristiani o non si è stati almeno educati in una famiglia cristiana, difficilmente il sentimento può agire.

[259] Vedi in proposito gli Études d'histoire religieuse pubblicati da Gaston Boissier nella “Revue des Deux Mondes” del 1889 e 1890. Specialmente l'articolo intitolato Le lendemain de l'invasion nella “Revue” del 1° maggio 1890, nella quale l'autore scrive che “les misères de ce temps (dell'epoca dell'invasione dei barbari), qui semblaient devoir porter un coup funest au christianisme, assurèrent sa victoire”. Si sa d'altronde che in parecchie grandi città dell'impero, a Roma specialmente, le classi più elevate erano state fino al tempo di Sant'Agostino generalmente ostili alla nuova religione.

[260] Ed ancor più dei primi quattordici anni del secolo ventesimo.

[261] Specialmente se il clero saprà esercitare la sua missione di carità. In Francia ed altrove, dopo una grave epidemia od una sensibile catastrofe, si è sempre notato un risveglio del pietismo. Ad esempio il cholera del 1832 fece diminuire l'avversione, che la rivoluzione del 1830 avea destato contro i preti. Altra reazione religiosa vi fu dopo l'annata terribile del 1870-71. Si noti che in entrambi i casi si è trattato di patimenti temporanei, che dopo qualche anno sono stati dimenticati.

[262] Nella Quintessenza del socialismo al paragrafo II.

[263] Si sa che questo movimento fu poi interrotto dal prevalere degli elementi radicali e socialisti. I quali, avendo quasi sempre un intuito esatto dei loro interessi politici, sentono istintivamente che le lotte acute fra lo Stato e la Chiesa riescono a loro vantaggio.

[264] Bisogna tener presente che nel 1870 il potere temporale non cadde ad un tratto, come edificio nuovo colpito da violento terremoto, ma venne giù come gli ultimi avanzi di una fabbrica vecchia e tarlata alla quale si tolgono gli ultimi puntelli.

Nei secoli scorsi infatti, anche dopo la Riforma, il dominio temporale dei Papi non era un fatto isolato, giacchè vi erano pure parecchi vescovi ed arcivescovi, che erano ancora sovrani. Al 1802 tutti i loro domini furono secolarizzati ed incorporati negli Stati vicini, e la Rivoluzione francese già prima avea occupato Avignone. Ristabilito nel 1814, e soltanto in Italia, il dominio temporale di una autorità ecclesiastica, già fin dal 1830 le fu necessario l'appoggio delle armi straniere, e dal 1848 in poi si resse soltanto in quelle parti, che erano presidiate dai soldati di un altro Governo. È perciò circa un secolo che il dominio temporale dei Papi è rimasto una istituzione monca ed isolata, e che quaranta anni prima della sua caduta avea cessato di vivere per forza propria. Questi concetti sono ampiamente sviluppati nel capitolo 1° del lavoro di Diomede Pantaleoni intitolato L'Idea italiana nella soppressione del potere temporale dei Papi. Torino, 1884, Loescher.

[265] È superfluo ricordare che quanto è esposto nelle ultime pagine del testo fu scritto verso la fine del 1895. Del resto quasi tutto quanto posteriormente è accaduto, e che ora accade, non smentisce ma conferma ciò che allora pensavamo.

[266] Vedi AmariStoria dei Musulmani in Sicilia e specialmente la parte II, volume III, pag. 702 e seguenti. Si potrebbe anche ricordare Averroe e l'Averroismo di Renan.

[267] Tale è almeno il risultato pratico degli insegnamenti di Confucio. Una volta Ki-lou, discepolo di questo filosofo, avendo interrogato il maestro intorno alla morte ne ottenne questa risposta: “Come è che voi, che non potete arrivare a sapere ciò che sia la vita, potete desiderare di conoscere ciò che sia la morte?”. Tze-Kong, altro discepolo, avendogli domandato se i Mani dei defunti avevano conoscenza di ciò che avviene nel mondo dei viventi, Confucio rispose: “Non occorre, Tze-Kong, che abbiate alcun impegno di sapere se i Mani dei nostri antenati abbiano cognizione di ciò che avviene tra noi. Non vi è alcuna urgenza di risolvere questo problema. Più tardi potrete vedere da voi stesso quale sia la verità su questo riguardo”. Rousset, op. cit., cap. VI.

[268] Forse il cattolicismo, in grazia della sua organizzazione superiore e perchè più coerente nel suo dommatismo, seguiterà a guadagnare un po' di terreno sulle diverse chiese protestanti, segnatamente nell'Inghilterra e negli Stati Uniti d'America.

[269] Vedi più sopra capitolo VI, paragrafo 6° in nota.

[270] Non occorre quasi di rammentare che Rousseau, il vero padre, come abbiamo già detto, della teoria della sovranità popolare e quindi della democrazia rappresentativa moderna, in qualche pagina del Contratto sociale (Vedi cap. XV) si mostrò decisamente avversario alla delegazione della sovranità ed al sistema rappresentativo. Invece ha dovuto accettarlo la scuola democratica, fondata sui principii posti dal filosofo ginevrino, per molteplici ragioni, fra le quali non va dimenticata questa: che il modello pratico, che s'impose tanto ai liberali che ai democratici per l'attuazione delle loro dottrine, fu la Costituzione inglese quale era nel secolo decimottavo, che dalla sua origine feudale avea tratto il principio della rappresentanza e l'avea conservato e sviluppato.

[271] Rammentiamo fin da ora, per qualcheduno che non lo ricordasse, come recentemente fra gli scrittori di diritto pubblico e fra coloro che si occupano di politica militante sia prevalso l'uso, specialmente in Italia, di chiamare governi costituzionali quelli nei quali il Presidente del Consiglio o Gran Cancelliere ed i Ministri che dirigono il potere esecutivo non cambiano per i voti contrari della Camera dei rappresentanti, ma solo per iniziativa del Capo dello Stato, come avviene segnatamente in Germania, mentre governi parlamentari sarebbero quelli in cui il Presidente del Consiglio ed i Ministri sono nominati dal Capo dello Stato, ma presentano le loro dimissioni ogni volta che perdono la maggioranza nella Camera elettiva, come è uso quasi costante, ad esempio, in Inghilterra, in Francia ed in Italia. In questi paesi, secondo alcuni scrittori, il Gabinetto viene ad essere un comitato della maggioranza della Camera elettiva. Vi sarebbe pure un terzo tipo di governo rappresentativo, quello presidenziale, che è in vigore negli Stati Uniti d'America, nel quale il potere esecutivo non si modifica secondo i voti della Camera bassa, ma il Capo dello Stato è elettivo ed inoltre lo Stato è ordinato secondo il sistema federale.

[272] Raccomandiamo in proposito ai lettori lo studio di un interessantissimo libro venuto alla luce circa venti anni fa, nel quale si descrive quale fosse l'organizzazione politica e sociale, quale lo stato morale, del Reame delle Due Sicilie negli ultimi anni della sua durata. Si noti che il Re Ferdinando II di cui si descrive l'opera, era uomo di discreta intelligenza, attivo, amante, a modo suo, del bene del suo popolo, moralmente superiore alla media dei suoi sudditi. Vedi MemorLa fine di un regno, Città di Castello, 1895, ed. Lapi.

[273] Forse ci siamo fin troppo dilungati a dimostrare l'utilità morale e sociale delle forme rappresentative, ma a ciò siamo stati indotti da una certa omai antica tendenza a denigrarle troppo e con soverchia leggerezza. Alcuni anni fa, ad esempio, ci è capitato sott'occhi un opuscolo nel quale per combattere il Parlamentarismo si affermava che il governo delle Assemblee è dannoso perchè esse partecipano della natura delle folle, facili a farsi trascinare dalla retorica e dal calore degli oratori a risoluzioni inconsulte e precipitate. Non occorre quasi di far osservare che le Assemblee non governano ma controllano chi governa e ne limitano il potere, e che del resto quasi sempre un'Assemblea di rappresentanti non è una folla, cioè una riunione di uomini fortuita ed inorganica, ma suole, al contrario, avere una organizzazione gerarchica di capacità e di competenze riconosciute, e contiene moltissime persone da una lunga esperienza salvaguardate contro i danni possibili che una eloquenza calda ed affascinante può produrre nei cervelli poco equilibrati.

Prima di lasciare l'argomento dobbiamo anche rammentare che alcuni degli inconvenienti rimproverati alle Assemblee offrono in contraccambio reali vantaggi, ad esempio la lentezza nel legiferare non è una cosa sempre dannosa; poichè spesso le leggi nuove richiedono nuovi impiegati e nuovi mezzi pecuniari per essere applicate, ciò che è in massima dannoso negli Stati moderni, dove la burocrazia ed i sistemi tributari sono già tanto sviluppati.

[274] Sugli inconvenienti del Parlamentarismo vedi Schèrer, La démocratie et la France. Paris, 1883, Librairie nouvelle; PrinsLa démocratie et le regime parlementaire. Bruxelles, 1884; Mosca, opere citate.

Dei mali cagionati dalla soverchia preponderanza dell'elemento elettivo si occupano pure il SeamenLe système de gouvernement americain, traduttore Hippert. Bruxelles, 1872, ed il Winschell in un articolo pubblicato nel numero di febbraio 1883 della “North-American Review”.

[275] Alludiamo alla volgare dottrina, secondo la quale la libertà sarebbe rimedio a sè stessa e, come la famosa lancia d'Achille, guarirebbe i mali che essa stessa produce.

[276] Se ne ebbe un esempio in Italia quando si discusse il disegno di legge sullo stato degli impiegati civili nel marzo ed aprile 1890, disegno di legge che, senza ragioni apparenti, fu improvvisamente messo a tacere e poi decadde per la chiusura della sessione, dopo che era stato approvato dalla Camera dei deputati. In Francia si è fatto peggio, giacchè colle epurazioni della burocrazia e della magistratura si è aumentato l'arbitrio dei Ministri strumenti delle maggioranze parlamentari.

[277] Solo nella Costituzione portoghese del 1826 veniva fatta la distinzione fra il potere moderatore, che apparteneva esclusivamente alla persona del Re (art. 21) ed il potere esecutivo che era esercitato dal Re per mezzo dei Ministri (art. 75). In tutte le altre costituzioni è detto solamente che il Capo dello Stato esercita il potere esecutivo mediante Ministri responsabili nominati e revocati a volontà. In Italia, ad esempio, nello Statuto non si parla che dei singoli Ministri e non già del Gabinetto e del Presidente del Consiglio, e le attribuzioni tanto dell'uno che dell'altro sono state determinate da una serie di decreti reali, di cui il più antico è quello dell'Azeglio del 1850 ed il più importante quello del Ricasoli del marzo 1867, abrogato un mese dopo dal Rattazzi e copiato in gran parte dal decreto Depretis del 20 agosto 1876, e poi da quelli successivi.

[278] Rammentiamo che nel 1783 il secondo Pitt fu chiamato al Governo da Giorgio III contro la volontà della maggioranza della Camera dei Comuni e che fin nel 1835 Guglielmo IV fece un tentativo, che ebbe alcuni mesi di successo, per sostituire di sua iniziativa Roberto Peel a Lord Melbourne.

[279] Rammentiamo in proposito l'uso e l'abuso che in certi paesi parlamentari si è fatto dei così detti Decreti-legge.

[280] Potrebbe considerarsi come titolo equipollente alla laurea universitaria l'aver raggiunto nell'esercito il grado di capitano, l'essere stato deputato al Parlamento o sindaco di un comune di più di diecimila abitanti ed anche l'aver presieduto un'associazione operaia od agricola, che contasse un certo numero di soci e possedesse un certo capitale.

[281] Fra i libri pubblicati in Italia, ad es., la stessa idea emerge dai duo volumi dell'opera del Turiello intitolata Governo e Governanti (Vedi 2a edizione Zanichelli, ed. Bologna, 1887).

[282] Così è, ad es., il limite che stabilisce il giorno preciso della maggiore età, per il quale fino a venti anni, undici mesi e ventinove giorni si è riputati incapaci di dirigere i propri affari e l'indomani si diventa maggiorenne, e quello che determina le condizioni precise per essere elettore, là dove non vige il suffragio universale, ecc.

[283] Non abbiamo alcuna difficoltà a confessare che le nostre idee relativamente a tutto quanto abbiamo scritto sulle trasformazioni possibili del regime parlamentare e, sopratutto sull'argomento trattato nel capo VIII, si sono sensibilmente modificate nei venti e più anni trascorsi dopo la pubblicazione della prima edizione degli Elementi di Scienza politica. Questa modificazione è avvenuta per diverse ragioni, ma sopratutto per il fatto che, a causa delle sempre accresciute mansioni dello Stato, la burocrazia assorbisce oggi tale una quantità di attività e competenze che, nella grande maggioranza delle regioni italiane, non si saprebbe con quali elementi reclutare quella classe di funzionari onorari alla quale si accenna nel testo.

[284] Questa osservazione è ancora generalmente poco nota, sicchè la si può sempre annunziare come una scoperta nuova; ma fra i Francesi che già l'hanno fatto vi è il Janet che la espose chiaramente in un pregevole lavoro sulle origini del socialismo contemporaneo, che apparve nella “Revue des deux Mondes” del luglio e dell'agosto 1880 ed anche il Thureau Dangin ed il Block e fra gl'Italiani rammenteremo l'Odescalchi nelle sue lettere sociali ed il Sernicoli nel suo libro sull'Anarchia e gli anarchici pubblicato nel 1894. — Del resto siccome l'osservazione è tale che salta subito agli occhi di chiunque voglia studiare un po' seriamente le origini del socialismo, non è da maravigliare che siano stati in parecchi coloro che l'hanno fatta spontaneamente.

[285] Chi fosse vago di conoscere maggiori particolari sulle scuole socialiste sorte in altri tempi ed in altre civiltà potrebbe consultare il Cognetti De MartiisSocialismo antico. Torino, 1885. Particolarmente interessanti sono i tentativi socialisti avvenuti in China sui quali si possono citare HucL'Empire chinoisDe VarignyUn socialiste chinois au XI siècle. “Revue des deux Mondes” del 1880 e la Nouvelle géographie universelle del Réclus (Paris, Hachette, 1882) a vol. VII, pag. 577 e segg. — Quest'ultimo lavoro si basa principalmente sul lavoro dello ZakharovArbeiten des russischen Gesandtschaft zu Peking. I più interessanti dei tentativi accennati furono quello che fu iniziato dal ministro Wang-mang, il quale sul finire del secolo III dell'êra volgare tentò di ripristinare in China le antichissime comunità agrarie, analoghe al mir russo, proibendo inoltre ad ogni privato di possedere più di un trin, ossia 6 ettari di terra, e l'altro più famoso che fu fatto nel 1069 dal ministro Wang-Ngan-Che (Wang-ant-Che secondo il Réclus), tentativo che fu prettamente collettivista, perchè con esso si pretendeva attribuire allo Stato solo la proprietà di tutte le terre e di tutti i capitali. — È superfluo dire che tutti e due i tentativi fallirono miseramente, che furono entrambi preceduti da periodi di malcontento e provocati da una critica demolitrice delle istituzioni allora vigenti, e che, dopo la mala riuscita del primo, un filosofo contemporaneo, forse disingannato, ebbe a scrivere: che “neppure You (il fondatore della monarchia chinese) sarebbe riuscito a ristabilire la proprietà comunale. — Chè tutto cambia, i fiumi mutano di letto e ciò che il tempo cancella sparisce per sempre”.

[286] Già il Janet ebbe a scrivere nel suo lavoro citato sulle origini del socialismo contemporaneo: “che è da Rousseau che data quell'odio contro la proprietà e quella collera contro l'ineguaglianza delle ricchezze, che alimentano di una maniera così terribile le moderne sètte socialiste”. È da notare però che tanto egli che gli altri autori, che attribuiscono giustamente a Rousseau la paternità intellettuale delle moderne teorie sovversive, citano ordinariamente soltanto un passo molto divulgato della dissertazione di questo scrittore: “Sull'origine dell'ineguaglianza fra gli uomini”, il quale passo, considerato indipendentemente dal resto dell'opera, è più declamatorio che concludente. — Esso è il principio della seconda parte della dissertazione accennata là dove l'autore scrive: “Il primo che avendo chiuso un terreno credette opportuno di dire esso è mio, fu il vero fondatore della società civile. Quanti delitti, miserie ed orrori non avrebbe risparmiato al genere umano colui che, togliendo i pali e colmando i fossi, avesse gridato ai suoi simili: guardatevi dal dar retta a questo impostore, voi siete perduti se dimenticate che i frutti sono di tutti e la terra è di nessuno”. Ora si potrebbe obiettare che nello stesso lavoro lo stesso autore osserva che “conseguenza necessaria della coltura delle terre fu la loro spartizione (leur partage)” venendo in certo modo a riconoscere che non ci può essere civiltà senza proprietà privata. I passi più decisivi, secondo noi, si trovano quattro o cinque pagine dopo. Rammentiamo che Rousseau fa una lunga descrizione, a modo suo, del lento e graduale passaggio degli uomini dalla vita selvaggia, anzi animalesca, a quella civile, e crede che i momenti più importanti di questa evoluzione siano stati la scoperta dei metalli e dell'agricoltura. — Egli crede inoltre che l'agricoltura, e quindi la proprietà privata, e la disuguaglianza di fortune abbiano preceduto qualunque organizzazione sociale, e che quindi vi sia stato un periodo di anarchia in cui ognuno combatteva contro tutti, e durante il quale chi aveva più da perdere era il ricco; allora (lasciamo la parola all'autore): “le riche, seul contre tous, et ne pouvant, à cause des jalousies mutuelles, s'unir avec ses égaux contre des ennemis unis par l'espoir commun du pillage, pressé par la nécessité, conçut le projet le plus réfléchi qui soit jamais entré dans l'esprit humain; ce fut d'employer en sa faveur les forces mêmes de ceux qui l'attaquaient, de faire ses défenseurs de ses adversaires, de leur inspirer d'autres maximes qui lui fussent aussi favorables que le droit naturel lui était contraire”. Segue poi narrando come su proposta dei ricchi gli uomini consentissero ad organizzarsi sotto un governo e sotto leggi, che apparentemente garentivano la vita e la proprietà di tutti, ma di fatto giovavano solo ai potenti, e conclude: “Telle fut ou dut être l'origine de la société et des lois, qui donnèrent de nouvelles entraves au faible et de nouvelles forces au riche, détruisirent sans retour la liberté naturelle, fixèrent pour jamais la loi de la propriété et de l'inégalité, d'une adroite usurpation firent un droit irrévocable et pour le profit de quelques ambitieux assujètirent désormais tout le genre humain au travail, à la servitude et à la misère”. Or non occorre una molto profonda conoscenza delle odierne scuole socialiste ed anarchiche per accorgersi che, nei brani citati, vi è intero il concetto della lotta di classe, ossia del governo istituito a beneficio di una sola classe, e vi è pure il germe di tutte quelle teorie e quei sentimenti ai quali si inspirano il principio collettivista, che, per impedire lo sfruttamento di una classe a vantaggio di un'altra, vuole abolire la proprietà privata delle terre, dei capitali e degli strumenti di lavoro, e, più logicamente ancora, il principio anarchico, che vuole abolire qualunque organizzazione politica per togliere radicalmente il modo ai governanti di sfruttare e comandare con la violenza e l'impostura i governati.

[287] In questo libro intitolato Code de la nature, che è un lavoro abbastanza volgare, sì per la forma che per l'incoerenza delle idee, il Morelly sostiene che tre debbono essere le leggi fondamentali di ogni società: 1° che non vi sia proprietà privata; 2° che ogni cittadino debba essere un pubblico funzionario; 3° che ogni cittadino debba contribuire all'utilità pubblica. Partendo da questi principii l'autore ammette che lo Stato debba nutrire ogni individuo e che ogni individuo debba lavorare per lo Stato, e fa il quadro di una società organizzata secondo i suoi ideali. Il Morelly, come precursore e pioniere delle moderne idee collettiviste, meriterebbe forse maggiore rispetto, almeno da parte dei suoi correligionari.

[288] Le idee del Mably (che il Rousseau accusò spesso di plagio) furono la prima volta adombrate in un lavoro intitolato: Doutes aux économistes, pubblicato nel 1768 in risposta ad un libro, pubblicato l'anno precedente, da Mercier de la Rivière, che avea per titolo: “Ordre naturel et essentiel des sociétés politiques”. Il secondo lavoro sull'argomento dello stesso Mably, s'intitola Législations ou principes des lois. In esso l'A. si pone l'obiezione che se si facesse la divisione delle terre l'ineguaglianza sarebbe ristabilita in poco tempo, e vi risponde così: “il ne s'agit pas de partage, mais de communautè: il ne s'agit pas de partager la propriètè, il faut l'abolir”. La frase accennata di Brissot, che testualmente è questa: “La propriètè exclusive est un vol”, trovasi in un lavoro intitolato: Recherches philosophiques sur la propriètè et sur le vol; e tanto il lavoro in genere che la frase furono molto rimproverati all'autore quando divenne uno dei capi del partito moderato della Convenzione. Per maggiori particolari si può leggere l'articolo già citato di Paolo Janet pubblicato nella “Revue des deux Mondes” del 1° agosto 1880.

[289] Per esempio Marat scriveva nel suo giornale l'“Amico del popolo” che i signori droghieri, procuratori e commessi di bottega cospiravano coi signori del lato destro della Convenzione e coi signori ricchi per combattere la rivoluzione e che bisognava arrestarli tutti come sospetti e ridurli alla classe di sanculotti “en ne leur laissant pas de quoi se couvrir le derrière”. Cambon proponeva un prestito forzoso di un miliardo sui ricchi con ipoteca sui beni degli emigrati. Con un decreto del 3 settembre 1793 si confiscavano tutti i redditi superiori alle 14.000 lire annue sotto il nome d'imprestito forzoso. Alla Convenzione ci era chi credeva la ricchezza una colpa e dichiarava cattivo cittadino chi non si sapesse contentare di un reddito di 3.000 lire annue. Il convenzionale La Planche, mandato in missione nel dipartimento del Cher, così il 29 vendemmiale 1793 rendeva conto del suo operato ai Giacobini: “Dappertutto ho messo il terrore all'ordine del giorno, dappertutto ho posto contribuzioni sui ricchi e gli aristocratici... Ho destituito i federalisti, messo in prigione i sospetti e dato man forte ai sanculotti”. Nello stesso club dei Giacobini si proponeva di requisire tutte le vettovaglie e distribuirle al popolo, ed il procuratore generale Chaumette, quando i fabbricanti chiudevano gli opifici, faceva la proposta che la Repubblica s'impadronisse di tutte le fabbriche e le materie prime. Per maggiori particolari leggere qualunque storia un po' dettagliata della grande rivoluzione francese.

[290] Il libro è intitolato: Histoire de la conspiration de Babœuf e fu edito a Bruxelles. È da notare che il Buonarroti, il quale diventò poi uno dei padri della Carboneria, ebbe una parte importantissima in tutte le società segrete, che, dopo la caduta dell'impero napoleonico, agitavano la Francia e l'Italia.

[291Fourier, a dir vero, aveva pubblicato fin dal 1808 la sua Théorie des quatre mouvements, ma pubblicò solo nel 1822 l'Association domestique et agricole e nel 1829 le Nouveau monde industrielSaint-Simon pubblicò il Nouveau Christianisme nel 1824 e morì nel 1825. Però, sebbene in quest'ultima fra le pubblicazioni siasi dal lato sentimentale accostato in qualche modo al Socialismo, e benchè il Sansimonismo che fiorì dopo il 1830 abbia contribuito a preparare il terreno al vero socialismo ed abbia precorso molte di quelle vedute che poi furono dal socialismo adottate, pure il pensiero espresso da Saint-Simon nelle sue pubblicazioni precedenti è troppo vasto, profondo ed originale perchè egli possa essere senz'altro menzionato come uno dei tanti scrittori che prepararono la moderna democrazia sociale.

[292Leroux pubblicò il suo libro De l'égalité nel 1838, la Réfutation de l'éclectisme nel 1839, Malthus et les économistes nel 1840. De l'humanitè nel 1840; del resto aveva cominciato a scrivere fin dal 1832 nel giornale “Le Globe”.

[293] Pubblicò nel 1840 la sua Organisation du travail. 

[294] Di Proudhon apparvero il Mémoire sur la propriété nel 1840, la Création de l'ordre dans l'humanité nel 1843, il Système des contradictions économiques ou philosophie de la misère nel 1846.

[295] Il libro del Buchez intitolato: Essai d'un traité complet de Philosophie au point de vue du catholicisme et du progrès, fu pubblicato nel 1839. Scrisse molto inoltre nel giornale l'“Atelier”.

[296] Alludiamo al già notissimo, ed ora dimenticato, Viaggio in Icaria di Cabet, che venne alla luce nel 1840. In esso l'autore finge di essere arrivato in un paese in cui non esiste la proprietà privata, e descrive la felicità che godevano gli uomini sotto un tale regime. Circa cinquant'anni dopo il Bellamy, quasi sulla stessa tela, ordì il Looking Backward, che ebbe una grandissima diffusione e fece la fortuna pecuniaria del suo autore. Quasi nessuno ha rilevata la scarsa originalità di questo lavoro e si e ricordato di Cabet.

[297] Ricordiamo ancora una volta che queste pagine furono scritte più di venti anni fa. È evidente che durante l'ultimo ventennio una nuova mentalità ed una nuova corrente di sentimenti si è andata formando nella gioventù delle diverse nazioni europee.

Il solo paese nel quale la corrente intellettuale che aspira ad un regime rappresentativo è stata fino a qualche tempo fa in certo modo confusa con quella che vorrebbe radicali riforme della proprietà e del presente ordinamento sociale e persino con gli anarchici, è la Russia. Potremmo citare in proposito pubblicazioni ufficiose e non molto antiche degli stessi comitati nihilisti, che mostrano il carattere non bene determinato della loro agitazione.

[298Ecclesiaste, paragrafo 4°, versetto 1°. Nei versetti 2° e 3° continua:

“Onde io pregio i morti, che già sono morti, più che i viventi, che sono in vita fino ad ora.

“Anzi più felice che gli uni e gli altri giudico colui, che fino ad ora non è stato, il quale non ha veduto le opere malvagie che si fanno sotto il sole”.

È importante il notare come questa malinconica e positiva concezione della società si trovi pure in altri scritti di pensatori che vissero fra popoli di antica cultura. Probabilmente è il frutto della raffinatezza di senso morale e della lucida percezione della realtà della vita che un lungo periodo di civiltà rende possibili in chi ha mente e cuore elevati.

[299] Per essere esatti dobbiamo rammentare che i seguaci della prima formula sono intesi fra i socialisti col nome di comunisti; mentre coloro che accettano l'altra, molto più in voga fra i numerosissimi seguaci del Marx, si chiamano propriamente collettivisti. Vero è che molti fra costoro ammettono che il comunismo sia l'ideale al quale si deve mirare e che solo ha l'inconveniente di non potersi immediatamente raggiungere. Come vedremo più avanti, pare a noi che il collettivismo, pure essendo una concessione che i riformatori fanno alla conosciuta fragilità o meglio all'egoismo della natura umana, complichi molto il sistema di rigenerazione sociale che essi vogliono attuare ed offra un numero maggiore di argomenti validissimi a coloro che lo combattono.

[300] Questi apprezzamenti, che noi dividiamo, li abbiamo raccolti dalla bocca del chiarissimo professore Saverio Scolari, morto nel dicembre del 1893.

[301] È perciò che, come abbiamo poco avanti accennato, il nome di socialisti-democratici, col quale si appellano i novatori tedeschi, ci pare il più adatto di tutti a dinotare i vari scopi che il loro partito si propone di raggiungere.

[302] Il lettore forse avrà notato che qualcuna delle osservazioni teste fatte, trovavasi già nel capitolo V, paragrafo IX del presente lavoro. L'importanza dell'argomento forse varrà a farci perdonare la ripetizione.

[303] Il lettore avrà notato che la nostra critica si riferisce tanto ai postulati del comunismo che a quelli del collettivismo e forse più ai primi che ai secondi. Or facciamo espressamente rilevare che, dal punto di vista nostro, il collettivismo si trova in condizioni di notevole inferiorità rispetto al comunismo. Infatti, se trionfasse la democrazia sociale più ortodossa, i governanti non solo avrebbero il diritto di fissare per ognuno la qualità di lavoro da fare ed il luogo dove andrebbe fatto, ma, non essendoci più una misura fissa di retribuzione, dovrebbero fissare il correspettivo di ogni genere di lavoro. Si vede subito la latitudine maggiore che potrebbe avere il loro arbitrio ed il loro favoritismo. Ne ciò sarebbe tutto: poichè il collettivismo permette l'accumulazione della ricchezza privata non già sotto forma di capitali industriali, ma bensì sotto l'altra di oggetti di puro consumo, i quali certo si potrebbero sempre cedere a titolo gratuito od oneroso e così rinascerebbe la corruzione elettorale e... tante altre specie di corruzione proprie delle società borghesi.

[304] Naturalmente non tutti transigono allo stesso punto o nella stessa maniera: le transazioni hanno varietà grandissime rispondenti al maggiore o minore egoismo, al diverso grado di delicatezza, alla diversa intensità degli scrupoli di ogni individuo.

[305] Fu detto già dal Burke, più di un secolo fa, che qualunque sistema politico, che presupponga l'esistenza di virtù sovrumane ed eroiche, ha per risultato il vizio e la corruzione. 

L'osservazione che abbiamo testè fatta, che la parte demolitrice, cioè, delle dottrine socialiste ha il suo fondamento nell'attribuire alla presente organizzazione sociale i mali e le ingiustizie che sono proprie della natura umana, si trova accennata in parecchi scrittori contemporanei. Ad esempio, vi alluse replicatamente lo Schaeffle nella sua Quintessenza del socialismo, che fu pubblicata fin dal 1874. Più chiaramente ancora l'italiano Icilio Vanni scrisse nel 1890: "Il socialismo vecchio e nuovo, razionalista ed evoluzionista che sia, riesce in sostanza alla pretesa di attuare in questo povero mondo umano un ordine assolutamente giusto, e così sempre si rivela il suo spirito metafisico". Anche il Block nel suo libro L'Europe politique et sociale (Paris, Hachette, 1893) dice: "Nous n'ignorons pas qu'il se commet des injustices, mais celles-ci on ne les supprime pas en changeant l'organisation sociale; on ne les supprimerait que si on pouvait modifier la nature humaine". Allo stesso ordine d'idee si riferiscono parecchi argomenti del libro intitotato: La superstizione socialista, pubblicato dal Garofalo

[306] Lo scrisse il Bebel nel suo libro: La donna ed il socialismo.

[307] Il mondo potrebbe diventare un Eden anche con la presente organizzazione borghese se ogni capitalista si contentasse di un onesto e moderato guadagno e non cercasse di rovinare i suoi emuli, di spremere quanti soldi può dalla tasca del consumatore, di far colare l'ultima stilla di sudore dalla fronte dell'operaio. Nello stesso tempo il proprietario di terre dovrebbe coltivare diligentemente i suoi campi e trarne il puro necessario per la sua frugale sussistenza, senza profittare delle oscillazioni del mercato per vendere più cari gli oggetti di prima necessità. Il mercante dovrebbe pure trarre dalla merce solo una quota limitata e fissa di profitto e non dovrebbe mai abusare della inesperienza del compratore per vendere più caro e frodarlo sulla qualità e sulla quantità dei diversi generi. L'operaio ed il contadino dovrebbero lavorare coscienziosamente per i loro padroni, nè più nè meno di come farebbero per conto proprio, senza mai ingannarlo, rubacchiarlo e farsi pagare la giornata ad ufo. Tutti poi, invece di spendere il loro superfluo o le loro economie in un fasto insultante, in soddisfazioni di vanità, in vizi e bagordi, dovrebbero andare in traccia dei più miseri, dei più inetti a guadagnarsi la vita per soccorrerli. In maniera che per una mano che si stendesse per domandare aiuto, dieci dovrebbero offrirsi, pronte e volonterose, per darlo.

Il George, che fu certamente un nobile cuore ed un acuto ingegno, credette che sia il sistema della concorrenza, e più precisamente il pericolo di mancare del necessario in cui taluno è messo da questo sistema, ciò che produce tutti i mali, che noi imputiamo all'egoismo ed alla mancanza di giustizia e di carità della maggior parte degli uomini.

Quest'autore, nel Progresso e Povertà, opera nella quale sostiene questa tesi, citò l'esempio di ciò che avviene in una tavola ben servita, dove, siccome ogni commensale sa che ci è roba sufficiente per tutti, cerca di essere gentile coi vicini e si evita così la gara ignobile di arraffare i buoni bocconi e nessuno cerca di avere una quantità di cibo maggiore degli altri.

Ora noi crediamo che il paragone non regga. E prima di tutto non in tutte le tavole bene servite il contegno dei commensali è così corretto come il George descrive. In secondo luogo poi è da osservare che l'appetito materiale è necessariamente limitato (Sancio Panza diceva che tre volte al giorno mangia il povero e tre volte al giorno può mangiare il ricco), sicchè in una tavola ben imbandita chiunque può trovar modo di saziare la sua, anche straordinaria, voracità senza usurpare la porzione degli altri. Così non è quando non si tratta più di un banchetto materiale, ma del banchetto allegorico della vita. Allora la voglia di imporsi agli altri, di soddisfare i propri capricci, le proprie passioni, le proprie libidini, può essere sciaguratamente illimitata ed insaziabile; sicchè uno solo cercherà di avere dieci, cento, mille porzioni, per potere, distribuendole agli altri, ridurli alle sue voglie, nella lotta per la preminenza avendo il trionfo chi può dispensare più largamente i mezzi coi quali si soddisfano i bisogni ed i vizi umani.

Sicchè, se ad ognuno si assicurasse un minimum per provvedere alle prime necessità della vita, la questione sociale non sarebbe risoluta. Si contenterebbero di quel minimum solo i più deboli ed i più poltroni, quelli che in ogni caso sarebbero i più disadatti alla lotta per la preminenza, e gli altri continuerebbero a farsi una concorrenza accanita.

[308] Ci è capitata, tra le tante, sotto gli occhi una pubblicazione di un anarchico italiano, nella quale si raccomanda ai lavoratori di sterminare, nel giorno della loro vittoria, non solo i borghesi adulti presi colle armi alla mano, ma anche i vecchi inermi, le donne e i bambini di due o tre anni, di trattarli insomma come gli antichi Ebrei trattavano i vinti, quando erano espressamente colpiti dall'interdetto di Jahveh. La forma di questa pubblicazione è tale che rivela nel suo autore buona cultura ed anche una discreta intelligenza!

[309] Si aggiunga che nella sua giovinezza Rousseau, che pure proveniva da una onorevole famiglia ginevrina e ne aveva ereditato gli istinti onesti e corretti, per la sua leggerezza, per la poca attitudine ad un lavoro modesto e proficuo, per l'abbandono in cui fu lasciato dal padre, decadde moralmente al punto da diventare per circa dieci anni il mantenuto, non sempre bene accetto, di madama di Warens. Recenti studi hanno messo in nuova luce la figura non solo equivoca ma addirittura losca di questa signora, e pare omai accertato che, mentre conviveva con Rousseau, abbia esercitato lo spionaggio anche ai danni di Ginevra, però nello stesso tempo non si può ad essa negare una certa bontà d'animo e per Gian-Giacomo fu certo una vera benefattrice. 

Indubbiamente, nell'età matura, la coscienza della bassezza morale nella quale era caduto in gioventù dovette essere uno dei più acuti tormenti del filosofo ginevrino; e, non potendo o non volendo imputare a se stesso, a suo padre ed a madama di Warens le cause di questo suo abbassamento morale, le addebitò senz'altro alla società. Questa, secondo noi, è la vera spiegazione psicologica del concetto fondamentale che serve di base a tutto il sistema politico e sociale di Rousseau: l'uomo nasce buono e la società lo rende cattivo.

[310] Mentre la maggior parte degli anarchici (per es. il Grave nella Société mourante et l'Anarchie) credono che basti abolire la proprietà e le leggi perchè gli uomini diventino tutti buoni, qualche altro meno ingenuo arriva a conchiusioni, che somigliano molto alle nostre. Così un certo De Gourmont negli Entretiens politiques et littéraires (aprile 1892, pag. 147), scrive: “Data la mancanza di qualsivoglia legge, l'ascendente degli uomini superiori diverrebbe unica legge ed il loro giusto dispotismo sarebbe incontestato. Questo dispotismo è necessario per mettere la museruola agli imbecilli: l'uomo senza intelligenza morde”. Noi invece di uomini superiori diremmo i più forti, invece di imbecilli i più deboli, e nel resto, tranne il punto di vista completamente diverso, siamo d'accordo. 

Questa citazione l'abbiamo trovata nell'importante lavoro del Sernicoli intitolato L'anarchia e gli anarchici, a pag. 70 del volume secondo. 

[311] Fra i romanzi pubblicati verso la fine del secolo scorso che descrivono come sarà il mondo dopo il trionfo della rivoluzione sociale, ce ne è uno, pochissimo conosciuto in Europa, che, per quanto anch'esso fantastico, ci pare esprima un concetto più inspirato alla realtà e quindi più pessimista di quelli più divulgati. 

Il romanzo s'intitola Caesar's Column (la Colonna di Cesare), e fu pubblicato a Melbourne nel 1892 (editore Cole), il suo vero autore si nasconde sotto il pseudonimo di Edmund Boisgilbert. In esso si descrive il trionfo del proletariato, che avverrà fra qualche secolo sulla plutocrazia, quando “un giorno di giustizia sociale salderà i secoli d'ingiustizia borghese”. Eccone la descrizione sommaria: Cesare Lomellini, il capo dei proletari, s'impadronisce dei tesori, dei vini e delle donne del principe dei plutocrati Cabanus e li proclama suoi abbandonandosi all'orgia ed alle crudeltà. Una tremenda carneficina intanto insanguina l'Europa, l'America e l'Australia ed i lavoratori vittoriosi, dopo avere ammazzato i plutocrati ed i loro satelliti ed aver consumato le provvigioni accumulate, si ammazzano fra di loro finchè tre quarti della popolazione e l'intera civiltà periscono. Il romanzo si chiude con la erezione di una colonna di teschi ed ossa umane (Caesar's Column) che Lomellini fa erigere a memoria dell'avvenimento, nella quale una iscrizione scongiura i posteri, nel caso che vogliano fondare nuove civiltà, ad evitare le corruzioni, le iniquità, le menzogne, che causarono la rovina di quella ora vigente.

[312] Il giudizio sul risorgimento italiano l'abbiamo inteso esprimere dal prof. Messedaglia. Sugli altri esempi da noi addotti si può osservare che, quando Annibale venne in Italia e riportò diverse vittorie sui Romani, in molte città italiche la plebe cominciò a parteggiare per il duce cartaginese, mentre i patrizi in generale si mantenevano fedeli a Roma; ciò che si spiega facilmente perchè i poveri sono sempre più desiderosi di novità ed hanno anche meno tatto politico delle classi dirigenti. Anche per le Crociate si può dire, che, specialmente verso la fine di esse, al fanatismo religioso si mescolò l'amore del lucro, ma però il constatare in un fenomeno sociale l'esistenza di un coefficiente economico non significa già che esso sia il principale e molto meno vuol dire che esso abbia determinato il nascere del fenomeno stesso.

[313] Il Loria nel suo libro Les bases économiques de la constitution sociale (Paris, 1893, Alcan editore), in cui riproduce e sviluppa i concetti ai quali avea già accennato nel suo precedente lavoro: La teoria economica della Costituzione politica, enumera tra i lavoratori improduttivi, gl'impiegati, i magistrati, gli avvocati, i medici ed i giornalisti e dice che l'opera di costoro, specialmente l'opera morale, impiegata a vantaggio del capitale, è retribuita non con una parte del capitale, ma con una larga partecipazione al suo reddito. Secondo l'A. “la funzione del lavoro improduttivo è di garantire i detentori del reddito contro la reazione di coloro, che sono esclusi dal possesso della terra”; e, su questo argomento dei rapporti tra lavoratori improduttivi e proprietari e capitalisti, cita, qualche pagina avanti al brano che abbiamo riportato, una sentenza di Shakespeare nella quale è detto che “quando i furbacchioni ricchi hanno bisogno dei furbacchioni poveri, questi possono imporre ai primi le condizioni che più loro convengono”. Evidentemente è per questa ragione che, secondo l'A., i lavoratori improduttivi sono così largamente rimunerati. Vedi opera citata, parte 3a cap. 11, pp. 172-74 e anche le seguenti.

[314] Ci si permetta un altro paragone, che crediamo calzante. Se si osserva una grande nave a vapore, di quelle che rappresentano gli ultimi perfezionamenti dell'industria e della scienza moderna, facilmente possiamo constatare che essa è stata costruita mercè la cooperazione di capitalisti, ingegneri navali ed operai e funziona mercè la cooperazione di un certo numero di ufficiali e di un numero più grande di semplici marinai e fuochisti. Or sarebbe giusto che questi ultimi insieme agli operai costruttori, come rappresentanti la parte che il lavoro manuale ha avuto ed ha nella costruzione e nel funzionamento della nave, pretendessero tutto il prodotto della stessa e giudicassero rubata quella parte che non va a loro? Evidentemente no: perchè se, senza gli operai ed i semplici marinai, i capitalisti, gl'ingegneri e gli ufficiali non potrebbero nè costruire, nè condurre un battello a vapore, senza la cooperazione dei capitalisti, degl'ingegneri e degli ufficiali, i rappresentanti del lavoro manuale non avrebbero saputo fabbricare altro che piccolissime barche, colle quali avrebbero potuto esercitare solo la pesca ed il piccolo cabotaggio, guadagnando molto meno di quanto complessivamente ritraggono dalla costruzione della nave a vapore e dal navigare sopra di essa. Se applichiamo l'esempio ai vari rami dell'attività sociale si vedrà che l'unione della ricchezza, della cultura superiore e del lavoro manuale produce ciò che complessivamente chiamasi la civiltà e migliora complessivamente le condizioni di tutti.

[315] Si potrebbe agevolmente dimostrare che il protezionismo non può giovare ad una parte della produzione nazionale senza che nuocia nello stesso tempo ad un'altra parte della stessa, indiscutibilmente maggiore. Perciò se alcuni proprietari ed industriali ne possono avere vantaggio, altri, più numerosi, ne debbono ritrarre nocumento. E, insieme coi poveri, esclusivamente danno ne ritrae tutta quella grossa frazione della classe ricca ed agiata che vive cogli interessi dei titoli di Stato, o di capitali dati a mutuo, oppure col commercio, coi guadagni professionali, cogli impieghi. Una cattiva politica bancaria può giovare soltanto ad alcuni industriali o politicanti che ottengono sconti di favore, ma nuoce indiscutibilmente a tutti gli altri cittadini, e specialmente poi a coloro che hanno danari. Un superficiale esame dei fatti accennati dimostra perciò assurda l'accusa, che si fa in qualche paese all'intera borghesia, di essere autrice consciente di certi danni e di certi scandali. Sarebbe molto più giusto ed esatto l'asserire che la gran maggioranza della classe dirigente, non per malizia ma per ignoranza, ha tollerato o consentito la sua rovina trascinando in essa anche quelle classi più misere, la cui tutela era affidata non solo alla sua onoratezza, ma anche al suo sapere.

[316] Prima di lasciare quest'argomento crediamo doveroso l'avvertire come gli autori, che colla storia hanno creduto di dimostrare che le classi alte arbitre del potere politico ne hanno usato costantemente per sfruttare i lavoratori, potrebbero essere molto facilmente confutati. — La loro ipotesi e la maniera come cercano di dimostrarla farebbero supporre che gli eventi umani fossero stati diretti per secoli e secoli da una volontà tenace e costante, che sapeva dove voleva giungere e preparava astutamente i mezzi all'uopo, da una congiura continua e tenebrosa delle classi ricche contro i poveri. Questa, per definirla benignamente, non ci pare altro che una forma del delirio di persecuzione; perchè in verità un osservatore calmo e spassionato studiando la storia, vede subito che i fatti, che hanno importanza sociale, sono determinati in parte da passioni, istinti e pregiudizi, quasi sempre incoscienti e che quasi mai si rendono conto dei risultati pratici che avrà la loro azione, in parte da interessi che hanno ordinariamente un obiettivo immediato, ed in parte finalmente da ciò che gli uomini chiamano il caso fortuito.

Così, ad esempio, contrariamente a quanto mostra di credere qualche scrittore socialista, il Cristianesimo non fu adottato perchè è una religione che, promettendo la felicità nell'altra vita, garantisce in questa ai potenti il quieto godimento delle ricchezze; nè le guerre moderne furono fatte con lo scopo di aumentare i debiti pubblici e quindi la influenza politica del capitale improduttivo. Come, aggiungiamo noi, l'America e l'Australia non furono scoperte col disegno di preparare uno sbocco alla esuberante popolazione operaia ed agricola dell'Europa nella seconda metà del secolo decimonono e nel ventesimo e di garantirla in questo modo contro un soverchio abbassamento dei salari.

Si sa poi come, alterando un poco alcuni fatti, tacendone altri, qualunque caso di delirio di persecuzione possa assumere l'apparenza di una realtà; ora il metodo che abbiamo accennato è appunto quello seguito dagli scrittori socialisti per provare che le classi dirigenti, che hanno fatto le leggi e determinato l'azione dello Stato, si sono serviti della loro influenza politica per depauperare coscientemente e costantemente le classi basse. Essi citano generalmente quelle leggi e quei provvedimenti, che possono essere giudicati dannosi a coloro che vivono di lavoro manuale, e quando poi debbono rammentare qualcuno che evidentemente è favorevole agli stessi, asseriscono, ben inteso senza provarlo, che fu dai salariati strappato con la forza all'avarizia dei capitalisti e dei proprietari.

Per addurre qualche esempio speciale rammenteremo che il Marx afferma (vedi Il Capitale, capo XVIII) che "durante la genesi storica dell'evoluzione capitalistica, la borghesia nascente si valse dello Stato per regolare il salario, cioè per deprimerlo fino al livello conveniente per mantenere il lavoratore al grado di dipendenza voluta", e cita, in appoggio del suo assunto, lo Statute of labourers del 1349, che stabilisce il maximum dei salari, altri statuti inglesi consimili di epoche posteriori, ed infine un'ordinanza francese del 1350.

Or di leggi di questo genere se ne trovano nei secoli scorsi anche in altri popoli, ad esempio, ce ne furono in Germania dopo che la guerra dei trent'anni ebbe spopolato il paese, e furono sempre fatte quando o per una lunga guerra o in seguito a pestilenze (non dimentichiamo che il 1348 fu l'anno della peste nera) la popolazione era molto diminuita ed i salari quindi bruscamente rialzavano. Ma provvedimenti così fatti non possono essere imparzialmente apprezzati se non si mettono in raffronto con altri provvedimenti contemporanei, o quasi; che stabilivano il maximum del pane, del grano, delle stoffe, dell'affitto delle case, ecc. Evidentemente quindi i reggitori dello Stato non volevano sistematicamente favorire la formazione della borghesia, ma nella loro ignoranza credevano di potere con le loro leggi mitigare o impedire i bruschi squilibri economici, che provenivano dall'eccessivo rincaro di qualunque merce, compreso il lavoro umano. — Il Loria fa anche meglio: nella pag. 6 del libro testè citato, dopo aver detto che ci fu un'epoca in cui, essendoci ancora terre libere, i proprietari avevano interesse a che i proletari non risparmiassero per acquistare il capitale necessario a coltivarle, enumera i metodi usati per ottenere quest'intento e quindi per ribassare i salari; essi sarebbero stati: "la riduzione diretta del salario, il deprezzamento della moneta, l'impiego di macchine più costose degli operai ch'esse sostituiscono, l'espansione del capitale improduttivo impiegato negli affari di borsa e di banca, nella moneta metallica, nei debiti pubblici, il numero eccessivo degli intermediarii inutili, la creazione di una popolazione eccessiva, che fa concorrenza agli operai occupati. — Tutti questi mezzi (continua sempre l'egregio autore) arrivano indubbiamente a limitare la produzione e per questa via anche a diminuire il profitto; nondimeno la classe proprietaria non esita a ricorrervi perchè sono la condizione necessaria per assicurare la durata del profitto impedendo la elevazione del salario, che avrebbe per risultato inevitabile la fine del reddito capitalista".

Or il chiarissimo professore di Economia politica, che non merita certo la taccia di sicofante dei capitalisti, indirizzata dal Marx a tanti altri cultori della stessa disciplina, avrebbe dovuto provarci: 1° che in un'epoca, che non può essere molto vicina a noi, perchè esistevano ancora nell'Europa occidentale terre libere, la classe dirigente avesse avuto tante e tali nozioni economiche da poter prevedere che le misure accennate, ad esempio, l'espansione del capitale improduttivo, avrebbero prodotto un ribasso dei salari; 2° che tutte queste misure, compreso lo svilimento della moneta e il soverchio aumento della popolazione, potessero essere la conseguenza di una volontaria determinazione di coloro che avevano nelle mani il potere. — Noi, attendendo questa dimostrazione, ci permettiamo di dubitare che neppure ora i governanti ed i loro amici abbiano tanta preveggenza e sopratutto che abbiano la possibilità di compiere tutti quei rivolgimenti economici che il Loria loro attribuisce.

[317] Pseudonimo del professore tedesco Vinkelblech.

[318] Fra gli autori socialisti in cui i sentimenti benevoli sono più forti, e quelli che hanno la loro base nell'odio sono meno accentuati, ci piace menzionare il Colajanni ed Ignazio Scarabelli, che ha pubblicato un libro Sul socialismo e la lotta di classe. Ferrara, 1895, Tipografia Sociale.

[319] Chiunque abbia una certa pratica degli opuscoli e dei giornali collettivisti ed anarchici sa quanto in essi sia spiccato questo carattere odioso della propaganda socialista, che si esplica con la sovraeccitazione della malevolenza e dell'invidia. È da notare che è appunto per mezzo degli opuscoli e dei giornali che la parola dei maestri, popolarizzata e sminuzzata, arriva alle masse.

[320] La povertà che va accompagnata immancabilmente dal dolore e dalla infelicità, come abbiamo già accennato, è quella estrema, che non consente che si provveda ai più elementari bisogni umani, oppure la povertà invida di chi non sa rassegnarsi che altri abbia di quei godimenti e di quelle soddisfazioni di vanità ai quali egli non può aspirare, oppure finalmente la povertà che segue un decadimento economico e produce quindi un peggioramento nel tenore di vita al quale si era abituati. — A questo proposito osserviamo che il godimento e la soddisfazione che si provano quando si migliora di condizione economica e sociale sono molto meno intensi e sopratutto più fugaci del dolore, che è conseguenza di un analogo peggioramento. — Perciò i frequenti mutamenti di fortuna, che portano molti in basso ed altri in alto, producono un totale di sofferenze assai superiore al totale della gioia. 

Prima di lasciare quest'argomento rammenteremo che il Nobili Vitelleschi in un articolo intitolato Socialismo ed Anarchia, pubblicato nella "Nuova Antologia" , del 15 gennaio 1895, scrisse che "è nella distinzione fra la felicità e la ricchezza che sta il motto dell'enigma, che turba i sonni dell'Europa e del mondo".

[321] Vedi Insurrection du 18 mars. Paris, Charpentier, 1872, nel capitolo I.

[322] Lo stato psicologico da noi accennato, che si ritrovava più specialmente nella gioventù italiana, e che era notorio a tutti coloro che avevano frequenti contatti cogli studenti delle nostre Università, viene stupendamente descritto in un lavoro giovanile di uno scrittore che dimostrò fin d'allora ingegno veramente eccezionale. Alludiamo all'opuscolo di Guglielmo Ferrero, intitolato Reazione (Torino, 1895, Roux editore). In esso l'A. dopo avere, a pagina 54 e seguenti, spiegate le ragioni per le quali la gioventù non credeva e non s'inspirava agli ideali dei suoi padri, scrive:

“Che resta dunque? C'è sempre un certo numero di individui che hanno bisogno di appassionarsi per qualche cosa di non immediato, di non personale e di lontano; a cui la cerchia dei propri affari, della scienza, dell'arte, non basta per esaurire tutta l'attività dello spirito. Che rimaneva a costoro in Italia se non l'idea socialista? Veniva da lontano, ciò che seduce sempre; era abbastanza complessa ed abbastanza vaga, almeno in certe sue parti, per soddisfare ai bisogni morali così differenti dei molti proseliti; da un lato portava uno spirito vasto di fratellanza e di internazionalismo, che corrisponde ad un reale bisogno moderno; dall'altro era improntata a un metodo scientifico che rassicurava gli spiriti educati alle scuole sperimentali. Dato ciò, nessuna meraviglia che un gran numero di giovani si sia inscritto in un partito dove almeno, se c'era pericolo d'incontrare qualche umile uscito dal carcere o qualche modesto repris de justice, non si poteva incontrare nessun panamista, nessun speculatore della politica, nessun appaltatore di patriottismo, nessun membro di quella banda di avventurieri senza coscienza e senza pudore, che, dopo aver fatto l'Italia, l'hanno divorata. La più superficiale osservazione dimostra subito che in Italia non esistono quasi in nessun posto le condizioni economiche e sociali per la formazione di un vero e grande partito socialista; inoltre un partito socialista dovrebbe trovare logicamente il nerbo delle sue reclute nelle classi operaie, non nella borghesia, come era accaduto in Italia. Ora se un partito socialista si sviluppava in Italia in condizioni sì sfavorevoli e in un modo così illogico, si è perchè rispondeva più che altro a un bisogno morale di un certo numero di giovani, nauseati di tanta corruzione, bassezza e viltà; e che si sarebbero dati al diavolo pur di sfuggire ai vecchi partiti imputriditi sino nelle midolla delle ossa”.

[323] Nei secoli scorsi il lusso avea di frequente un carattere, per così dire, primitivo; esso si esplicava infatti principalmente nel tenere una numerosissima servitù, nell'esercitare largamente l'ospitalità, qualche volta nel distribuire cibi e bevande alla popolazione di un'intera città. Certo in tutti questi modi di disfarsi del superfluo la vanità avea la sua parte, ma in conchiusione, mercè di essi, una porzione di ciò che soverchiava ad alcuni era goduta da coloro che più ne difettavano. In certe epoche più raffinate la magnificenza dei grandi si applicò a proteggere artisti e poeti e nell'agevolare quindi la creazione di quei capolavori dell'arte e della letteratura, che recano un godimento intellettuale squisitissimo non solo al proprietario od al mecenate, ma a tutti coloro che sono capaci d'apprezzarli. Il lusso moderno è nello stesso tempo più egoistico e meno intellettuale; giacchè consiste principalmente nel procacciare una quantità enorme di comodità e di soddisfazioni sensuali a coloro che possono spendere. Come se ciò non bastasse, i godimenti privati che esso procura a pochi sono da costoro resi, con ogni industria, di pubblica ragione mediante la descrizione che ne fanno i giornali quotidiani. Certo questa non è in fondo che una delle tante esplicazioni della vanità umana, ma l'effetto pratico delle pubblicazioni accennate è indiscutibilmente di far reputare i piaceri, di cui i ricchi soltanto possono godere, maggiori assai di quello che realmente siano e di aumentare quindi l'invidia e l'appetito in coloro che ne sono privi.

[324] Parecchi autori dei più accreditati avevano già fissato la data del trionfo del collettivismo, prognosticandolo per la fine del secolo decimonono o per i primi decenni del ventesimo.

[325] Come non l'ebbero gl'ideali dei prischi cristiani dopo il trionfo ufficiale del Cristianesimo.

[326] È bene tener presente che lo svilupparsi delle organizzazioni sindacaliste ed il loro antagonismo con lo Stato può rendere assai meno sicuro l'uso di questi mezzi d'azione.

[327] Alludiamo a quelle riforme mediante le quali lo si vorrebbe trasformare nella così detta nazione armata, come sarebbero la soverchia brevità della ferma, il reclutamento regionale in tempo di pace, ecc.

[328] Citiamo alcuni degli avvenimenti che potrebbero provocare una rivoluzione sociale. Tali sarebbero, ad esempio, una guerra disastrosa con qualche potenza straniera, una gravissima crisi industriale ed agricola, il fallimento di uno di parecchi grandi Stati europei.

[329] Abbiamo già detto al capitolo VII che la forza brutale può da sola reprimere o anche sopprimere una corrente d'idee e di passioni solo quando essa è adoperata senza scrupoli e senza riguardi, quando cioè è accompagnata da una crudeltà che non si arresta davanti il numero delle vittime.

Or, anche non tenendo conto che un tale uso della forza non è certo desiderabile, ai nostri tempi e coi nostri costumi esso è anche impossibile, almeno fino a quando non sarà provocato da eccessi analoghi dei rivoluzionari.

[330] Ad esempio nell'India coloro che in ogni città o villaggio appartengono alla stessa casta, o meglio alla stessa suddivisione di casta, si assistono e si aiutano reciprocamente. Anche fra i maomettani l'assistenza reciproca è di rito fra i membri della stessa tribù. In China la famiglia è molto più numerosa che in Europa, giacchè ordinariamente coabitano ed hanno comunità di interessi i discendenti dello stesso antenato fino alla terza generazione. Nel Giappone, a quanto ci ha assicurato il chiarissimo professore Paternostro che vi ha abitato diversi anni, gli abitanti dello stesso villaggio o dello stesso quartiere di una città si credono consuetudinariamente obbligati a soccorrere un vicino che ha subìto un disastro; se, ad esempio, gli s'incendia la casa, glie la ricostruiscono a spese comuni.

Nell'occidente d'Europa, e specialmente nelle grandi città, la famiglia da cui si può ricevere assistenza è praticamente ridotta al padre, alla madre ed ai figli finchè sono minorenni. Sicchè, se il capofamiglia, che vive di lavoro, per un accidente qualsiasi vede interrotti per qualche mese i suoi guadagni, la miseria e la disperazione sono inevitabili.

[331] Ciò che si chiama l'individualismo europeo, il fatto cioè che ognuno deve pensare solo per sè e Dio per tutti, è stato in questo secolo prodotto in parte dai frequenti spostamenti di fortuna, per i quali si rompono od allentano i legami di famiglia, di colleganza, di vicinato, ed in parte maggiore dalla soverchia mobilità della popolazione, dovuta alla creazione di nuovi centri industriali, nuove grandi città, ecc. Infatti è principalmente nelle grandi città, abitate in gran parte da una popolazione avventizia, dov'è raro che una famiglia risieda per dieci anni nella stessa casa, e dove non si sa quasi mai chi sia il proprio vicino di casa, che avvengono i più dolorosi casi di abbandono, nei quali un individuo od una famiglia, soli in mezzo ad una moltitudine, possono in qualche caso arrivare a morire letteralmente di fame.

[332] Alcune delle misure che molti caldeggiano, credendole una giusta soddisfazione alle aspirazioni dei socialisti, sarebbero : il diritto al lavoro, cioè l'obbligo imposto allo Stato di stipendiare tutti i disoccupati; la suddivisione forzata dei latifondi, che equivarrebbe alla prescrizione d'introdurre la piccola cultura anche colà dove essa non ha le condizioni naturali per vivere; il massimo di otto ore di lavoro, stabilito, non per mutuo consenso fra operai e capitalisti, ma per legge dello Stato; il tasso minimo dei salari stabilito pure per legge dello Stato; l'imposta unica e fortemente progressiva, ecc., ecc. Ognuno che abbia una mediocre conoscenza delle leggi economiche vede subito come basterebbe l'applicazione dei provvedimenti accennati per fare sparire nel volgere di pochi anni qualunque capitale privato. Bisogna però confessare che i Governi di molti paesi d'Europa si sono messi in una via tale, che, senza gravi strappi alla logica ed all'equità, difficilmente possono respingere tutte queste e le analoghe aspirazioni dei socialisti e socialistoidi. 

Infatti quando si eleva artificialmente il prezzo del pane, sotto lo specioso pretesto che bisogna assicurare ai proprietari un minimo di rimunerazione per la coltura del grano, come si può negare all'operaio che si stabilisca il prezzo minimo del suo lavoro?

[333] Non sarebbe il primo caso di una società che decade perchè si sono voluti applicare fino alle ultime conseguenze logiche quei principii, quelle dottrine, quei metodi, che in origine fecero la sua grandezza. Ad esempio, la forte organizzazione burocratica fu nei primi tempi forza grandissima dell'impero romano, che mercè di essa potè assimilare tanta parte del mondo, e l'eccesso della burocratizzazione divenne poi una delle cause principali del decadimento di quell'impero. Il fanatismo e la fede cieca ed esclusiva nel Corano furono il coefficiente più importante della pronta diffusione della civiltà maomettana, ma, col correre dei secoli, diventarono anche la ragione precipua della sua immobilità e decadenza.

[334] Questo giudizio, che si trova implicito in tutte le opere dell'egregio autore, è espresso esattamente nel Marco Aurelio al capitolo XXI. Vedi Marc-Aurèle et la fin du monde antique. Paris, 1882, Calman Lévy.

[335Garofalo, opera citata, pag. 240.

[336] Come quando afferma che “in qualunque città, in qualunque modo ordinata, ai gradi del comandare non giungono mai più di quaranta o cinquanta persone”. Vedi Discorsi, Cap. XVI.

[337] Vedi Olindo RodriguezSaint-Simon et son premier écrit, Paris, Librairie Saint-Simonienne, 1832. Il volume contiene realmente tre dei principali scritti di Saint-Simon, cioè le Lettere ad un abitante di Ginevra, la sua Parabola politica ed il Nuovo Cristianesimo. Come pure vedi le Œuvres de Saint-Simon et d'Enfantin, Paris, Dentu, anno 1865 e seguenti. In questa grande raccolta, che consta di 47 volumi, si trovano pubblicati scritti di Saint-Simon nei vo3. 15, 16, 18, 19, 20, 21, 22, 23, 37 e 39. I concetti che abbiamo accennato nel testo formano i capisaldi delle dottrine di Saint-Simon e si trovano ripetuti in quasi tutte le sue pubblicazioni. Crediamo superfluo ricordare che il Saint-Simonismo, il quale si costituì e si diffuse alcuni anni dopo la morte di Saint-Simon, si allontanò molto dalle idee del primo Maestro da cui prese il nome. In proposito si può pure consultare il lavoro di Paul Janet, sopra Saint Simon et le Saint-Simonisme, Paris, Germer-Baillière, 1878.

[338] La influenza intellettuale esercitata da Saint-Simon sopra Augusto Comte è assai bene rilevata da George Dumas; vedi Psychologie de deux Messies positivistes, Paris, Felix Alcan editore, 1905, pagina 255 e seguenti.

[339] Vedi Comte, Système de politique positive, Paris, Carillan ed., 1853.

[340] Il Grundriss der Sociologie, nel quale l'autore ribadiva e sviluppava i concetti espressi nel Rassenkampf, comparve nel 1885.

[341] Delle dottrine del De Gobineau e del Lapouge basate sulla superiorità etnica della classe dirigente ci siamo già occupati nella prima parte di questo lavoro (Capitolo 1°, paragrafo 10). Riguardo agli autori ora citati l'Ammon avea già pubblicato nel 1893 Die natürliche Auslese beim Menschen, Jena, edizione Fischer, e nel 1898 venne alla luce la prima edizione tedesca dell'Ordre social et ses bases naturelles (Paris, Librairie Thorin, 1900), nel quale la teoria dell'immanenza necessaria della classe politica, basata sopra una selezione naturale che accadrebbe negli strati sociali superiori, è largamente sviluppata. Quanto agli altri scrittori citati vedi NovikofConscience et volonté sociale, Paris, Giard e Brière ed., 1897; RensiLes anciennes régimes e La democrazia diretta. Bellinzona, 1902; ParetoLes systèmes socialistes, Paris, Saint-Amand, 1902, ed il Trattato di sociologia generale, Firenze, Barbèra, 1916; Michels RobertoLa sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Torino, Unione Tip., 1912. In questo lavoro, del quale comparve un'edizione tedesca nel 1911, l'A. dimostra con validissimi argomenti che anche i grandi partiti democratici e socialisti sono inevitabilmente guidati, e spesso con ferrea disciplina, da minoranze organizzate.

[342] Il Michels ha già rilevato la necessità dell'omaggio che, nei paesi retti a governo rappresentativo, i partiti conservatori devono rendere alle dottrine democratiche. Vedi opera citata e sopratutto l'articolo di quest'autore intitolato La democrazia e la legge ferrea dell'oligarchia, pubblicato nella “Rassegna contemporanea”, anno III, N. 5.

[343] Vedi Opere di Saint-Simon ed Enfantin, tomo XXI, pag. 211. Sarà utile ricordare che per Saint-Simon il dominio dei legisti e dei metafisici rappresentava il periodo di transizione fra la dominazione dei sacerdoti e dei guerrieri e quella degli scienziati e degli industriali. Inoltre egli giudicava che i legisti ed i metafisici, adattissimi a distruggere il mondo antico, si dimostravano inetti a ricostruire quello moderno.

[344] Vedi Parte prima, Capitolo VI, paragrafi VII ed VIII.

[345] Vedi Iliade nel secondo e nel nono canto. Nel canto secondo vi è la minuta descrizione tanto del consiglio dei maggiorenti che dell'assemblea generale di tutti i guerrieri. Vedi anche il canto secondo ed il canto ottavo dell'Odissea.

[346] Vedi TacitoDe origine, situ, moribus ac populis Germaniae, al capo XI, dove dice che "De minoribus rebus principes consultant de majoribus omnes". S'intende però tutti i guerrieri che facevano parte della tribù.

[347] Come accade precisamente nel citato canto secondo dell'Iliade. Del resto anche Tacito parlando dei Germani in seguito alle parole testè citate aggiunge: "ita tamen ut ea quoque, quorum penes plebem arbitrium est, principes praetractentur".

[348] Pare che ciò attualmente avvenga in qualche tribù arabo-berbera della Cirenaica.

[349] Anche Omero accenna ad uno dei Proci, Antinoo figlio di Eupite, il quale aspirava a diventare re d'Itaca scalzando Telemaco figlio di Ulisse. Vedi Odissea, canto ventiduesimo.

[350] Difatti essendo le popolazioni galliche, all'epoca della conquista romana, arrivate ad un grado di sviluppo economico e politico superiore a quello dei Germani contemporanei a Tacito, Cesare così descrive i loro ordinamenti politici: "In omni Gallia eorum hominum qui aliquo sunt numero et honore sunt duo (cioè i Druidi ed i cavalieri). Nam plebs poene servorum habetur loco, quae nihil audet per se, nulli adhibetur Consilio" (De bello gallico, Libro VI, Cap. XIII). Ed anche fra i Sassoni dell'epoca di Carlo Magno, certo socialmente più sviluppati dei Germani di Tacito, si distinguevano già nettamente due classi: i nobili od Etelingi ed in semplici uomini liberi, ossia Frilingi.

[351] Ciò avvenne nell'alto Egitto, dove nel nono secolo avanti Cristo i sommi sacerdoti di Ammon esercitarono ciò che ora sarebbe il potere temporale.

[352] Vedi Teorica dei governi, cap. II, § II, e la prima parte di questo volume, cap. II, § VIII.

[353SenofonteAnabasi. 

[354] Vedi HuartHistoire des Arabes. Paris, ed. Geuthner, 1912, volume I, cap. XIII. L'influenza persiana divenne preponderante specialmente sotto i califfi abbassidi. Lo stesso titolo di vizir, che si dava al primo ministro, era di origine persiana.

[355] Questa causa fu rilevata da Averroè, uno dei più forti intelletti che la civiltà maomettana nei suoi bei tempi abbia prodotto. Vedi RenanAverroès et l'Averroïsme, deuxième édition. Paris. Michel Lévy, cap. II, pag. 161.

[356] Per esempio quelli di dare a mangiare all'affamato, di dare a bere all'assetato, di non frodare la mercede all'operaio, di non mentire, di non fare falsa testimonianza, ecc. Come si sa, il così detto Rituale dei morti era una raccolta di testi sacri, dei quali i più antichi rimontano alla XI Dinastia, ed i più recenti alla XVIII, che si deponevano nelle tombe perchè servissero di guida al defunto nell'altra vita. La XVIII Dinastia regnò in Egitto circa 18 secoli prima dell'era volgare.

[357] È bene ricordare che la data approssimativamente più esatta intorno all'epoca nella quale furono composti i poemi omerici sembra la fine del nono secolo avanti l'êra volgare. È quella presso a poco accennata da Erodoto nel libro II, § 53, della sua storia.

[358] Una città greca nell'epoca classica generalmente distava da un'altra città greca una grossa giornata di cammino ed il suo territorio raramente superava i mille chilometri quadrati. In questo spazio, dato lo sviluppo agricolo dell'epoca, potevano agevolmente vivere dalle trenta alle quarantamila persone, fra le quali erano naturalmente compresi gli schiavi e gli stranieri domiciliati. Si sa che l'Attica aveva un territorio di circa duemilaseicento chilometri quadrati e che, nei suoi momenti migliori, la sua popolazione superò forse i duecentomila abitanti, e che anche Siracusa e Sparta avevano territori e popolazioni notevolmente superiori a quelle di una città greca normale, ma Atene, Siracusa e Sparta furono appunto gli Stati più grandi e forti dell'antico mondo ellenico. Sulla popolazione della Grecia antica si possono consultare gli ottimi lavori del Beloch e di altri egregi scrittori ripubblicati nel IV volume della Biblioteca di Storia economica di Vilfredo Pareto.

[359] Già Esiodo parla dei Re con assai meno rispetto di Omero. Difatti, quegli che fu detto il poeta dei contadini, li accusa di vendere la giustizia, li chiama senz'altro divoratori di regali, δοροφαγοί, e raccomanda caldamente a suo fratello Perseo di stare da essi lontano. 

[360] Oltre alle cause accennate, d'indole prevalentemente economica, alla democratizzazione della città greca dovette contribuire il cambiamento dell'armamento e della tattica, avvenuto appunto nell'epoca di cui trattiamo. Ai carri da guerra in uso all'epoca omerica, nella quale essi formavano, per dir così, l'arma che decideva dell'esito della pugna, carri che solo potevano procacciarsi le persone molto doviziose, si sostituirono col tempo i semplici cavalieri e poi anche gli opliti, fanti pesantemente armati, che formavano il nerbo degli eserciti greci durante l'epoca classica, l'arredamento dei quali, sebbene relativamente costoso, era accesibile alle mediocri fortune. Nella costituzione di Dracone, anteriore a quella di Solone, troviamo già sancito che partecipavano alle cariche pubbliche tutti coloro che erano forniti di armi (Vedi AristotileCostituzione di Atene, paragrafo IV).

[361] Vedi AristotileCostituzione di Atene, paragrafo 42.

[362] Perfino a Roma all'epoca dell'impero la separazione perfetta fra giustizia ed amministrazione, che per noi è uno dei concetti più familiari, non era stata introdotta. Vedi in proposito HartmannLa rovina del mondo antico, traduzione di Gino Luzzatto. Roux e Viarengo editori, capitolo 2°. pag. 46.

[363] Aristotile, nella Costituzione di Atene, enumera tutte le cariche pubbliche che erano ritenute necessarie per il retto andamento della repubblica. Esse occupavano parecchie migliaia di cittadini ed i titolari erano per lo più designati dalla sorte (Vedi opera citata nei paragrafi che vanno dal 42 al 62).

[364] Però Aristotile nella sua Costituzione di Atene (al paragrafo 42) ci informa che, arrivati all'età di diciotto anni, tutti gli efebi ateniesi facevano un anno di esercizi militari e poi per altri due anni custodivano armati il lido e gli altri luoghi strategici dell'Attica. In fondo perciò in Atene vi era ciò che ora si chiamerebbe la ferma triennale. Però mancava totalmente un corpo permanente di ufficiali. Il popolo sceglieva solamente ogni anno cinque cittadini probi che avessero sorpassato i quarant'anni, i quali curavano l'amministrazione degli efebi e sopraintendevano a ciò che ora sarebbe il rancio (ogni efebo riceveva per il proprio mantenimento quattro oboli al giorno), e due maestri di ginnastica incaricati di insegnare il maneggio delle armi e gli esercizi militari. Mancava inoltre un regolamento di disciplina ed un codice penale militare, e sicuramente, almeno in tempo di pace, l'efebo era sottoposto alla stessa giurisdizione degli altri cittadini. Nella storia di Atene non vi è poi alcun indizio il quale faccia supporre che questo corpo degli efebi sia intervenuto in sostegno di ciò che ora sarebbe il Governo.

[365] Si sa che, nel libro terzo della sua storia, Erodoto mette, con assai poca verosimiglianza, in bocca a tre dei grandi di Persia che avevano ucciso il falso Smerdi una disputa intorno ai pregi ed ai difetti della monarchia, dell'aristocrazia e della democrazia. Questa disputa prova che, fin dalla metà del secolo quinto avanti l'êra volgare, cioè più di un secolo prima che Aristotile dettasse i suoi libri, i Greci, non già i Persiani, ammettevano l'esistenza di tre forme fondamentali di governo ed esercitavano il loro spirito critico nell'esame dei vantaggi e dei danni inerenti a ciascuna di esse.

[366] Specialmente i libri sesto, settimo ed ottavo dell'opera citata.

[367] Vedi Politica, libro III, capitolo 7, paragrafo 7, e libro VIII, capitolo 1, paragrafo 7. In quest'ultimo passo è detto testualmente: γὰρ εὐγένεια ἕστιν ἀρετή ϰαὶ πλõυτος ἀρϰαῖος, imperciocchè l'eugenia è la virtù e la ricchezza di antica data (si sottintende nella famiglia). 

[368] Vedi Costituzione di Atene, paragrafo 27.

[369] Vedi Costituzione di Atene, paragrafo 24. Ivi è detto espressamente che alla spesa si provvedeva in parte coi contributi degli alleati.

[370] Vedi principalmente la Politica di Aristotile ed il dialogo di Platone sulla Repubblica.

[371] E ciò spiega in gran parte l'importanza grande che Platone ed Aristotile attribuivano all'educazione della giovane generazione, considerata già nella Grecia antica come una delle funzioni dello Stato.

[372] Vedi Politica, sopratutto nel libro VI, capitolo IX.

[373] Però dei diecimila solo la terza parte era fornita di armi e quindi, come osserva Aristotile, poteva prendere parte alle cariche pubbliche. Questo progetto di costituzione ideale d'Ippodamo è ricordato da Aristotile nel libro II, capitolo V della Politica. Nel capitolo precedente Aristotile parla di un altro tipo di costituzione ideale proposto da Falca di Calcedonia, nel quale si proponeva la ripartizione uguale dei beni immobili fra i cittadini; lo Stagirita con molto buon senso dimostra la difficoltà di applicare, e sopratutto di mantenere integra, una simile misura.

[374] Vedi Politica, libro IV, capitolo IV. Aristotile aggiunge che è necessario che i cittadini si possano conoscere tutti scambievolmente, perchè possano giudicare delle loro reciproche attitudini nell'esercitare le cariche pubbliche, e che ciò riesce impossibile se la cittadinanza è troppo numerosa.

[375] Nel libro II, capitolo VI della Politica si afferma che Sparta non poteva omai armare più di mille combattenti, ma probabilmente la cifra è troppo esigua. Lo stesso autore ammette che in epoche anteriori Sparta poteva avere circa diecimila cittadini. È superfluo far rilevare che il numero dei combattenti dovea sempre essere inferiore a quello dei cittadini. Quanto ad Atene il Beloch ammette che nel 431, allo scoppiare della guerra del Peloponneso, epoca della sua massima prosperità, il numero dei cittadini abbia potuto raggiungere i 45.000, comprendendovi i cleruchi, coloni ateniesi che abitavano in altre città. "Vedi Biblioteca di Storia economica". Vol. IV, pag. 129.

[376] Come accadde ad Atene dopo la battaglia di Egospotamos ed a Sparta dopo quella di Leuttra.

[377] Difatti nel Vecchio Testamento gli Ebrei sono considerati come caduti in servitù quando sono sottomessi dagli Amaleciti o dai Filistei, o quando vengono da Nabucco trapiantati in Babilonia, ma non già quando hanno un re nazionale, sebbene il governo duro ed arbitrario dei Re sia assai bene descritto da Samuele agli anziani d'Israele nel libro dei Giudici.

[378] Ci sono nella storia romana accenni all'esistenza della carica regia presso gli Etruschi ed i Latini all'epoca in cui Roma aveva ancora dei re o li aveva cacciati da poco, e basterebbe in proposito ricordare l'esempio di Porsena. Pare che Veio avesse ancora un re quando fu conquistata dai Romani nel 395 avanti Cristo. Però quando Roma conquistò tutti i popoli italici sembra che la regalità fosse stata già fra essi dappertutto abolita.

[379] Si sa che i diritti del cittadino perfetto (optimi juris) erano il jus commercii, il jus connubii, il jus suffragii ed il jus honorum. Col primo si otteneva il godimento di tutti i diritti privati del cittadino romano, col secondo quello di contrarre nozze regolari con un cittadino od una cittadina romana, col terzo quello di partecipare ai comizi e col quarto quello di conseguire le cariche pubbliche. Generalmente i due primi si concedevano con maggiore facilità, ma essi servivano ordinariamente di preparazione alla concessione degli altri.

[380] Vedi Gaetano De Sanctis, Storia dei Romani. Torino, ed. Bocca. Vol. III, Cap. III, pag. 193.

[381Urbem fecisti quod prius orbis erat, cantava nel principio del quinto secolo dopo Cristo Rutilio Numaziano. Lo stesso concetto esprime il contemporaneo Claudiano nel suo carme In secundum consulatum Stiliconis, nei versi che vanno dal centocinquanta al centosessanta.

[382] Una riforma democratica dei comizi centuriati, in modo da togliere in essi la preponderanza delle classi più agiate, fu certamente attuata nel periodo che corre dal 241 al 218 avanti Cristo, cioè fra la fine della prima ed il principio della seconda guerra punica. L'equiparazione delle leggi votate dai comizi centuriati ai plebisciti votati da quelli tributi, nei quali il numero prevaleva decisamente sul censo, sarebbe stata fatta da una legge Ortensia del 286 avanti Cristo, ma su questo punto i competenti fanno delle riserve. Del resto sul diritto pubblico romano esistono ancora molte incertezze, forse anche perchè noi vogliamo trovare in esso quella rigorosa delimitazione delle attribuzioni fra i vari organi dello Stato alla quale siamo abituati nelle Costituzioni moderne. Vedi in proposito PacchioniCorso di diritto romano, Torino, Unione Tipografica, 1918. Volume I, Periodo II. Capitolo IV.

[383] Vedi De Sanctis, opera citata, Voi. III, cap. IV, pagg. 344-346. L'A. dimostra come i pochi centurioni che a quell'epoca arrivarono fino al grado di tribuni si ha ragione di credere che avessero raggiunto il censo equestre.

[384] Vedi FerreroGrandezza e decadenza di Roma, vol. I, pag. 112.

[385] Il trinundinum, che dovea intercedere fra la convocazione e la riunione dei comizi, da alcuni autori viene calcolato di ventiquattro giorni, da altri di diciassette, ad ogni modo era sempre un periodo abbastanza lungo perchè si moltiplicassero i casi di urgenza ai quali dovea provvedere il Senato.

[386] Il censo dell'anno 28 avanti Cristo (tre anni dopo la battaglia di Azio) dava la cifra di 4.164.000 cittadini, quello dell'anno 8 avanti Cristo ne contava 4.233.000, l'ultimo di cui abbiamo notizia del 48 dopo Cristo, sotto l'imperatore Claudio, ne contava 5.894.012. Siccome non erano compresi nel censo le donne ed i maschi inferiori ai 17 anni, così la prima cifra corrispondeva già ad una popolazione di circa quattordici o quindici milioni di persone, assai più di quanto ne poteva contenere allora l'Italia, se teniamo conto pure degli schiavi e degli stranieri domiciliati. Vedi MarquardtDe l'organisation financière chez les Romains, Paris, Thorin, ed. 1888, 2a parte, pag. 337 in nota.

[387] Le leggi approvate dai comizi sono ancora importanti e numerose sotto Augusto, diminuiscono in seguito e sono gradatamente sostituite dai senatus consulta e poi dalle costituzioni imperiali. L'ultima legge approvata dai comizi che si ricordi è la lex agraria fatta sotto l'imperatore Nerva (96-98 dopo Cristo). Vedi Pacchioni, opera citata, Periodo quarto, cap. 9, 10 ed 11.

[388] La trasformazione dell'antico Stato città romano in un impero burocratico è stata oggetto degli studi profondi di molti storici e giuristi. Ricorderemo fra gli altri Pacchioni, opera citata, voi. I, periodo IV; HartmannLa rovina del mondo antico, trad. di Gino Luzzatto, Torino, Roux e Viarengo; Guglielmo FerreroGrandezza e decadenza di Roma, Milano, Treves, specialmente nel volume IV; BryceIl sacro romano impero, traduttore Balzani, Napoli, Vallardi editore.

[389] Vedi Pacchioni, opera citata, Periodo IV, capitolo IX.

[390] Pacchioni nell'opera citata (Periodo IV, capitolo XI) sostiene con validi argomenti che i giureconsulti giustinianei abbiano dato al famoso e noto passo di Ulpiano quod principi placuit legis habet vigorem una interpretazione estensiva che in principio non aveva. Ad ogni modo anche essi rendevano, per dir così, omaggio al principio della sovranità popolare, riconoscendo che il popolo avea delegato al principe la facoltà legislativa in virtù della lex regia de imperio.

[391] Interessantissimi sono in proposito i recenti lavori di Guglielmo Ferrero intitolati: La ruine de la civilisation antique, e pubblicati nella “Revue des deux mondes” del 15 settembre 1919, del 15 settembre e 1° giugno 1920 e del 15 febbraio 1921. Ripubblicati poi in volume a Parigi, librairie Plon, 1921.

[392] Come si sa, il corpo dei decurioni, costituito dai maggiori censiti e che esercitava funzioni abbastanza analoghe a quelle dei nostri Consigli comunali, era pure incaricato della riscossione delle imposte dirette e, nel caso che la città non potesse pagare interamente la quota assegnata, i decurioni doveano supplirvi coi loro beni privati. Perciò la carica di decurione, prima ambita come segno di distinzione sociale, diventò aborrita e tutti cercavano di sottrarvisi.

[393] È ricordato dagli storici un certo Bulla, che per lungo tempo scorazzò per l'Italia a capo di una masnada di seicento briganti; in Gallia durò molto a lungo il brigantaggio dei contadini rivoltati, che si dicevano Bagaudi. Del resto, per vedere quanto il brigantaggio fosse allora diffuso, basta leggere uno dei pochi romanzi che l'antichità classica ci ha lasciato, cioè l'Asino d'oro di Apuleio.

[394] Certo il Cristianesimo neppure nel quinto secolo era talmente penetrato nelle plebi campagnuole da rendere disusati l'aborto procurato e l'esposizione dei neonati, la quale era così comune nell'antichità che il riconoscimento di un esposto è uno degli intrecci più comuni del teatro antico.

[395] Si sa ad esempio che, quando l'imperatore Valente consentì che i Goti passassero il Danubio e si stabilissero nelle terre dell'impero, i funzionari incaricati di distribuire loro dei viveri e togliere le armi, corrotti dai doni, lasciarono loro le armi e nello stesso tempo si appropriarono di buona parte dei viveri. È inoltre molto istruttiva in proposito la relazione di una inchiesta, avvenuta in Tripolitania verso la fine del quarto secolo e riferita in tutti i suoi particolari da Ammiano Marcellino noi libro XXVIII capo 6°, paragrafo 5°, della sua storia.

[396] Vedi MoscaTeorica dei Governi, capitolo II, paragrafo VI, pag. 87. Torino, Loescher, 1884. È forse opportuno ricordare che, verso la fine del quarto secolo e nella prima metà del quinto, mentre l'impero d'occidente crollava, abbiamo nella Chiesa una pleiade di uomini superiori, sant'Ambrogio, san Girolamo, sant'Agostino, san Paolino da Nola, Paolo Orosio, Salviano, ecc., mentre, ad eccezione di Teodosio e dello sventurato Magioriano, uno degli ultimi imperatori d'occidente, quasi nessun uomo di carattere e di mente elevata di origine romana si dedica al servizio dello Stato. È caratteristico in proposito l'aneddoto narrato da sant'Agostino, di quel Pontitianus, che, mentre l'imperatore è al circo, con altri tre ufficiali del seguito imperiale va a passeggiare nei giardini vicino le mura di Treviri, durante la passeggiata entrano in un monastero e leggono la vita di sant'Antonio scritta da Atanasio arcivescovo di Alessandria, e la lettura ha tale effetto che essi abbandonano immediatamente il servizio imperiale e si danno alla Chiesa.

[397] Vedi Giacomo BryceIl sacro romano impero. Traduzione di Ugo Balzani, Napoli, Vallardi. 1886, cap. VII, pag. 84.

[398] Sotto Enrico III di Franconia il potere imperiale e regale raggiunse in Germania il massimo della sua efficacia; difatti egli potè per lungo tempo far rimanere inoccupati parecchi dei principali ducati, o farli occupare da parenti della casa regnante, e ritenere sotto il suo diretto dominio il ducato di Franconia e, per un certo tempo, anche quello di Svevia. Inoltre l'imperatore aveva il diritto esclusivo di nominare i titolari dei grandi feudi ecclesiastici, vescovati ed abbazie, i quali non erano ereditari e comprendevano quasi la metà del territorio tedesco. La morte immatura di Enrico III e poi la minore età e la debolezza di Enrico IV e le sue lotte col Papato permisero all'alta nobiltà tedesca di riguadagnare il terreno perduto. Vedi Bryce, opera citata, capitolo IX.

[399] Si sa che i baroni aragonesi adunati invitando il nuovo re a giurare che avrebbe conservati gli antichi patti prima di enumerarli dicevano: “noi di cui ciascuno vale quanto voi, e che tutti uniti vagliamo più di voi, vi nominiamo nostro re a queste condizioni”, e che, enumerate le condizioni, conchiudevano: “e se no, no”.

[400] Il processo di trasformazione della monarchia feudale in monarchia assoluta burocratica, che abbiamo sommariamente descritto, è quello che si potrebbe chiamare tipico o normale e che ebbe luogo in Francia ed in parecchi paesi d'Europa. Però ce ne furono altri che condussero, o che avrebbero condotto, allo stesso risultato. Ad esempio nella valle del Po il comune di Milano, trasformato prima in signoria e poi in ducato, sottomettendo molti altri comuni avea acquistato, nella prima metà del secolo decimoquinto, un territorio così vasto che avrebbe potuto benissimo diventare un reame. Altrove furono dei grandi feudatari che allargarono tanto i loro domini da trasformarli in regni, e questo fu precisamente il caso dei marchesi di Brandeburgo, che diventarono re di Prussia, e dei duchi di Savoia che diventarono re di Sardegna.

[401] Vedi in proposito nel capitolo precedente, nella nota a pagina 357, [nota 360 di questa edizione elettronica] quanto è detto relativamente all'influenza che la trasformazione dell'armamento ebbe nelle vicende politiche della città ellenica nel settimo e sesto secolo avanti l'êra volgare. Si può aggiungere che anche nel Giappone il prevalere dell'accentramento monarchico sulla feudalità, che ebbe luogo alla fine del secolo decimosesto ed agli inizi del decimosettimo per opera degli Shogun della famiglia Tokugava, fu di pochi anni posteriore all'introduzione delle armi da fuoco, fatte conoscere in quei paesi dai Portoghesi. Vedi De La MazelliereLe Japon, volume 3°, capitolo 2°. Paris, Librairie Plon, 1907.

[402] La perdita degli antichi diritti sovrani e la necessità di stare vicino alle Corti, per brigare ed ottenere impieghi lucrosi, indussero molte famiglie nobili ad abbandonare le loro terre per stabilirsi nelle capitali. L'allontanamento, come quasi sempre accade, fece sì che esse dovessero affittare, o anche vendere, in parte le loro proprietà rurali, e dagli affittuari o dai nuovi proprietari sorse la borghesia rurale.

[403] È opportuno ricordare che il diritto divino, come lo intendeva Bossuet alla fine del secolo decimosettimo, cioè che i popoli non potessero mai ribellarsi ai principi, anche malvagi, e che questi dovessero render conto del modo come esercitavano il potere soltanto a Dio, non fu mai ammesso dagli scrittori medioevali nè da quelli posteriori fino al seicento. San Tommaso, ad esempio, nella Summa in certi casi giustificava la ribellione ed ammetteva che i popoli potessero scegliersi la forma di regime politico che credevano più conveniente, e manifestava anzi la sua preferenza per un governo misto, nel quale le tre forme della classificazione aristotelica, cioè la monarchica, l'aristocratica e la democratica fossero fuse e contemperate.

[404] Basta avere una certa dimestichezza con gli scrittori politici medioevali, e anche con quelli posteriori del cinquecento e del principio del seicento, per comprendere come essi adattassero il concetto di sovranità popolare, ereditato dalla classica antichità, alle condizioni della società nella quale vivevano. Perciò quando San Tommaso, Marsilio da Padova, Umberto Languet, Buchanan, Althusius, ecc. parlano del popolo, essi pensano sempre che questo sia legittimamente rappresentato dai suoi capi naturali, ossia dai baroni e dai capi delle corporazioni e dei Comuni, che essi chiamano in vario modo, ossia selecti, ephori, ecc. L'idea che tutti i singoli individui dovevano avere una parte uguale nell'esercizio della sovranità non potea nascere se non dopo che l'assolutismo burocratico ebbe frantumato gli antichi conglomerati umani e distrutto ogni potere sovrano intermedio fra lo Stato e l'individuo. Il Ruffini in una sua recente pubblicazione (vedi Guerra e riforme costituzionali, nell'“Annuario dell'Università di Torino”, del 1920 a pag. 22), ha sostenuto che Marsilio di Padova intendeva la sovranità popolare alla moderna, cioè come quella della maggioranza numerica dei consociati; non crediamo che sia il momento ed il luogo di aprire una discussione in proposito, ma, malgrado la grande autorità dello scrittore, non dividiamo la sua opinione.

[405] Vedi MoscaAppunti di diritto costituzionale, Società editrice libraria, Milano, 1921, cap. V, pagine 30 e 31.

[406] Vedi Giovanni BoteroRelazioni universali, edizione veneziana Bertani del 1671. Parte 2a libro 1°, pag. 257. Come si sa, le Relazioni universali sono un trattato di geografia fisica e politica, maravigliosamente esatto per l'epoca in cui fu scritto. Il Botero evidentemente attingeva le sue notizie sui vari paesi ad ottime fonti e sapeva distinguere quali fossero a preferenza le notizie che importava di conoscere e di comunicare al lettore. Difatti lo stesso autore rileva anche, a pagina 260 della stessa opera, come i grandi baroni inglesi, a differenza di quelli francesi, avevano già perduto ogni importanza politica, perchè non esercitavano più alcuna giurisdizione, nè avevano più castelli fortificati. Del resto la preponderanza della Corte e della Corona nell'Inghilterra del secolo XVI è generalmente ammessa, ed è provata dal fatto che tutti i mutamenti religiosi, che vi ebbero luogo durante quell'epoca, si compirono per iniziativa dei Re e delle due regine Maria ed Elisabetta Tudor.

[407] Il sistema di affidare molte cariche locali amministrative e giudiziarie a funzionari scelti dalla Corona fra i notabili del luogo costituì ciò che gli Inglesi chiamarono il self-government e fu una delle cause principali del prevalere del Parlamento sulla Corona. A cominciare dalla grande riforma amministrativa del 1834 le attribuzioni dei funzionari onorari furono prima diminuite e poi gradatamente abolite e ad essi si sostituirono i consigli elettivi e la burocrazia stipendiata. Questa trasformazione si potè considerare come compiuta nel 1894. Vedi BertoliniIl governo locale inglese, Torino, Bocca, 1899.

[408] Si sa che Carlo I alle milizie ribelli delle città non potè contrapporre che quelle delle campagne, guidate dai così detti cavalieri. Perdette la guerra per i suoi tentennamenti e perchè si trovò di fronte un uomo di genio, Oliviero Cromwell, che per il primo seppe costituire in Inghilterra un vero esercito stanziale, sul quale appoggiandosi instaurò poi la dittatura militare. Appena avvenuta la restaurazione degli Stuard con Carlo II quest'esercito fu sciolto. Vedi MoscaAppunti di diritto costituzionale, pagine 45 e seguenti.

[409] Questa disposizione fondamentale, che rese possibile la trasformazione avvenuta in tanti Stati europei della monarchia assoluta in monarchia rappresentativa, è contenuta nel quarto comma dell'Atto di stabilimento. Il Consiglio privato era un corpo consultivo di alti funzionari, che assisteva il Re nell'esercizio del potere esecutivo. Verso la fine del secolo decimosettimo le adunanze del Consiglio privato cominciarono ad essere tenute prò forma, e poi ad andare in disuso, perchè era troppo numeroso, ed esse furono sostituite da quelle dei membri più influenti del consiglio stesso, che costituirono ciò che poi fu chiamato il Gabinetto. Vedi Mosca, opera citata, pagine 55 e 56.

[410] La censura preventiva era stata di fatto abolita in Inghilterra nel 1694 ma la legislazione repressiva dei reati di stampa continuò ad essere molto severa fino allo scorcio del secolo XVIII. Diventò assai più mite dopo una legge proposta dal Fox ed approvata nel 1778.

[411] Lo Stato rappresentativo moderno naturalmente presenta diverse varietà o sottotipi a seconda dei vari paesi che l'hanno adottato: ad esempio uno di essi sarebbe quello monarchico costituzionale, che vigeva in Germania fino al 1918, nel quale il potere esecutivo non emanava dalla maggioranza della Camera elettiva; un altro, quello monarchico parlamentare, che vige in Inghilterra, nel Belgio ed in Italia, dove i Ministeri cadono quando perdono la maggioranza nella Camera elettiva; inoltre vi è quello repubblicano parlamentare, che è in vigore in Francia, e quello repubblicano presidenziale degli Stati Uniti d'America, nel quale il Presidente è nello stesso tempo capo dello Stato e capo del Governo. Abbiamo adottato l'espressione di Stato rappresentativo moderno, perchè con essa si possono collettivamente indicare tutte le varietà che questa forma di regime politico può presentare.

[412] La preponderanza assoluta degli Stati di civiltà europea rispetto a quelli di civiltà asiatica si era già affermata nel mondo al principio del secolo decimottavo, quando la Turchia, che fino all'assedio di Vienna, avvenuto nel 1683, non aveva perduto la sua forza offensiva, cominciò a manifestare la sua debolezza rispetto al resto dell'Europa. La conquista dell'India fu fatta dagli Inglesi nella seconda metà del secolo decimottavo, ed avrebbe forse potuto esser fatta dai Francesi se questi avessero capito a tempo l'importanza della partita che colà si giocava. La preponderanza europea si mantenne inconcussa durante il secolo decimonono, oggi è già fortemente scossa dopo le vittorie del Giappone sulla Russia, perchè gli Asiatici cominciano a comprendere che è loro possibile di adottare l'organizzazione amministrativa e militare dell'Europa e dell'America e trar profitto dei loro progressi scientifici conservando il proprio tipo di civiltà.

[413] Del fatto che anche in un regime rappresentativo a suffragio molto largo il potere effettivo resta in mano a piccole minoranze organizzate, quasi tutte composte di individui provenienti dalle classi superiori e sopratutto da quelle medie, o che hanno già acquistato i requisiti delle classi medie, ci siamo già occupati nella Teorica dei Governi (Torino, Loescher, 1884) ed anche nella prima parte di questo lavoro. Sullo stesso argomento si potrebbero utilmente consultare altri lavori, fra i quali quello già citato del Michels, La sociologia del partito politico nella democrazia moderna, Torino, Unione Tipografica Ed., 1912, e quello classico dell'Ostrogorski, intitolato La démocratie et l'organisation des partis politiques, Paris, Calman-Léwy, 1903.

[414] Qualche lettore, che potrà ricordare quanto abbiamo scritto nella Teorica dei Governi a proposito del governo parlamentare, avrà forse notato che le nostre idee sull'argomento si sono abbastanza modificate. Era difficile infatti che ciò non avvenisse a distanza di trentanove anni, ed i primi segni di questa modificazione già si erano rivelati nella prima parte di questo lavoro, che fu pubblicata per la prima volta alla fine del 1895. In sostanza conserviamo anche oggi integro il concetto fondamentale della Teorica dei Governi, cioè che tutte le organizzazioni statali sono costituite da minoranze organizzate e che per ciò ogni forma di regime politico, la quale presume di basarsi sulla libera espressione della volontà della maggioranza, contiene una insanabile menzogna, che alla lunga ne deve produrre la decadenza. Riconosciamo pure fondati quasi tutti gli altri appunti fatti allora al governo parlamentare, ma una maggiore conoscenza della storia ed una esperienza maggiore della vita ci hanno insegnato a considerarli con maggiore indulgenza, avendo constatato come sia impossibile che esista una forma di organizzazione politica la quale, nel suo pratico funzionamento, non sia inquinata dalle immancabili debolezze morali ed intellettuali della natura umana. Ed oggi ci atterrisce piuttosto la previsione che ai tipi attuali di organizzazione politica se ne possano sostituire altri, nei quali le debolezze accennate avranno un campo d'azione assai più vasto e potranno agire con efficacia maggiore.

[415] Vedi in proposito la Parte prima del presente lavoro a Cap. V, p. 132.

[416] È interessante di rilevare come questa verità sia stata nettamente percepita da Gian Giacomo Rousseau, il quale nel Contratto sociale (Libro III, capitolo IV) scrisse: "A prende le terme dans la rigueur de l'acceptation il n'a jamais existé de véritable démocratie, et il n'en existerà jamais. Il est contre l'ordre naturel que le gran nombre gouverne et que le petit soit gouverné". Questo passo è un esempio tipico di quella intuizione della necessaria esistenza della classe politica alla quale abbiamo accennato nella prima pagina della seconda parte di questo lavoro. Il passo di Rousseau, che abbiamo ora citato, è ricordato anche dal Michels nel capitolo 3° della parte seconda del suo libro sulla Sociologia dei partiti politici. 

[417] Ricorderemo quanto abbiamo scritto in proposito nell'ultimo capitolo della prima parte di questo lavoro e che trova ora la sua conferma in quanto è avvenuto ed avviene in Russia.

[418] Questo pericolo è stato già studiato e segnalato in due nostri articoli che furono pubblicati nel "Corriere della Sera" del 17 ottobre 1907 e del 27 maggio 1909, l'uno intitolato Feudalismo funzionale, l'altro Il pericolo dello Stato moderno. Un altro articolo sullo stesso argomento, intitolato Feudalismo e Sindacalismo, abbiamo pubblicato nella "Tribuna" del 1° febbraio 1920. Vedi pure in proposito: MoscaAppunti di diritto costituzionale. Terza edizione, pagine 164 e 165.

[419] Vedi il dialogo delle leggi in Platonis Opera, Parigi, Firmin Didot editore, volume II, pagina 311. Anche Machiavelli scrisse nello prime righe del Principe che "tutti gli Stati, tutti i dominii che hanno avuto ed hanno imperio sopra gli uomini sono stati e sono repubbliche o principati”, riconoscendo così anche egli due forme fondamentali di reggimento politico, in una delle quali i poteri sovrani si esercitano in nome di un individuo, mentre nell'altra sono esercitati in nome del popolo.

[420] Basta ricordare in proposito quel che accadeva nei regimi indiscutibilmente liberali della Grecia e di Roma ed anche in molti Comuni medioevali, nei quali cittadini perfetti erano soltanto gli ascritti alle arti maggiori.

[421] Si sa che i primi quattro Califfi furono eletti dalla comunità musulmana, o, per dire le cose più esattamente, dai più autorevoli membri di essa, che presumevano di rappresentarla, ma che poi il califfato diventò ereditario e restò infeudato in alcune famiglie. È da notare però che il Sovrano musulmano, per quanto assoluto, non può cambiare le leggi fondamentali, che sono contenute nel Corano o desunte dalla tradizione trasmessa dai più antichi dottori.

[422] Nel Messico però i conquistatori spagnuoli trovarono pure una repubblica, quella di Tlascala, che pare fosse retta da un Consiglio di capi tribù. Essa si alleò con Cortes e gli servì di base di operazione nella sua lotta contro l'impero degli Aztechi. Vedi Antonio de SolisStoria della conquista del Messico. 

[423] I mezzi più efficaci e sicuri d'imporsi sono sempre stati i soldi e sopratutto i soldati. Perciò nei regimi autocratici molto spesso il successore del trono è stato scelto da coloro che disponevano delle casse dello Stato e della forza armata, e specialmente di quella parte della forza armata che stava nella capitale a custodia del sovrano, della corte e degli organi centrali del Governo. Basterebbe ricordare in proposito quello che fecero i pretoriani a Roma, la guardia turca nel califfato di Bagdad, gli strelitzi a Mosca fino a Pietro il Grande ed i giannizzeri a Costantinopoli fino ai primi decenni del secolo decimonono.

[424] Si può ricordare l'influenza che ebbero spesso a Costantinopoli gli eunuchi che stavano a servizio del Sultano e quella che essi esercitavano non raramente in China, quando qualche dinastia era nel periodo della decadenza.

[425] Ricordiamo il detto di Luigi XI di Francia: qui nescit dissimulare nescit regnare. Però un maligno potrebbe pensare che quel sovrano avrebbe meglio operato se avesse messo in pratica, come fece, il precetto senza enunciarlo e farlo passare alla storia. N'ayez jamais d'attachement pour personne, scriveva di proprio pugno Luigi XIV nelle istruzioni che dava a suo nipote Filippo, che andava a regnare in Spagna (Vedi MichelsLa sociologia del partito politico, pag. 365).

[426] Vedi De la MazelièreLe Japon, volume VI, libro VI. Paris, Plon editore, 1907.

[427] Vedi De la Mazelière, opera citata, specialmente il volume II, cap. II. Fra le grandi famiglie accennate le più celebri furono quelle dei Taira, dei Minamoto, degli Hojo e degli Ashikaga.

[428] Basilio il Macedone, morto nell'ottocento ottantasei, era figlio di un contadino. Assunto prima, per la sua abilità a governare i cavalli, come scudiero di uno dei grandi della Corte, egli, in grazia della sua intelligenza ed energia, riuscì a diventare prima il favorito e poi il collega dell'imperatore Michele III, e, quando questi si volle sbarazzare di lui, egli si sbarazzò dell'imperatore assassinandolo e riuscendo a sostituirlo. Non tenendo conto delle arti e dei delitti coi quali era arrivato al trono, si può giudicarlo come uno dei migliori imperatori che abbia avuto Bisanzio. — Nadir Scià, figlio di un capo tribù turcomanno, esordì come capo brigante; dopo varie vicende entrò al servizio di Tamasp 2° Scià di Persia della dinastia dei Sofi, in seguito lo depose e fece prima proclamare Scià un figlio bambino di Tamasp, di cui Nadir diventò il tutore; poco dopo fece uccidere il padre ed il figlio e si fece proclamare Scià nel 1736. Energico ma crudelissimo, rialzò all'estero il prestigio della Persia e riuscì a prendere Delhi, capitale dell'impero del Gran Mogol, facendovi, dicesi, un bottino del valore di due miliardi. Morì alla sua volta assassinato nel 1747. Tanto Basilio che Scià Nadir avrebbero potuto fornire due magnifici esempi degni di essere citati da Machiavelli nel Principe accanto a quelli di Agatocle e di Cesare Borgia.

[429] Porteremo in proposito un paragone che la recente guerra mondiale ha reso facilmente comprensibile. Si sa ora da molti che la saldezza di un esercito dipende principalmente dal valore intellettuale e sopratutto morale degli ufficiali che hanno contatto diretto colle truppe, a cominciare dal colonnello e terminando col sottotenente. Sicchè se, per un caso impossibile, scomparissero di un tratto tutti i generali e gli ufficiali di stato maggiore un esercito subirebbe una scossa gravissima, ma esso potrebbe restare in piedi e gli scomparsi potrebbero essere, più o meno bene, in pochi mesi sostituiti, promovendo i migliori comandanti di reggimento e facendo entrare nello stato maggiore altri ufficiali fra i più colti. Ma, se scomparisse di un tratto tutta l'ufficialità che inquadra i soldati, l'esercito si dissolverebbe prima che fosse possibile di sostituirla. Ora il primo strato della classe politica corrisponde ai generali ed allo stato maggiore, il secondo agli ufficiali che conducono personalmente la truppa di qualunque arma al fuoco.

[430] Vedi De la Mazelière, opera citata, volume III, libro VI. Si sa che dopo che Jeyasu, il quale regnò dal 1598 al 1616, ebbe fondato lo Shogunato dei Tokugava, il potere dei daimios, o grandi feudatari, fu molto limitato.

[431] Vedi Guglielmo FerreroMemorie e Confessioni di un sovrano deposto. Milano. Treves, 1920, pag. 29.

[432] Si potrebbe citare in proposito l'esempio della China, dove, nella seconda metà del secolo decimonono l'alto mandarinato, composto di persone colte, ma la cui cultura era quella antica e tradizionale nel paese, si oppose tenacemente ad un nuovo reclutamento dei funzionari basato sulla conoscenza delle lingue e delle scienze europee. Viceversa nel Giappone gli uomini che diressero la grande riforma del 1868 compresero subito la necessità di apprendere la cultura europea, ma quegli uomini, benchè quasi tutti provenissero dalla classe dei samurai e fossero persone colte, non erano letterati e scienziati di professione.

[433] Qualche cosa di simile avviene in certe Camere elettive nei paesi retti a governo parlamentare, nei quali la frequenza delle crisi di gabinetto e la difficoltà di comporre i nuovi Ministeri dipendono, almeno in parte, dal fatto che molto numerosi sono i deputati che aspirano a diventare ministri o sottosegretari di Stato. Cosicchè, essendo troppi i candidati, vengono a scarseggiare i giudici, i quali dovrebbero essere costituiti da coloro che non hanno alcuna delle aspirazioni accennate.

[434] Il Michels nel suo interessantissimo lavoro sulla Sociologia del partito politico, e specialmente nella parte quarta del lavoro accennato, studia con molto acume il contributo apportato alla direzione ed alla organizzazione dei partiti socialisti delle varie nazioni dagli elementi provenienti dalla borghesia e da quelli usciti dalla classe operaia e le rivalità e le gare che spesso avvengono fra queste due frazioni degli stati maggiori socialisti.

[435] Il più antico saggio di eloquenza tribunizia è quello che Omero, nel canto secondo dell'Iliade, mette in bocca a Tersite il quale, uso a denigrare tutti i capi, accusa Agamennone di arricchirsi mercè le fatiche e i pericoli sopportati dai semplici soldati e di passare il tempo a godersi le belle schiave, ed incita quindi i Greci ad un vero sciopero militare, cioè a lasciare solo il loro duce, affinchè riconosca che tutto deve alle fatiche dei soldati. Come insuperati modelli di eloquenza tribunizia, nei quali vengono magistralmente esposti, in modo da suscitare un'eco profonda nel cuore dei diseredati, tutti gli argomenti che si possono addurre contro coloro che le ricchezze e le cariche elevate devono alla nascita, si possono citare il discorso che Sallustio nel capo LXXXV della guerra giugurtina mette in bocca a Cajo Mario e quello che Machiavelli nel libro III delle Storie fiorentine fa recitare ad un ignoto popolano in occasione del tumulto dei Ciompi. I moderni demagoghi restano quasi sempre assai inferiori a questi classici modelli.

[436] Nella Teorica dei governi e nella prima parte di questo lavoro abbiamo cercato di spiegare come in un sistema rappresentativo, nel quale gli elettori sono molto più numerosi dei candidati, gli eletti non possono essere mai il risultato di una scelta spontanea della grande maggioranza del corpo elettorale, il quale di fatto non ha che la facoltà di optare fra i diversi candidati, che sono presentati e sostenuti da piccole minoranze organizzate, composte dai comitati che dirigono i partiti politici o da gruppi di grandi elettori. Manteniamo perfettamente questo punto di vista, aggiungendo che, quando il corpo elettorale è relativamente colto ed intelligente, può fare la sua opzione con discernimento, mentre quando è inesperto ed ignorante diventa necessario di impressionarlo ed attirarlo a sè con i più grossolani ripieghi. Avviene allora il fenomeno, al quale abbiamo teste accennato, dell'adattamento delle classi più colte alla mentalità ed ai pregiudizi di quelle più incolte.

[437] Ormai è notorio che in Russia il regime dei Soviet ha potuto durare perchè ad esso ha in generale aderito la piccola borghesia ebraica, certo più attiva ed astuta e forse anche più intelligente di quella di origine russa; ed è noto che, durante il passato regime, gli Israeliti erano, con mille piccole e grandi vessazioni, ostacolati nelle loro aspirazioni di conseguire i posti elevati. Di fatti il popolino russo, che vede il lato più appariscente della terribile crisi che travaglia l'antico impero degli Czar, spesso l'attribuisce senz'altro alla vendetta degli Ebrei.

[438] È notorio che le rivoluzioni e le lunghe guerre danno a molti uomini nuovi la possibilità di farsi valere. È stato da molto tempo osservato che, se non vi fosse stata la rivoluzione francese, Napoleone Bonaparte sarebbe probabilmente diventato nella sua età matura un buon colonnello d'artiglieria ed è pure sicuro che, senza le guerre della rivoluzione e dell'impero, parecchi dei suoi marescialli sarebbero rimasti semplici sottoufficiali.

[439] Il concetto che in uno Stato idealmente organizzato debba esservi una corrispondenza assoluta fra il servizio reso da un individuo alla società ed il grado che questi in essa viene ad occupare, fu per la prima volta nettamente formulato da Saint-Simon, il quale sotto varia forma vi insiste in molte delle sue opere. Lo stesso concetto diventò poi uno dei capisaldi della scuola saint-simonista, che in altri campi molto si allontanò dalle dottrine del suo Maestro. Vedi in proposito la raccolta già citata delle opere di Saint-Simon ed Enfantin e Bernardo MoscaIl pensiero di Saint-Simon considerato dopo un secolo, pubblicato nella "Riforma sociale" del 1° gennaio 1922.

[440] Wat Tyrel era il capo di una nota ribellione dei contadini inglesi contro i signori scoppiata nel 1381. Qualche anno prima, mentre l'insurrezione si preparava, il prete John Ball aveva scritto i famosi versi tante volte citati:

When Adam delved and Eve span
Who was then the gentleman?

Non occorre ricordare chi fossero i Ciompi e gli Anabattisti.

[441] Vedi in proposito Gaetano MoscaIl principio aristocratico ed il democratico nel passato e nell'avvenire, pubblicato nell'"Annuario dell'Università di Torino" del 1902.

[442] Forse è opportuno ricordare che Platone, nella sua Repubblica, propugnava appunto l'abolizione della famiglia quasi come una conseguenza necessaria di quella della proprietà privata. Sembra però che egli volesse limitare queste abolizioni alla classe dirigente composta dai saggi e dai guerrieri ed inoltre che non avrebbe voluto quello che oggi si chiamerebbe il libero amore, ma piuttosto unioni temporanee nelle quali la scelta dei due coniugi momentanei era determinata dai saggi, ed egli inoltre stabiliva che i figli nati da queste unioni non dovessero conoscere i loro genitori nè essere da questi conosciuti, perchè secondo lui lo Stato doveva formare una sola famiglia. Un sistema analogo è esposto e propugnato nella Città del Sole di Campanella, che voleva pure abolite la proprietà privata e la famiglia.

[443] Vedi in proposito il lavoro citato sul Principio aristocratico e democratico nel passato e nell'avvenire.

[444] È giusto ricordare che spesso anche coloro che da umile condizione hanno potuto arrivare ad una situazione elevata si credono molto superiori al resto dell'umanità.

[445] Vedi Miguel de UnamunoEn defensa de la haraganeria nei "Soliloqui e conversazioni" pag. 153 e seguenti. Ricordiamo di aver letto in una pubblicazione del Bagehot un pensiero molto simile a quello dell'Unamuno testè citato; ciò non significa che lo scrittore spagnuolo, il quale espone e difende la sua tesi con molto spirito e molta coltura, abbia plagiato quello inglese, ma piuttosto che è molto difficile di trovare oggi un'idea che sia completamente nuova.

[446] Sarebbe falso ed ingiusto affermare che la passione disinteressata per il sapere non possa anche trovarsi in individui nati negli strati più umili della società. Senonchè bisogna pure tenere presente che le moderne nazioni civili sono il frutto di una cultura molto antica e che in esse le classi sociali hanno subito tanti rivolgimenti e tante mescolanze che non è da maravigliare se qualche volta gli istinti più aristocratici, ereditati da lontani antenati, si trovano anche in individui di umile condizione. Una delle applicazioni più felici della tendenza democratica consisterebbe nel rendere possibile a questi individui di sviluppare le loro qualità superiori. Però ciò non è facile e sopratutto non crediamo che a ciò possa bastare l'istruzione elementare obbligatoria.

[447] La selezione che avviene nelle classi superiori, per la quale la loro media intellettuale diventa e si mantiene più alta di quella delle classi inferiori, è stata oggetto di studi accurati dell'Ammon; il quale, nell'Ordre social (Paris, Thorin, 1900) e specialmente nei capitoli XX e XXI, giustamente dà molta importanza al fatto che i matrimoni avvengono quasi sempre fra individui della stessa classe, sopra tutto per la ripugnanza che hanno le donne delle classi superiori a sposare individui di classe e quindi di educazione inferiore alla propria.

A questo proposito è opportuno mettere in evidenza un apprezzamento inesatto nel quale spesso si incorre a causa dell'uso europeo della trasmissione del cognome da padre in figlio. Quest'uso fa sì che il solo antenato in vista sia quello di cui si porta il cognome, mentre ve ne sono tanti altri che non hanno fisiologicamente minor diritto ad essere presi in considerazione. Difatti ogni individuo ha sempre due genitori, l'uno maschio e l'altro femina, sicchè alla prima generazione si hanno due antenati, alla seconda quattro, alla terza otto e, rimontando alla decima generazione, mille e ventiquattro. Perciò il tipo intellettuale e morale di una famiglia antica è piuttosto da attribuire alla continuazione degli incrociamenti eugenici, anzichè al lontano antenato, che ha dato alla generazione presente la mille e ventiquattresima parte del suo sangue.

[448] Raccontano gli storici greci che una volta Dionigi il vecchio, tiranno di Siracusa, rimproverò aspramente un suo figliuolo perchè questi aveva rapito la moglie assai bella di un cittadino e gli fece osservare che egli, quando era giovine, non aveva mai fatto una cosa simile. — Ma tu non sei nato figliuolo di un re, obiettò il figlio al padre, e questi di rimando rispose: — Ed i tuoi figli non saranno re se tu non cambierai i tuoi diportamenti.

[449] Parrebbe a prima vista contrario l'esempio dell'aristocrazia veneziana, che seppe restare al potere per tanti secoli ed era un'aristocrazia di commercianti e banchieri. Ma i nobil'uomini veneziani comandavano anche le navi e le flotte e qualche volta anche gli eserciti della Serenissima fino alla seconda metà del secolo decimosettimo. Si divezzarono quasi completamente dalle armi nel secolo decimottavo, quando la Repubblica era in piena decadenza.

[450] Va da sè che le classi dirigenti, sia democratiche che aristocratiche, le quali per mantenersi al potere favoriscono sistematicamente gli interessi dei privati di piccole minoranze organizzate a spese della collettività, sono sempre le più costose.

[451] Vedi la fine del dialogo citato in principio del capitolo.

[452] Vedi la Politica e specialmente il libro III, capitolo III ed i libri VI e VII.

[453] Vedi PolybiiHistoriarum reliquiae, libro VI, Parigi, Firmin Didot, 1859.

[454] Afferma infatti nella Summa dopo avere descritto i vari regimi politici: "Est etiam aliquod regimen ex istis commixtum quod est optimum: et secundum hoc sumitur lex quam majores natu simul cum plebe sanxerunt". — Vedi Divi Thomae AquinatisSumma theologica, vol. secundum, quaestio XCV, articulus IV, pag. 681, Tipografia del Senato, Romae, 1896.

[455] Vedi le ultime parti dell'Esprit des Lois.

[456] Vedi Fr. RuffiniLa giovinezza del Conte di Cavour, Torino, Bocca, 1912.

[457] Giorgio III regnò dal 1760 al 1820 e si sa che in questo lungo periodo ebbe parecchi accessi di follia, durante i quali assunse la reggenza il principe di Galles. La conquista del Canada, e conseguentemente di tutti i vastissimi territori al nord degli Stati Uniti d'America e che si estendono dall'Atlantico al Pacifico, ebbe luogo durante la guerra dei sette anni, cioè dal 1756 al 1763. La conquista inglese dell'India si può considerare come seriamente iniziata colla battaglia di Plassey vinta da Clive nel 1757, ma fu continuata e portata a buon punto durante tutto lo scorcio del secolo decimottavo ed i primi decenni del decimonono. Si potrebbe in proposito ricordare che durante il regno di Giorgio III l'Inghilterra subì la ribellione ed il distacco dei moderni Stati Uniti d'America, ma è assai dubbio se li avrebbe potuto lungamente mantenere sotto la sua sovranità.

[458] Per quel che riguarda le riforme compiute da Ivano IV vedi WaliszewskiIvan le terrible, e specialmente la parte 3a al capitolo II. Più note sono le trasformazioni compiute nello Stato e nella società russa da Pietro il Grande e Caterina II, le quali sono pure descritte dallo stesso autore nei volumi che trattano di questi sovrani.

[459] L'opera di Filippo re di Macedonia è minutamente descritta sopratutto dal Grote; vedi Histoire de la Grèce, traduction de Sadous, volume XVIII, capitolo II.

[460] Sopra l'imperatore Magiorano, che resse il cadente impero romano d'Occidente dal 457 al 461, si può consultare la interessantissima monografia di Luigi Cantarelli, pubblicata a Roma a cura della Società romana di storia patria nel 1883. Nella cennata monografia sono raccolti i brani di tutti gli scrittori antichi e moderni che trattano di questo valoroso e sfortunato imperatore.

[461] Fra i tanti lavori recentemente pubblicati sull'impero bizantino, e che l'hanno in gran parte riabilitato, si possono consultare quelli di Charles Diehl e specialmente l'Histoire de l'empire Byzantin (Paris, Picard 1919) e Byzance, Grandeur et décadence (Paris, Flammarion, 1919); come anche il dettagliatissimo lavoro dello SchlumbergerL'épopée byzantine à la fin du dixième siècle, Paris, Hachette, 1896.

[462] Oggi l'avere quest'attitudine è diventato un mezzo di successo assai più efficace di quello che era fino a qualche secolo fa, purchè si abbia l'amicizia e la protezione dei quotidiani più diffusi. A dir vero sono più di quattro secoli che Machiavelli scriveva nel Principe: "ognuno vede quello che tu pari pochi sentono quel che tu sei",ma oggi parere è diventato infinitamente più facile, dato che la grande maggioranza forma il suo giudizio intorno agli uomini politici, ai letterati ed agli scienziati su quanto ne dicono i giornali.

[463] Si sa che l'Egitto, dopo che Alessandro Magno vi ebbe distrutto il dominio persiano, formò un regno indipendente sotto i Tolomei, i quali vi introdussero la cultura ellenica, ed allora la sua classe dirigente era di origine ellenica od ellenizzata. Conquistato poi dai Romani ed alla caduta dell'impero d'occidente governato dai Bizantini, fu durante il quinto e sesto secolo una delle provincie più turbolente, finchè fu nel settimo secolo conquistato dagli Arabi ed obbedì prima ai califfi ommeyadi di Damasco e poi a quelli abassidi di Bagdad. Verso la metà del decimo secolo ricuperò la sua autonomia perchè fu conquistato da una dinastia e da un esercito berbero, provenienti dalla Tunisia, che vi istituirono un califfato fatimita, il quale ebbe sede al Cairo. Indebolitasi mano a mano la dinastia berbera e mescolatasi cogli indigeni la popolazione di origine berbera, fu aggregato verso la fine del dodicesimo secolo all'impero di Saladino e, dopo la morte di questo sultano, fu quasi sempre governato da capi di milizie mercenarie di origine straniera, per lo più circassa, finchè nel secolo decimosesto fu conquistato dai Turchi. I quali del resto presto tornarono ad affidarne il governo ai bey dei Mammelucchi, milizia pure di origine circassa, finchè questi furono prima vinti da Bonaparte e poi sterminati da Mehemet Alì, il primo Kedivè che era di origine albanese. Anche oggi in Egitto le famiglie della classe elevata sono in maggioranza di origine turca, circassa ed albanese.

Quanto all'India sembra accertato che, assai prima delle invasioni maomettane, abbia subito delle invasioni di barbari del settentrione, dai quali discenderebbero alcune delle popolazioni più guerriere, che hanno evitato studiosamente ogni mescolanza con gli indigeni. Così hanno fatto, ad esempio, i Radjaputi, che però abbracciarono la religione e la coltura braminica. Viceversa ciò non potè accadere quando vennero nel paese i più recenti conquistatori di origine turca od afgana, che avevano già abbracciato l'Islamismo. L'ultima conquista turca fu quella capitanata da Baber, che al principio del secolo decimosesto gettò le fondamenta dell'impero del Gran Mogol. A dir vero, trattandosi di paese vastissimo ed in condizioni molto diverse da una contrada all'altra, è accaduto che anche popolazioni di antica origine indiana e di cultura braminica, come ad esempio la grande confederazione dei Mahratti, vi abbiano, in tempi relativamente recenti, fondato Stati abbastanza vasti e militarmente bene organizzati, ma in sostanza quasi tutta la grande vallata del Gange e buona parte dell'India centrale e meridionale erano, quando furono conquistate dagli Inglesi, governate da sovrani maomettani vi era la classe dominante in prevalenza di origine straniera.

[464] Queste dottrine si trovano, come è noto, già accennate nel Manifesto dei Comunisti, pubblicato dal marx e dall'Engels nel 1848; ebbero poi uno sviluppo maggiore nella Prefazione alla "Critica, dell'Economia politica", pubblicata dal Marx nel 1859 e finalmente formano in certo modo l'ossatura del primo volume del Capitale, pubblicato, come si sa, nel 1867, poichè esse sono saltuariamente enunciate o sottintese durante tutto lo svolgimento del lavoro. Chi non avesse la pazienza di leggere o di rileggere le opere del Marx potrebbe consultare in proposito l'ottimo lavoro di Achille Loria, intitolato Carlo Marx (Genova, Formigini editore, 1916). Ricorderemo incidentalmente che parecchie delle idee fondamentali del Marx non sono del tutto originali, ma si trovano già esposte, certamente con minor metodo e precisione, nelle pubblicazioni di altri precedenti scrittori più o meno socialisti, e specialmente, insieme a molte concezioni mistiche e trascendentali, in quelle di Pietro Léroux (Vedi in proposito le pubblicazioni di questo scrittore e specialmente l'Égalité pubblicata nel 1838 e l'Humanité pubblicata nel 1840). Anche per il Léroux il Comunismo e l'uguaglianza assoluta doveano essere la conchiusione fatale di tutta l'evoluzione storica dell'umanità; anzi, secondo lui, il secolo decimonono rappresentava un periodo di transizione fra un mondo di disuguaglianza, che stava per finire, ed un mondo di uguaglianza che stava per cominciare.

[465] Questa spogliazione e le due disastrose conseguenze morali ed economiche sono assai bene descritte da Guglielmo Ferrero nel volume III di Grandezza e decadenza di Roma, intitolato "da Cesare ad Augusto".

[466] Forse il paragone si potrebbe fare con la catastrofe che ora ha colpito la Russia, che quasi sicuramente avrà durata ed effetti minori, ma che è stata più intensa, perchè si è svolta in pochissimi anni. In questo senso si può considerare come abbastanza esatta un'affermazione di Guglielmo Ferrero, il quale ha scritto in uno dei suoi articoli pubblicati nell'Illustration française che la Russia ha in quattro anni compiuto quel lavorìo di disgregazione sociale per il quale occorsero alla civiltà antica nell'Occidente d'Europa quattro secoli.

[467] Basta ricordare il gravissimo danno che subì la media proprietà, dovuto non solo all'inasprimento delle imposte, ma anche al fatto che i decurioni, i quali nelle città di provincia costituivano la media borghesia, rispondevano coi loro beni del recupero integrale dell'imposta che gravava sull'intiera città.

[468] Vedi in proposito la prima parte di questo lavoro al Capitolo X, paragrafo IX, nel quale abbiamo fatto menzione degli scrittori comunisti che pubblicarono i loro lavori negli ultimi decenni del secolo decimottavo e nei primi decenni del decimonono.

[469] Ci sia concesso anche qui di ricorrere ad un paragone materiale, che crediamo calzante, per spiegare meglio il nostro concetto. Direbbe senza dubbio la verità colui che affermasse che, se è malato il cervello, l'intiero organismo umano non si trova più nello stato normale; ma lo stesso si potrebbe dire dell'apparato digerente, di quello respiratorio e di qualunque organo essenziale del nostro corpo. Sarebbe perciò un sofisma concludere che tutte le malattie dipendono dal cervello, o da uno qualsiasi dei nostri organi principali, mentre è evidente che il benessere di ogni individuo dipende dal retto funzionamento di tutti i suoi organi.

[470] Vedi in proposito i capitoli II e III della seconda parte di questo lavoro a pagine 357 e 382.

[471] La cennata riforma di Caio Mario fu attuata precisamente nel 107 avanti Cristo ed aggiungeremo che, pochi anni prima, nel 123 avanti Cristo, Caio Gracco avea fatto approvare una lex militaris, che metteva a carico dello Stato la spesa per l'equipaggiamento e l'armamento del soldato, alla quale fino allora questi dovea provvedere con i propri mezzi; ciò che rese possibile che nell'esercito entrassero anche i più poveri. Le due riforme accennate contribuiscono molto a spiegare perchè negli ultimi sessanta anni della Repubblica i soldati diventarono strumento cieco in mano dei loro duci, che promettevano e concedevano largizioni e distribuzioni di terre, spesso confiscate agli avversari politici. Aggiungeremo che, durante il secondo triumvirato, furono anche arruolati liberti e schiavi; or lo Stato repubblicano antico non poteva reggersi se le armi venivano concesse agli infimi strati della popolazione. Vedi in proposito Ferrero e BarbagalloRoma antica. Volume I, a pagine 251 e 272.

[472] La storia delle dottrine politiche, abbastanza studiata in Francia ed in Inghilterra ed anche in Germania e negli Stati Uniti d'America, è stata quasi del tutto trascurata in Italia, dopo la pubblicazione fatta, più di mezzo secolo fa, della storia degli scrittori politici italiani di Giuseppe Ferrari; e ciò è oltremodo deplorevole, perchè si tratta di un ordine di studi destinato ad acquistare grande importanza se la scienza politica, o, come altri l'appellano, la sociologia, deve veramente diventare una scienza. Difatti, se si segue lo svolgimento del pensiero politico attraverso le varie epoche storiche, facilmente si constata che, se i fatti politici contemporanei allo scrittore hanno grandemente influito nella formazione della sua mentalità e quindi delle sue teorie, alla loro volta queste teorie, una volta formulate, hanno potentemente contribuito a formare la mentalità politica delle generazioni successive e quindi hanno contribuito a determinare nuovi fatti. Di ciò si potrebbero facilmente addurre moltissimi esempi ed in fondo è questo uno dei tanti casi, così frequenti nelle scienze sociali, nei quali ciò che in origine era un effetto si tramuta in causa determinante. Su questo argomento si può anche consultare il lavoro citato sul Principio aristocratico, a pagina 4.

[473] Vedi la parte prima del lavoro e specialmente il Capitolo VI intitolato: Chiese, partiti e sétte.

[474] Anche il Loria ammette che "la tesi dell'accentramento progressivo della ricchezza presso un numero decrescente di possessori e del correlativo progressivo immiserimento delle plebi non è confermata, ma all'opposto è smentita dalle statistiche più autorevoli del periodo successivo al Marx; sebbene più avanti faccia rilevare che "la divergenza dei redditi sia negli ultimi anni enormemente cresciuta e che l'accentramento bancario e l'impero delle banche sull'industria (fonte di sperequazioni crescenti nei patrimoni) abbia raggiunto negli ultimi anni intensità imprevedibili dallo stesso Marx". Vedi Loria, opera citata a pag. 41 e 42. Aggiungeremo infine che in questo lavoro non ci è sembrato opportuno di ripetere la confutazione, già tante volte fatta dagli economisti, degli errori d'indole puramente economica del Marxismo, dei quali parla anche nel lavoro citato lo stesso Loria.

[475] Aristotele nella Politica, combattendo le teorie comuniste di Platone, afferma che la proprietà privata è indispensabile se si vuole che l'individuo produca e provveda quindi ai bisogni suoi, della famiglia e della città (Vedi Politica, libro II, specialmente nei capitoli I e II). Identica presso a poco è la giustificazione che della proprietà privata dà San Tommaso nella Summa; nè crediamo che ce ne sia una migliore, perchè essa ci sembra inconfutabile finchè l'uomo amerà se stesso e la propria famiglia più di quanto ama gli estranei.

[476] Si allude al titolo di un libro molto interessante di questa egregia scrittrice.

[477] È per questa ragione che ci sembra inesatta l'espressione di èlite adoperata dal Pareto per indicare quella che noi molti anni prima avevamo denominato classe politica.

[478] Non fu colpa di Stolypine se egli prematuramente moriva, ucciso nel 1911 dalle bombe di fanatici idioti, e se i provvedimenti da lui presi non ebbero il tempo di produrre i loro effetti.

[479] L'accoppiamento che fa Platone fra le qualità più elevate del carattere e quelle della mente non crediamo che sia destituito di fondamento. Abbiamo appreso da amici personali del grande fisico Galileo Ferraris che questi opinava che nessuna grande scoperta scientifica era possibile quando lo sperimentatore, anzichè al progresso della scienza pura, mirava ad ottenere risultati pratici, a strappare cioè alla natura qualche segreto che rendesse possibile a qualche grande industria di adottare procedimenti più remunerativi. Ora la massima che Galileo Ferraris riputava applicabile alle scienze naturali crediamo che abbia la sua conferma sopratutto in quelle sociali; nelle quali riesce impossibile di trovare la verità se le qualità dell'intelligenza non sono integrate da quelle del carattere; se il pensatore non sa spogliarsi da ogni passione, da ogni interesse, da ogni timore.

[480] Marco Aurelio fu, come è noto, il vero tipo dell'imperatore filosofo. Egli nacque intanto sui gradini del trono, era buono ma non era sciocco, e quindi, come rilevasi dai suoi Pensieri, l'esercizio del potere gli diede in generale un'idea poco lusinghiera del carattere umano, ed era anche un discreto uomo d'azione, sicchè guidò personalmente gli eserciti in parecchie guerre e morì mentre conduceva una campagna sul Danubio. Ciò malgrado è assai dubbio se la sua bontà abbia sempre giovato alla cosa pubblica; gli stessi storici a lui favorevoli gli addebitano a colpa di avere mantenuto talvolta al governo delle provincie persone indegne, e sotto di lui la disciplina militare, già egregiamente restaurata da Trajano, cominciò di nuovo a rallentarsi e si ebbe nell'Asia una grave insurrezione delle legioni, che proclamarono imperatore Avidio Cassio; ed il competitore sarebbe stato molto pericoloso se uno dei suoi centurioni non l'avesse ucciso.

[481] Secondo Manzoni, don Ferrante, che era "uomo di studio non amava nè di comandare nè di obbedire". A dire il vero il don Ferrante manzoniano non era precisamente un filosofo, un sapiente, come l'immaginava Platone; ma apparteneva un po' alla famiglia, perchè "passava di grandi ore nel suo studio", aveva una biblioteca piena di libri ed impiegava il suo tempo a leggerli; egli era quindi ciò che ora si direbbe un intellettuale. Ora le persone che realmente amano molto di meditare si sanno alle volte assai bene adattare a comandare e ad obbedire, quando ciò è necessario, ma generalmente non amano molto nè l'una nè l'altra cosa.

[482] Per chi non la ricordasse la formula era: a ciascuno secondo la sua capacità, ad ogni capacità secondo le sue opere.

[483] Vedi sopratutto in proposito il capitolo I della seconda parte del presente lavoro.

[484] La coesistenza di una giustizia assoluta e di una giustizia relativa è stata rilevata fin dall'antichità classica, la quale sapeva distinguere il jus civile, fondato sulla legge, dal jus naturale, basato sulla ragione e sull'equità naturale dell'uomo. Si sa, per esempio, che per Seneca la schiavitù era un istituto conforme al diritto civile, ma contrario a quello naturale. Che la giustizia relativa varia poi da luogo a luogo e da un'epoca all'altra è stato pure replicatamente rilevato e basta il ricordare in proposito i Pensieri di Pascal.

[485] Molti che negano, o vorrebbero molto ridurre, la parte che ha ciò che comunemente chiamasi la fortuna nei successi degli individui, ed aggiungiamo ora anche delle collettività, dovrebbero leggere o rileggere i Pensieri del Guicciardini e specialmente il 30° ed il 31° (Vedi Guicciardini, Ricordi politici e civili, edizione completa a cura di Giovanni Papini, edit. Carrabba, a pagina 19). In quest'ultimo è scritto: “Coloro ancora che attribuendo il tutto alla prudenza ed alla virtù, escludono quanto possono la potestà della fortuna, bisogna almeno confessino che importa assai abbattersi o nascere in tempi che le virtù o qualità per le quali tu ti stimi siano in pregio”. La verità è che gli uomini, i quali nella vita non hanno avuto tutto il successo che speravano, volentieri ne addossano la responsabilità alla fortuna, e che invece quelli, a riguardo dei quali il successo ha perfino oltrepassato le loro aspettative, amano attribuirne tutto il merito a loro stessi.

[486] Sulla impossibilità di attuare nel mondo una giustizia assoluta e sulla necessità che sia osservata una giustizia relativa ha scritto recentemente pagine molto interessanti e piene di acute osservazioni Gina Lombroso-Ferrero (Vedi L'Anima della donna, Bologna, 1920, volume I, libro V). L'egregia scrittrice sostiene che si raggiungerebbe già un grado elevato di perfezione sociale se la lotta per arrivare ai posti elevati si facesse lealmente, secondo quello che Essa chiama “un criterio conclamato” invece che “secondo criteri inconfessabili”.

[487Renè Worms nella sua Philosophie des sciences sociales (Paris, Giard et Brière, ed, 1903) tratta magistralmente la questione relativa alla vecchiaia ed alla morte dei popoli e conchiude che un'organizzazione politica può essere immortale. Egli così scrive nel volume III, pag. 305 dell'opera citata: “Sans doute des théoriciens affirment que les États sont, comme les individus, condamnè fatalement à disparaìtre un jour ou l'autre. Mais jusqu'à présent on n'a apporté aucune épreuve valable de cette prétendue nécessité et pour notre part nous n'y croyons pas. Nous estimons au contraire que les peuples ayant la possibilité de renouveler par la generation leurs éléments, faculté qui n'ont pas les individus, peuvent attendre à une véritable immortalité”.

[488] Difatti nel Messico e nel Perù, dove le popolazioni indigene all'arrivo degli Europei praticavano già l'agricoltura, ed erano perciò molto più numerose, esse non si sono spente e pare che anche negli Stati Uniti qualche tribù di Pelli Rosse, che ha saputo adattarsi all'agricoltura, non accenni a spegnersi.

[489] Contro la tesi sostenuta si potrebbe citare l'esempio dei Bretoni, i quali senza dubbio praticavano già l'agricoltura quando il loro paese fu invaso dagli Anglo-Sassoni, che in gran parte lo occuparono. Ma anzitutto la discendenza della popolazione celtica primitiva sopravvive ancora nel nord della Scozia e nel Galles, come anche nella Bretagna francese, dove emigrò sotto la spinta dei Sassoni; ed in secondo luogo se nella più grande parte della Gran Brettagna i Celti perdettero la loro lingua, ciò non vuol dire che essi furono sterminati, ma che vennero piuttosto assorbiti dagli invasori di razza germanica. Infatti, benchè gli studi di questo genere diano spesso risultati ambigui ed incerti, sembra che il fondo della popolazione nelle contee occidentali dell'Inghilterra ed in gran parte della Scozia sia rimasto celtico.

[490] Vedi in proposito quanto è detto nel Capitolo III della seconda parte di questo lavoro a pagine 375 e 376.

[491] Il fatto storico che più ha contribuito a modificare quel complesso di sentimenti e di credenze, che erano speciali ad ogni nazione, è stato il sorgere ed il diffondersi delle religioni mondiali, che mirano ad abbracciare tutta l'umanità ed a fonderla in una universale fratellanza ed imprimono nei loro seguaci uno speciale stampo intellettuale e morale. Difatti ad ognuna delle tre grandi religioni mondiali, cioè al Buddismo, al Cristianesimo ed all'Islamismo corrispondono tre speciali tipi di civiltà; ciò che costituisce un altro argomento contro il materialismo storico.

[492] La China cercò di sottrarsi alle influenze europee e di restare quindi in una immobilità relativa quando l'imperatore Yung-Cheng, che regnò dal 1723 al 1735, cacciò i missionari. Il Giappone l'aveva preceduto su questa via, perchè fin dal 1639 un editto dello Shogun Yemitsu avea, con pochissime eccezioni e con severissime pene, proibito ogni commercio con gli stranieri. La China, come si sa, dovette cominciare ad aprire i suoi porti dopo la guerra detta dell'oppio, che ebbe coll'Inghilterra e che scoppiò nel 1839, ed il Giappone dopo che la squadra del commodoro americano Parry approdò sulle sue coste nel 1853.

[493] Un esempio mirabilissimo di adattamento ai contatti necessari con i popoli stranieri, senza rinunziare a quel complesso di tradizioni e di sentimenti speciali che costituiscono il nocciolo dell'anima nazionale, ci è stato dato negli ultimi cinquanta o sessanta anni dal Giappone, che ha saputo trasformarsi radicalmente senza dissolversi. Non sarà superfluo ricordare che esso è stato, durante il periodo accennato, sempre di fatto governato da una ristretta aristocrazia, che comprendeva gli uomini più intelligenti del paese, e che non è escluso il pericolo che, mano mano che certi altri concetti europei penetreranno negli strati inferiori della popolazione, potrà anche colà sorgere uno di quei contrasti insanabili fra la mentalità vecchia e la nuova, che preparano le crisi alle quali abbiamo accennato.

[494] Noi crediamo, ad esempio, che Augusto, Traiano e forse anche Diocleziano abbiano notevolmente ritardata la dissoluzione dell'impero romano d'Occidente e che la Francia non si sarebbe così bene e così prontamente riorganizzata, dopo la grande rivoluzione, se non avesse avuto alla sua testa Napoleone Buonaparte. Bisogna tener presente che qualche volta il ritardare una grande crisi può equivalere ad evitarla per un tempo molto lungo. La civiltà bizantina, ad esempio, dopo che ebbe superato la crisi del quinto secolo, che trascinò con sè l'impero romano d'Occidente, potè vivere ancora per quasi altri dieci secoli.

[495] Sarebbe un violentare le leggi naturali il seminare, ad esempio, nell'emisfero boreale, il grano in luglio per mieterlo in gennaio. Basta un po' di riflessione per comprendere che l'uomo, in qualunque ramo della sua attività, ha potuto domare la natura solo usando il metodo che abbiamo accennato, e che lo stesso metodo deve usare se vuole correggere gli effetti della propria natura politica.

[496] Degli altri fattori abbiamo fatto cenno nella prima parte di questo lavoro dove è detto che “un osservatore calmo e spassionato, studiando la storia, vede subito che i fatti che hanno importanza sociale sono determinati in parte da passioni, istinti e pregiudizi, quasi sempre incoscienti e che quasi mai si rendono conto dei risultati pratici che avrà la loro azione, in parte da interessi, che hanno ordinariamente un obbiettivo immediato, ed in parte finalmente da ciò che gli uomini chiamano il caso fortuito” (Vedi Parte prima, Capitolo X, paragrafo XIV, nella nota in fine del paragrafo).

[497] Il concetto che fra il secolo decimottavo ed il decimonono ci sia stata quasi una parentesi, ossia un periodo intermedio di crisi, si trova già espresso nei famosi versi manzoniani del Cinque maggio, nei quali, come è noto, il poeta, accennando all'opera di Napoleone, canta:

Ei si nomò: due secoli
L'un contro l'altro armato
Sommessi a lui si volsero
Come aspettando il Fato.
Ei fè' silenzio: ed arbitro
S'assise in mezzo a lor.

[498] Le diverse fasi storiche del concetto di sovranità popolare, che spesso si identifica con quello di libertà politica, durante il Medio Evo e l'età moderna fino alla Rivoluzione francese, sono state assai bene esposte nell'opera di Emilio CrosaSulla sovranità popolare. Bocca, editore, Torino, 1915.

[499] Quest'ultimo sistema prevale in America, dove è noto che la burocrazia non gode di quelle guarentigie di stabilità che ha conseguito in quasi tutti gli Stati d'Europa, ma essa viene in generale licenziata e sostituita da elementi nuovi quando cambia il partito che è al potere. Il sistema americano anche nel nuovo mondo, insieme a qualche vantaggio, presenta molti inconvenienti e non si potrebbe adottare in Europa, perchè da noi si richiede dal pubblico impiegato una preparazione maggiore e non è relativamente facile, come in America, di procacciarsi una nuova occupazione quando si è perduta quella che già si aveva.

[500] Ricordiamo in proposito che nell'esercito inglese la compera dei gradi, grazie alla quale l'ufficialità era quasi tutta reclutata fra le classi più ricche, fu abolita soltanto nel 1871 e che in Germania fino al 1914 alcuni reggimenti non ammettevano nelle loro file ufficiali che non fossero nobili e che colà fino allo scoppiare della grande guerra gli Israeliti non potevano di fatto diventare ufficiali.

[501] La borghesia europea non ha in generale piena coscienza della importanza politica dei moderni ordinamenti militari e perciò in qualche paese europeo non vedrebbe con soverchio allarme che essi fossero radicalmente modificati, abbreviando moltissimo la durata del servizio militare e sostituendolo con la cosidetta educazione premilitare. Durante l'ultima grande guerra alle volte si abusò talmente delle forze fisiche e morali dell'uomo che, in quasi tutti gli eserciti europei, vi furono momenti durante i quali la disciplina s'indebolì e l'organizzazione militare presentò gravi sintomi di dissoluzione. Si sa poi che la stoltissima borghesia russa, appena scoppiata la prima rivoluzione, col famoso prikaz numero uno, mediante il quale si toglieva agli ufficiali ogni autorità sui soldati, si affrettò a distruggere il proprio esercito. In seguito il governo bolscevico ha con molta sapienza creato il suo esercito, organizzandolo con ferrea disciplina, e si sforza ora in tutte le maniere di costituire un corpo di ufficiali che, per educazione ed interessi, sia legato agli attuali dominatori della Russia.

[502] Vedi in proposito MoscaAppunti di diritto costituzionale, Terza edizione. Milano, Società editrice libraria, 1921, al § 17, pagg. 152 e segg.

[503] La migliore e la più gradita delle concessioni accennate fu il grande miglioramento dei salari effettivi reso possibile, sopratutto negli ultimi decenni anteriori al 1914, dalla maggiore produttività dell'industria e dell'agricoltura. A dir vero, questo miglioramento ha potuto servire anche agli agitatori, che si sono vantati di averlo strappato alla borghesia, mercè l'organizzazione dei lavoratori manuali e l'azione dei loro rappresentanti in Parlamento, nella quale affermazione, come sanno tutti gli economisti, vi è un poco di vero e molto di falso; ma certamente le migliorate condizioni economiche hanno reso in complesso le classi lavoratrici meno proclivi alle azioni disperate e violenti. Le altre concessioni alle quali abbiamo accennato concernono la limitazione delle ore di lavoro, specialmente per quel che riguarda il lavoro delle donne e dei fanciulli, e le assicurazioni per la vecchiaia, le malattie, la disoccupazione e gli infortunii sul lavoro. Questi provvedimenti sono tutti accettabili quando non sono troppo esagerati e quando l'industria, l'agricoltura e la finanza pubblica hanno la capacità di sopportarne il carico; benchè quasi sempre servano a giustificare la creazione di una numerosa burocrazia ingombrante e fastidiosa.

[504] Vedi in proposito quanto abbiamo scritto nella prima parte di questo lavoro al Capitolo VII nei paragrafi dal primo al sesto.

[505] Abbiamo già replicatamente accennato che le condizioni sociali necessarie per il retto funzionamento del regime rappresentativo consistono nell'esistenza di una numerosa classe media la quale, restando al di fuori della burocrazia, ha la capacità e l'indipendenza economica indispensabili per realmente partecipare all'esercizio dei pubblici poteri.

[506] Si potrebbe osservare che, se i regimi rappresentativi hanno potuto, durante il secolo decimonono, regolarmente funzionare nella maggioranza dei paesi che hanno abbracciato la civiltà europea, ciò è dovuto al fatto che nei detti paesi le condizioni culturali ed economiche erano tali da permettere che i cennati sistemi bene funzionassero. Sarebbe questo uno dei tanti casi nei quali, come abbiamo già accennato, l'effetto diventa causa e la causa effetto; sicchè, invece di parlare di effetti e di cause, sarebbe più esatto dire che si tratta della collaborazione di vari fattori, nei quali l'azione dell'uno deve essere necessariamente completata da quella dell'altro.

[507] Veramente i lavoratori avrebbero potuto, e forse anche voluto, fornirli anche la China, il Giappone e qualche altro paese asiatico; ma si sa che la emigrazione gialla non si fonde in una o due generazioni con la popolazione americana, come fa quella europea, e che ciò potrebbe nell'avvenire creare un pericolo del quale gli Stati americani giustamente si preoccupano.

[508] Si potrebbe anche a questo proposito ricordare che fino ad oggi la cultura artistica e scientifica di parecchi grandi paesi europei, sopratutto per quel che riguarda le scienze storiche e sociali, è notevolmente superiore a quella dell'America.

[509] L'esempio più tipico di questo genere di concessioni è stata la concessione del massimo di otto ore giornaliere di lavoro; il quale limite, forse sopportabile in un paese molto ricco, riesce esiziale in un paese povero. La stoltezza e la codardia delle classi dirigenti di parecchi paesi europei fece loro accettare questo limite all'indomani della grande guerra europea, quando i popoli, oltremodo impoveriti, aveano bisogno urgentissimo di intensificare il lavoro e la produzione.

[510] Vedi la parte prima di questo lavoro al Capitolo X, § XV. La recente pubblicazione alla quale alludiamo è quella dell'epistolario fra Marx e Lassalle nel quale a pag. 170 è riportata la seguente frase del Marx: "Gift infiltrieren wo immer ist nun ratsam” (È ora consigliabile di infiltrare veleno dovunque si possa). Vedi Der Briefwechsel zwischen Lassalle und Marx, herausgegeben von Gustav Mayer, "Deutsche Verlag's Anstalt”, Stuttgart, 1922. Per maggiori particolari si può consultare utilmente il lavoro d'imminente pubblicazione di Alessandro Luzio intitolato Carlo Alberto e Mazzini, Torino, Bocca, 1923.

A questo proposito ricorderemo che uno dei sofismi più comuni di coloro che fanno propaganda di socialismo consiste nell'affermare che non sono le dottrine socialiste che producono l'odio di classe, ma che questo è un naturale effetto delle disuguaglianze e delle ingiustizie sociali.

Si potrebbe facilmente rispondere che le disuguaglianze e le ingiustizie sociali ci sono sempre state, mentre l'odio di classe è stato nel passato molto intermittente e mai forse così forte come oggi a causa della propaganda socialista. La verità è che l'uomo non ha il potere di far nascere nei proprii simili passioni nuove, che siano ad essi ignote, ma ha quello di sovraeccitare le passioni di cui già esistono i germi nel cuore umano, e fra queste sono comprese l'odio e l'invidia. E si sa che uno dei mezzi più facili e comuni per sovraeccitare le due passioni menzionate consiste nel far credere che le sofferenze fisiche e morali, da cui tutti sono più o meno travagliati, siano un effetto dell'altrui malvagità.

[511] Ricordiamo in proposito quanto abbiamo scritto al § 11 del Cap. X della prima parte di questo lavoro.

[512] Fra le molte descrizioni che se ne sono fatte ricorderemo quella efficacissima di John-Meynard Keines (vedi Le conseguenze economiche della pace. Milano, Treves, 1921 e l'opera di Francesco Saverio Nitti intitolata L'Europa senza pace. Firenze, Bemporad, 1921.

[513] Il dissidio fra quei Marxisti che vorrebbero l'attuazione immediata e violenta del programma, che comunemente viene attribuito al loro maestro, e quegli altri che ne propugnano l'attuazione lenta e graduale ha fatto sì che i seguaci del Marxismo, in Italia ed in altri paesi, si siano negli ultimi anni divisi in due frazioni. Coloro che aderiscono alla frazione più violenta hanno preso il nome di Comunisti, gli altri hanno conservato quello antico di socialisti. Un criterio più scientifico per distinguere il Socialismo dal Comunismo è quello che abbiamo accennato nella prima parte del lavoro, secondo il quale nel Socialismo la retribuzione che la comunità darebbe ad ogni lavoratore sarebbe in rapporto coll'efficacia dell'opera prestata, mentre nel Comunismo ogni lavoratore avrebbe una retribuzione adeguata ai proprii bisogni (vedi Parte Prima, Cap. X, § XI, in nota). Questo criterio è precisamente quello adottato da Lenin, il quale afferma che in una prima fase si dovrà attuare il sistema socialista, ed in una seconda fase, quando la società si sarà completamente liberata dalle sopravvivenze della moralità o meglio della immoralità borghese, quello comunista. Vedi LeninStato e Rivoluzione, traduzione del prof. G. Sanna, da pagina 102 alla 116. Milano, Tipografia editrice Avanti, 1920.

[514] Naturalmente la previsione che abbiamo fatto relativamente alla trasformazione della minoranza che ora domina in Russia in una nuova borghesia parte dal presupposto che colà non debba fra pochi anni avvenire una controrivoluzione; ciò che non sembra a dir vero molto probabile, ma che non si può ancora ritenere come impossibile.

[515] Vedi Parte Prima, Capitolo X e specialmente i paragrafi XI, XII, XIII e XIV.

[516] Parecchie persone degnissime di fede ed estranee alle lotte civili della Russia, perchè di nazionalità straniera, le quali sono state in Russia durante il trionfo del Bolscevismo, ci hanno assicurato che i Soviet sono in grande maggioranza costituiti da elementi allogeni, Ebrei, Lettoni, Armeni, ecc., e che lo stesso accade fra i funzionari dell'attuale governo russo. Qualcuno ci ha perfino mostrato qualche documento che suffragava le sue affermazioni, che sono del resto conformi a quelle che dicono in proposito i profughi russi. Una famiglia d'Israeliti russi, che non aveva preso alcuna parte alla rivoluzione, ha detto ad un Italiano che essa viveva in continuo timore di una controrivoluzione, perchè, se questa fosse avvenuta, non un Israelita sarebbe rimasto vivo in tutta la Russia. Un altissimo funzionario dell'attuale governo russo ha detto ad un altro italiano che ce l'ha riferito: "il nostro è un governo pessimo, ma se esso cade non ci sarà più in Russia alcun governo possibile". Molte cose, che sarebbero oscure, si spiegano agevolmente se si pon mente alle due ultime affermazioni che abbiamo citato e se ne traggono le conseguenze.

[517] Forse è opportuno ricordare che il regime burocratico del quale noi ci occupiamo non sarebbe paragonabile a nessuna delle diverse forme di regime rappresentativo: non a quella parlamentare, che è in vigore in Inghilterra, in Francia e normalmente anche in Italia, non a quella presidenziale, che funziona negli Stati Uniti d'America, e neppure a quella semplicemente costituzionale, che vi era in Germania fino al 1918. Ma sarebbe invece una specie di Cesarismo, come quello che si ebbe in Francia durante il primo impero napoleonico, ed anche, in modo più temperato, durante il secondo impero fino al 1868; cioè una forma di governo nella quale il Parlamento aveva una funzione quasi esclusivamente decorativa. Forse anche il novello Cesarismo cercherebbe di costituirsi una base legale mercè il Referendum popolare, ossia i plebisciti, come appunto fecero i due Cesarismi napoleonici.

[518] Crediamo opportuno di avvertire il lettore che una parte dei concetti svolti in questo paragrafo e nel susseguente furono già esposti dall'autore in un discorso tenuto alla Camera dei deputati il 7 marzo 1919 ed in due discorsi tenuti al Senato, l'uno il 31 marzo 1920 e l'altro il 27 novembre 1922. Ma, siccome i resoconti parlamentari sono generalmente ben poco letti, ci è sembrato utile di ripetere, abbreviandola, l'esposizione delle stesse idee nel presente lavoro. Alcune altre delle idee ora svolte erano state già abbastanza largamente accennate in quegli articoli pubblicati in giornali quotidiani che abbiamo ricordato a pag. 400 del presente lavoro.

[519] Può essere opportuno ricordare che il volume al quale alludiamo è quello sulla Teorica dei Governi e sul Governo parlamentare che già abbiamo citato.

[520] Come si sa in Italia ed in altri paesi vige la mostruosità giuridica che permette a colui che scrive in un periodico, quando egli vuole restare anonimo od ignoto, di sfuggire alla responsabilità penale che viene attribuita al cosidetto gerente responsabile (Vedi a proposito Appunti di diritto costituzionale, a pagine 167-168). Quando accenniamo ad una critica onesta degli atti dei governanti intendiamo alludere anche a quella critica che si basa sopra un fondamentale dissenso d'idee e di principii politici, purchè essa non si abbassi fino all'ingiuria volgare, alla menzogna consapevole e sfacciata ed al turpiloquio.

[521] In Italia si sa che non è stato mai possibile di fare una legge speciale che disciplini il diritto di associazione, di maniera che la norma principale e quasi esclusiva, che nello stesso tempo limita e guarentisce questo diritto, consiste nell'articolo 251 del Codice penale, che commina la detenzione da sei a diciotto mesi a coloro che fanno parte di un'associazione, la quale si propone come scopo l'apologia di un reato, l'incitamento alla disobbedienza verso la legge, ovvero l'eccitamento all'odio di classe in modo pericoloso per la pubblica tranquillità. Vede subito ognuno come quest'apprezzamento possa essere subiettivo, come oggi possa essere considerato come pericoloso ciò che ieri era ritenuto innocuo e come lo stesso possa accadere da una città all'altra dello stesso Stato (Vedi anche in proposito MoscaAppunti di diritto costituzionale, terza edizione, da pagina 160 alla 165).

Qualcuno forse rileverà che, fra i mezzi più adatti per assicurare la durata del regime rappresentativo, non abbiamo accennato ad una restrizione del suffragio politico. Rispondiamo che la concessione del suffragio universale fu uno di quegli errori, non rari nella vita pubblica come nella privata, sui quali non si può tornare indietro se non commettendo un secondo errore, che può anche esso avere conseguenze gravi e non facilmente prevedibili.

Infine faremo notare come un breve periodo durante il quale un governo forte ed onesto eserciti molti poteri ed abbia molta autorità può in qualche nazione europea essere riguardato come opportuno, perchè può contribuire a preparare quelle condizioni che renderanno possibile, in un prossimo avvenire, il normale funzionamento del regime rappresentativo. Anche a Roma, nei migliori tempi della Repubblica, qualche volta si ricorreva, per brevi periodi, alla dittatura.